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Economia
La questione femminile al Sud. Il forte divario negli indicatori della Svimez

“Affrontare le questioni del Mezzogiorno al femminile consente di cogliere uno dei nodi centrali rimasti irrisolti nel nostro Paese che, in particolare nella condizione della donna, continua a marcare divari particolarmente sensibili con i principali partner europei”. In occasione dell’8 marzo, la Svimez anticipa alcuni aggiornamenti dei dati di una ricerca sulla condizione delle donne nel Sud, dalla quale emerge con chiarezza come la questione femminile sia una delle facce più evidenti e problematiche della più generale Questione meridionale. Secondo l’istituto romano, “i principali indicatori evidenziano come la situazione di svantaggio italiana sia in larga parte legata ai valori delle regioni meridionali”. Qualche parallelo con le regioni d’Europa può essere utile a mettere meglio a fuoco il fenomeno: il tasso d’occupazione femminile tra 15 e 64 anni, in Sicilia, Campania, Puglia e Calabria, è addirittura più basso della Guaiana francese, dell’Estremadura spagnola, della Tessaglia e della Macedonia in Grecia.

Il paradosso delle giovani donne meridionali.                                                                                                             “Le giovani donne meridionali subiscono una triplice ingiustizia a causa della disuguaglianza sociale, sotto forma di divario territoriale, generazionale e di genere. Queste ultime -rileva la ricerca Svimez- vivono il paradosso di essere le punte più avanzate della “modernizzazione” del Sud (persino sul piano civile)  perché hanno investito in un percorso di formazione e di conoscenza che le rende depositarie di quel “capitale umano” che serve per competere nel mondo di oggi e insieme le vittime designate di una società più immobile che altrove, e dunque più ingiusta, che finisce per sottoutilizzare, rendere marginali o “espellere” le sue energie migliori”.

Al Sud il tasso di occupazione femminile più basso d’Europa.                                                                                Il tasso di occupazione femminile nel Mezzogiorno è tra i più bassi in Europa. Il divario delle regioni del Sud rispetto alla media europea, già elevatissimo nel 2001 (circa 25 punti percentuali), si è ulteriormente ampliato arrivando sopra i 30 punti, nel 2017. “Confrontando il tasso di occupazione delle 19 regioni e le due province autonome italiane con il resto delle 276 regioni europee emerge un quadro alquanto problematico. Il confronto -sottolinea la Svimez- conferma la peculiarità della situazione italiana: solo la provincia di Bolzano si colloca nella prima metà delle regioni europee, con un tasso di occupazione femminile pari a 71,5%, alla posizione 92 nella graduatoria. Seguono Emilia Romagna (153) e Valle d’Aosta (154) e la provincia di Trento (175), con tassi di occupazione femminili intorno al 65%, in linea con la media europea dei 28 Paesi membri che è pari al 66,3%. Delle rimanenti regioni del Centro-Nord, Toscana, Piemonte e Lombardia si collocano intorno alla duecentesima posizione, mentre le altre su posizioni più arretrate con il Lazio ultimo in 236 posizione con un tasso del 55,4%”. Le regioni del Mezzogiorno sono sensibilmente distanziate da quelle del Centro-Nord e si collocano tutte nelle ultime posizioni, con Puglia, Calabria, Campania e Sicilia nelle ultime quattro e valori del tasso di occupazione intorno al 30%, di circa 35 punti inferiori della media europea”. Tra le regioni meridionali le posizioni meno sfavorevoli sono quelle Abruzzo (256) con un tasso di occupazione pari al 47,6%, Molise (260) e Sardegna (261) con tassi di occupazione intorno al 45%”.

Per le donne mansioni dequalificate.                                                                                                                    L’Italia si distingue per essere uno dei pochi Paesi ad aver contratto il peso del lavoro qualificato, a favore di un incremento del lavoro meno qualificato, soprattutto nei servizi alla persona e domestici. Nel 2018 sono state 3 milioni 663 mila le donne che hanno svolto lavori qualificati, di queste, però, appena 851 mila sono meridionali, meno di un quarto del totale. La quota di donne occupate in posizioni cognitive altamente specializzate (inclusi i manager) sale tra il 2001 ed il 2008 dal 34,1 al 44,1% per poi riscendere al 38,1% nel 2014. Dinamiche simili si rilevano nelle due circoscrizioni, con perdite più consistenti nelle professioni più qualificate nel Mezzogiorno. Ad oggi, il confronto con gli altri paesi europei evidenzia un peso per le donne italiane occupate sensibilmente più basso nelle professioni altamente qualificate rispetto alla media Europea (con un leggero vantaggio solo su Spagna e Grecia). Per converso più alta è la quota delle professioni elementari. Il fenomeno del downgrading ha rappresentato una sorta di "ristrutturazione alla rovescia" del nostro mercato del lavoro che si è scaricato soprattutto sulla componente femminile e nelle regioni meridionali. Le cause principali sono state il netto calo della domanda pubblica (allargata all’intero sistema della sanità, dell’assistenza sociale e dell’istruzione), il rallentamento della crescita dell’occupazione nelle grandi imprese, nonché la tendenza del sistema produttivo a mantenere la competitività più attraverso l’abbattimento dei costi che mediante la crescita della produttività con l’innovazione tecnologica. La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: meno donne che lavorano al Sud (in totale 2 milioni e 283 mila su 9.760 mila in tutt’Italia) ma, soprattutto, con mansioni prevalentemente dequalificate.

Non valorizzata la formazione.                                                                                                                                            Dalle elaborazioni Svimez su dati Eurostat ed Istat al 2018, si nota che il tasso d’occupazione femminile e donne in possesso di laurea è ancora molto basso al Sud, appena il 63,7%, contro una media dell’81,3% in Europa e del 79,8% del CentroNord. Dato che viene confermato anche dall’indagine Istat sull’inserimento professionale dei laureati, dalla quale si rileva che delle donne laureate nel 2011 avevano un lavoro continuativo nel 2015, a livello nazionale il 74,8%. Il basso livello della domanda di lavoro nel Mezzogiorno, oltre che le condizioni più difficili per le donne meridionali, emergono anche dal fatto che delle donne meridionali occupate, una su tre lavora al Nord, circa il 62%, e la componente femminile meridionale è molto più mobile rispetto a quello maschile. A parità di qualifica, inoltre, le donne guadagnano meno. Le laureate sono inoltre penalizzate anche dal punto di vista retributivo: una donna laureata da quattro anni che lavora al Sud ha un reddito medio mensile netto di 300 euro inferiore a quello di un uomo (1000 euro contro 1300). A livello nazionale il differenziale è di poco inferiore circa 250 euro. Il differenziale riflette differenze significative nel carattere dell’occupazione, nei regimi di orario oltre che nelle tipologie di laurea con le donne che sono più concentrate nelle lauree meno favorite in termini di occupazione e retribuzione. Le donne lavoratrici dipendenti guadagnano in media 1.281 euro mensili nette, se sono impegnate a tempo pieno, contro i 1.398 delle loro omologhe nel Centro-Nord. Tra le laureate il divario di genere si attenua ma non si annulla.

La povertà femminile è più drammatica al Sud.                                                                                                     Le donne in Italia rappresentano il 14,3% delle persone senza dimora: secondo l’Istat, si tratta di persone con un’età media di circa 45 anni, che vivono la condizione di senzatetto mediamente da poco meno di tre anni. Oltre il 20% vive nelle regioni meridionali e insulari. Più di un quarto ha un lavoro, (il 28%), che le impiega in media per 15 giorni al mese, da cui ricavano un guadagno di 330 euro. Gli eventi scatenanti legati alla condizione di senza dimora per le donne sono nella maggior parte dei casi riconducibili a rotture familiari, separazione dal partner e/o dai figli (70%), per quasi la metà alla perdita del lavoro stabile (49,7%), infine, per il 27,6%, alla presenza di malattie croniche, forme di disabilità e/o di dipendenza da sostanze e alcool. Il rischio di povertà per le donne è superiore a quello degli uomini, soprattutto per le fasce di età relative alla maternità (23,5% contro il 19,9% degli uomini per le 25-34enni) e per le over 75 (18,7% contro il 12,1% degli uomini).

Un welfare squilibrato si scarica sulle donne                                                                                                             La scarsa partecipazione femminile è connessa all’incapacità delle politiche italiane di welfare e del lavoro di conciliare la vita lavorativa a quella familiare, causando anche incertezza economica e una modifica dei comportamenti sociali, tra cui la riduzione del tasso di fertilità delle italiane. Nell’ultimo decennio le donne meridionali sono passate dai tassi di fertilità molto più elevati rispetto a quelle del Centro-Nord a tassi sensibilmente più bassi: 1,29 figli per donna al Sud rispetto a 1,34 nelle regioni centrali e settentrionali. Contro 1.90 della Francia, 1,75 della Danimarca, 1,57 della Germania. Ciò è anche una conseguenza di servizi per l’infanzia offerti dalla pubblica amministrazione alquanto carenti: nel Mezzogiorno la percentuale di bambini minori di tre anni che ha usufruito di servizi per l’infanzia è del 2% in Calabria, del 3% in Campania, del 4,8% in Sicilia, con una media meridionale pari appena al 5%, contro il 16,6% del Centro-Nord, con punte di oltre il 20% in Trentino, in Friuli, in Valle d’Aosta, in Emilia, in Toscana.

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