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Economia
Manovra, Svimez: più effetti al Sud. Ma per il Reddito servono 15 miliardi

Si riapre la forbice tra Centro-Nord e Mezzogiorno, prosegue la ripresa dell’economia. Ma in un clima di grande incertezza e con il rischio di una frenata. Il manifatturiero meridionale recupera, ma la spesa pubblica si contrae e le risorse europee restano al palo. E se il Pil delle regioni del Centro-Nord cresce dell’1,5%, quello del Sud aumenta dell’1,4%. Le stime del prodotto interno lordo per il Paese segnano invece una crescita dell’1,2% anzichè dell’1,5%.

Secondo il Rapporto 2018 di Svimez, in corso di presentazione a Roma da parte del presidente Adriano Giannola e del direttore Luca Bianchi, il saggio di crescita del Pil dovrebbe attestarsi all’1,3% nel Centro-Nord e allo 0,8% nel Mezzogiorno. Nel corso dell’anno gli investimenti, che sono la componente più dinamica della domanda, cresceranno però in entrambe le aree, ma in maniera più marcata al Nord: +3,8 nel Sud, +6,2% nel Centro-Nord.

Ma è soprattutto la riduzione dei consumi totali, che s’incrementano nel Mezzogiorno dello 0,5% e al Centro Nord dello 0,8%, ad incidere maggiormente sul rallentamento meridionale. Anche i dati della spesa europea, dopo il calo del 2017, confermano che nell’anno in corso non c’è alcuna accelerazione delle spese in conto capitale, scontando le difficoltà delle amministrazioni, soprattutto locali, nell’erogare i maggiori stanziamenti previsti nelle ultime leggi di bilancio. L’export meridionale a fine 2018 prevede segni a +1,6% rispetto al +3% del Centro Nord. Infine le unità di lavoro salgono dell’1% nelle aree meridionali e dello 0,8% nelle regioni centrali e settentrionali.

Economia meridionale: la lenta ripresa, i rischi di una frenata.

Prosegue dunque la lenta ripresa, seppur in un contesto di grande incertezza e col rischio di una frenata dell’economia meridionale. La crescita è legata al forte recupero del comparto manifatturiero (+5,8%), in particolare nelle attività legate ai consumi, e, in misura minore, delle costruzioni (1,7%). I positivi segnali di ripresa dell’ultimo triennio dal 2015 al 2017 testimoniano la graduale uscita dalla crisi dell’industria manifatturiera nel Mezzogiorno, che ha realizzato un recupero più che doppio rispetto al resto del Paese.

La crisi geopolitica nell’area del Mediterraneo ha favorito i flussi turistici verso il Sud nel 2017, con un aumento del valore aggiunto del 3,4%, un numero di viaggiatori stranieri nel Mezzogiorno cresciuto del 7,5%, un incremento della spesa turistica del 18,7%.

I consumi finali interni nel 2017 sono moderatamente cresciuti nel Mezzogiorno, +0,8%, la ripresa è stata trainata dagli investimenti privati, che nel Sud sono aumentati del + 3,9%, l’aumento degli investimenti al Sud ha riguardato tutti i settori.

L’incremento è stato lievemente superiore a quello del Centro-Nord (+3,7%), pur se, rispetto ai livelli pre crisi, gli investimenti fissi lordi sono cumulativamente nel Mezzogiorno ancora inferiori del -31,6% (ben maggiore rispetto al Centro-Nord, -20%). Dalle stime Svimez, emerge una forte disomogeneità della ripresa nelle regioni, anche se il triennio 2015-2017 conferma che la recessione è ormai alle spalle per tutte: gli andamenti sono, però, alquanto differenziati, sia sul piano regionale che su quello settoriale, soprattutto nel Mezzogiorno.

Nel 2017, Calabria, Sardegna e Campania sono le regioni meridionali che hanno fatto registrare il più alto tasso di sviluppo, rispettivamente +2%, +1,9% e +1,8%. Si tratta di variazioni del PIL comunque più contenute rispetto alle regioni del Centro-Nord, se confrontate al +2,6% della Valle d’Aosta, al +2,5% del Trentino Alto Adige, al +2,2% della Lombardia.

Si contrae sempre più la spesa pubblica

Per Svimez è preoccupante la contrazione della spesa pubblica corrente nel periodo 2008-2017. Il calo è del 7,1% nel Mezzogiorno, mentre cresce dello 0,5% nel resto del Paese. La sintesi del declino della spesa infrastrutturale in Italia può essere espressa dal tasso medio annuo di variazione nel periodo 1970-2017, che è stato pari a -2% a livello nazionale, ma appena -0,9% nel Centro-Nord e -4,7% nel Mezzogiorno. Negli anni più recenti gli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, risultano pari a meno di un quinto del totale nazionale, negli anni ‘70 erano quasi la metà.

Secondo la Svimez, solo la rapida attivazione della clausola del 34% potrebbe invertire il trend, ma dovrebbe riguardare non solo le amministrazioni centrali ma anche il settore pubblico allargato. Svimez chiede inoltre di rafforzare l’efficacia di tale norma prevedendo un monitoraggio al Parlamento e l’istituzione di un Fondo di perequazione delle risorse ordinarie in conto capitale, in cui riversare le eventuali risorse non spese nel Mezzogiorno, per poi finanziare i programmi maggiormente in grado di raggiungere l’obiettivo del riequilibrio territoriale.

I primi dati di attuazione non fanno che confermare il forte ritardo accumulato nell’avvio della programmazione per il ciclo 2014-2020. Per l’organismo romano questi primi dati segnalano il ritardato avvio delle nuovo ciclo di programmazione della coesione europea, ma soprattutto la mancanza di una politica di coesione nazionale, essenzialmente finanziata con l’FSC, che è rimasta al palo.

Con la conseguenza di provocare una duplice sostitutività dei Fondi strutturali europei: da un lato per l’insufficiente spesa in conto capitale ordinaria e dall’altro per un mancato utilizzo delle leve nazionali della politica di coesione. In particolare, i dati della Ragioneria sull’andamento del Fondo per lo sviluppo e la coesione per il 2014-2020, rilevano che, su un totale di risorse programmate che ammonta complessivamente a 32 miliardi, gli impegni non arrivano a 1,7 miliardi mentre i pagamenti ammontano a circa 320 milioni.

Si tratta di un livello di attuazione fermo, tre anni dopo l’avvio previsto della programmazione, all’1% delle risorse programmate. Particolarmente deludente l’attuazione finanziaria del FSC 2014-2020 all’interno dei Patti per lo sviluppo, ferma anch’essa all’1,1%. Per Svimez si tratta di un sostanziale fallimento.

Se frena il Sud, frena l’Italia. Centro-Nord e Mezzogiorno crescono o arretrano insieme.

La crescita del Mezzogiorno, al di là della rilevanza dei fattori locali, secondo Svimez, è fortemente influenzata dall’andamento dell’economia nazionale, e viceversa. La crescita del Centro-Nord, al di là della sua maggiore integrazione nei mercati internazionali, è altrettanto dipendente, per diverse ragioni, dagli andamenti del Mezzogiorno. Lo dimostra il fatto che nel periodo 2000-2016 le due macro-aree hanno condiviso la stessa dinamica stagnante del Pil pro capite: +1,1% in media annua. Secondo stime, 20 dei 50 miliardi circa di residuo fiscale trasferito alle regioni meridionali dal bilancio pubblico ritorneranno al Centro-Nord sotto forma di domanda di beni e servizi.

La Svimez stima che la domanda interna per consumi e investimenti del Mezzogiorno attiva circa il 14% del PIL del Centro-Nord.  Con riferimento al 2017, la domanda espressa da consumatori meridionali per beni di consumo e d’investimento ha dato luogo a una produzione realizzata nel Centro-Nord per un ammontare di 186 miliardi di euro. Un valore pari alla metà dell’attivazione esercitata dalla domanda estera sul Pil del Centro-Nord.

Anche per questo motivo l’avvio del “regionalismo a geometria variabile”, che il governo asseconda, allarma la Svimez, perché va ben oltre il federalismo fiscale della riforma del titolo V della Costituzione, tradotto nel 2009 nella mai applicata legge Calderoli. La quale si ispira a un Federalismo Fiscale basato sul principio di equità orizzontale che legittima l’azione redistributiva e perequativa di uno Stato come l’Italia che è Federale ma Unitario, e non Confederale.

Invece, la richiesta della Regione Veneto di finanziare le funzioni aggiuntive va in direzione di trattenere sin da oggi nel proprio territorio parte delle entrate erariali attualmente destinate dallo Stato a finalità perequative. In proposito, l’organismo romano ritiene che, in vista di ulteriori attribuzioni di funzioni, qualsiasi decisione concernente le risorse debba rigidamente corrispondere ai criteri fissati dalla legge 42 e che questa rappresenti la base dalla quale partire per realizzare il superamento del criterio della spesa storica senza stravolgere la progressività del sistema tributario. A tal fine va resa rapidamente operativa la definizione di costi standard e dei livelli essenziali delle prestazioni per la determinazione dei fabbisogni degli enti territoriali, con il proposito di eliminare le inefficienze manifestatesi nelle differenti regioni italiane.

L’impatto del Reddito di Cittadinanza, effetti positivi e negativi

In attesa dei dettagli della misura, Svimez ha effettuato una stima sull’impatto del Reddito di Cittadinanza, considerando una spesa pari a 8 miliardi, al netto di 1 miliardo destinato alla riqualificazione dei centri per l’impiego. La misura consentirebbe di ampliare significativamente la platea dei destinatari rispetto all’attuale Reddito di Inclusione ma non di assicurare il raggiungimento della soglia dei 780 euro indicata dal Governo, in quanto, secondo calcoli, il raggiungimento di tale soglia richiederebbe uno stanziamento di circa 15 miliardi.

Prendendo a riferimento le famiglie con Isee inferiore a 6mila euro e pur tenendo conto che circa il 50% potrebbe avere una casa di proprietà, secondo le risorse sarebbe possibile erogare un sussidio compreso tra i 255 euro per una famiglia monocomponente e i 712 per una con cinque o più componenti. In tutto, circa 1,8 milioni di famiglie.

Ciò avvantaggerà il Mezzogiorno che assorbirà circa il 63% del Reddito di Cittadinanza. Considerando poi che i beneficiari di tale reddito si concentreranno prevalentemente ma non esclusivamente al Sud, un primo limite è dato dal fatto che si tratta di una misura esclusivamente monetaria, neanche mitigata da meccanismi di premialità a chi integra il sussidio con redditi di lavoro, come avviene in altri Paesi.

Inoltre, l’efficacia di un sussidio monetario in zone, quali le periferie urbane, le aree interne del Sud come del Nord in cui sono estremamente deboli le strutture pubbliche che offrono servizi al cittadino, dipenderà dal collegamento tra il beneficio economico e la partecipazione a programmi di attivazione e di accettazione di offerte di lavoro. E ciò, nel Mezzogiorno soprattutto, rischia di non potersi realizzare per le attuali, scarse potenzialità dei Centri per l’impiego. Infine, solo la effettiva disponibilità di posti di lavoro nelle aree meridionali può consentire di non trasformare questa misura in assistenziale.

Secondo Svimez, occorrerebbe inoltre creare un sistema integrato di servizi per le fasce più deboli della popolazione attraverso interventi mirati volti a contrastare l’abbandono scolastico, a integrare i servizi socio-sanitari (asili nido, strutture socio assistenziali per anziani) oggi carenti, a rafforzare le politiche attive del lavoro migliorando così la qualità della vita, per fare in modo che sussidi economici temporanei possano diventare parte di un progetto di inclusione più ampio.

Occupazione in ripresa, ma debole e precaria.

Al Sud nel 2017 gli occupati sono aumentati di 71 mila unità, +1,2%, mentre al Centro-Nord la crescita è stata di 194 mila unità. Con questo risultato il Centro-Nord ha recuperato completamente i livelli occupazionali pre-crisi, mentre il Sud resta di circa 310 mila occupati sotto il livello del 2008. A metà 2018, il numero di occupati nel Mezzogiorno è inferiore di 276 mila unità rispetto al livello del medesimo periodo del 2008, mentre nel Centro-Nord è superiore di 382 mila unità.

Il tasso di occupazione è ancora due punti al di sotto del 2008 nelle regioni meridionali (44,3% nel 2018, era 46% nel 2008) mentre ha recuperato i livelli 2008 nel Centro-Nord (65,9%). Con riferimento alle regioni, tra il primo trimestre del 2017 e quello del 2018, il tasso di occupazione sale in tutte le regioni del Sud, con modesti cali solo in Campania e Sicilia. Nel periodo 2008 – 2017, il Mezzogiorno si è caratterizzato per una contrazione più sensibile del tempo pieno (-10,7% a fronte del -3,3% del Centro-Nord), solo parzialmente compensata da una dinamica più accentuata del part time: l’incidenza del part time è passata, nel Mezzogiorno, tra il 2008 e il 2017, dal 12,6 al 17,9%.

Al Sud è, però, molto elevata l’incidenza del part time involontario, che si attesta negli ultimi anni attorno all’80%, contro il 55% del Centro-Nord. Nel corso del 2017 l’incremento dell’occupazione meridionale è dovuto quasi esclusivamente alla crescita dei contratti a termine (+61 mila, pari al +7,5%) mentre sono stazionari quelli a tempo indeterminato (+0,2%). Vi è stata una brusca frenata di questi ultimi rispetto alla crescita.

Se consideriamo il complesso del periodo di ripresa occupazionale 2015-2017 il tasso di trasformazione in lavoro stabile è in media pari al 9% al Sud e al 16% nel Centro-Nord. In questi anni si è profondamente ridefinita la struttura occupazionale, a sfavore dei giovani, testimoniata dall’invecchiamento della forza lavoro occupata. Il dato più eclatante è il drammatico dualismo generazionale: il saldo negativo di 310 mila occupati tra il 2008 e il 2017 al Sud è la sintesi di una riduzione di oltre mezzo milione di giovani tra i 15 e i 34 anni (-578 mila), di una contrazione di 212 mila occupati nella fascia adulta 35-54 anni e di una crescita concentrata quasi esclusivamente tra gli ultra 55enni (+470 mila unità).

E si amplia il disagio sociale

Nel Mezzogiorno si delinea una netta cesura tra dinamica economica che, seppur in rallentamento, ha ripreso a muoversi dopo la crisi, e una dinamica sociale che tende ad escludere una quota crescente di cittadini dal mercato del lavoro, ampliando le sacche di povertà e di disagio a nuove fasce della popolazione. Il numero di famiglie meridionali con tutti i componenti in cerca di occupazione è raddoppiato tra il 2010 e il 2018, da 362 mila a 600 mila (nel Centro-Nord sono 470 mila).

Preoccupante la crescita del fenomeno dei working poors, conseguente all’aumento di lavori a bassa retribuzione, dovuto a complessiva dequalificazione delle occupazioni e all’esplosione del part time involontario.

I poveri assoluti sono saliti nel 2017 poco sopra i 5 milioni, di cui quasi 2,4 milioni nel solo Mezzogiorno (8,4% e 11,4% dell’intera popolazione rispettivamente). Le famiglie in povertà assoluta nel 2016 erano 700 mila nel Mezzogiorno, sono divenute 845 mila nel 2017. Nell’area meridionale più di un quarto delle famiglie, coppie e monogenitori, con figli adulti, si collocano nella più bassa fascia di reddito, per giungere addirittura a circa la metà della popolazione se si parla di famiglie con figli minori.

L’incidenza della povertà assoluta aumenta nel Mezzogiorno soprattutto per il peggioramento nelle grandi aree metropolitane (da 5,8% a 10,1% nel 2017). Nelle regioni meridionali l’incidenza della povertà relativa risulta più che tripla rispetto al resto del Paese (28,2% a fronte dell’8,9% del Centro-Nord), a seguito del basso tasso di occupazione e di un reddito pro capite pari a circa il 56% di quello del Centro-Nord.

 

 

 

 

 

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