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Economia
Italia sola contro tutti sulla strategia Ue contro la plastica monouso

Italia sfida la normativa UE sulla plastica monouso

Nel Consiglio europeo di dicembre, i ministri dell’ambiente hanno concordato e approvato una proposta di regolamento su imballaggi e rifiuti di imballaggi che spinge per una riduzione di questi rifiuti, sia attraverso una restrizione all’immissione in commercio per alcuni imballaggi monouso del settore alimentare e cosmetica sia introducendo per la prima volta obiettivi di riutilizzo (numero minimo di viaggi o rotazione e sistemi di restituzione). La proposta è arrivata in Consiglio Ue dopo circa un anno dal lancio da parte della Commissione, passando attraverso il fuoco incrociato degli interessi dell’industria del packaging tradizionale che ha cercato di affossarla durante l’esame al Parlamento, da dove era infatti uscito un testo molto annacquato rispetto agli obiettivi di riduzione e riuso.

Unico Paese a votare contro le decisioni del Consiglio è stata l’Italia, dove la fiorente industria degli imballaggi in plastica e bioplastica e quella del riciclo sono da tempo sul piede di guerra. Ma è una scena già vista in occasione della Direttiva SUP contro le plastiche monouso. Il regolamento imballaggi si inserisce all’interno di un intervento più ampio di messa al bando della plastica che l’UE ha avviato già da qualche anno con la direttiva 2019/904 (c.d. Direttiva SUP – Single Use Plastics), primo intervento legislativo teso a mettere un freno alla diffusione del monouso, tra le principali cause dell’inquinamento delle spiagge e dei mari europei e non solo, costituendo il 77% circa dei rifiuti marini.

È il provvedimento che, per la prima volta, ha messo al bando ad esempio i piatti, bicchieri e posate di plastica, emblema di questo inquinamento planetario. Anche in quell’occasione l’Italia aveva battuto i pugni sul tavolo e alzato la voce, recependo la direttiva solo nel gennaio 2022, con ben sei mesi di ritardo rispetto alla scadenza che la stessa aveva fissato per gli Stati membri e assumendo posizioni isolazioniste.

Il decreto legislativo di recepimento (D.lgs. 196/2021), infatti, vieta l’immissione sul mercato di prodotti monouso come posate, piatti e cannucce di plastica ma introduce un’ampia eccezione a favore dei manufatti realizzati in plastica cosiddetta biodegradabile o compostabile secondo la norma UNI EN 13432. Tale disposizione però risulta in contrasto con la direttiva 904 che non fa differenza tra plastica tradizionale derivata dal petrolio e plastica biodegradabile/compostabile perché, come poi chiarito successivamente dalle Linee Guida per l’applicazione emanate dalla Commissione, “sulla base del regolamento REACH e dei relativi orientamenti dell’ECHA, i polimeri prodotti mediante un processo di fermentazione industriale non sono considerati polimeri naturali in quanto la polimerizzazione non ha avuto luogo in natura”.

Dunque per l’Europa le restrizioni alla vendita riguardano non solo le plastiche di origine fossile ma anche quelle da biomasse, considerate non diverse. Tale previsione, in assoluto contrasto con la direttiva europea, espone il nostro paese ad una procedura d’infrazione. Peraltro la decisione tutta italiana non sembra essere sorretta da solide basi scientifiche. Come dimostrato da un’indagine dell’Unità investigativa di Greenpeace (anche se contestata da Biorepack e Assobioplastiche, consorzio per il riciclaggio dei materiali e principale associazione di categoria), il 63% della frazione organica del nostro Paese finisce in impianti di compostaggio anaerobici che non sono in grado di trattare le plastiche compostabili, che vengono così scartate per finire a discarica o incenerimento. Soluzione peggiore della plastica tradizionale che poteva essere anche in parte riciclata.

LEGGI ANCHE: L'Ue accelera sul green, ok alla norma sugli imballaggi. Ma l'Italia è contro

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