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Economia
Mediobanca,Generali e l'attesa del mercato.Sfide di Nagel, all'ultimo mandato?

“Siamo una delle poche banche in crescita in Italia” è stato per mesi il ritornello che Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, ha ripetuto in ogni sede e con ogni interlocutore e la Borsa sembra avergli dato almeno in parte ragione, visto che negli ultimi 12 mesi il titolo è risalito di un 46% circa, più di gruppi come Bper Banca (+19%), Banco Bpm (+22%) o Intesa Sanpaolo (+44%), in linea con quanto fatto da Credem (+47%) e dietro solo ai rialzi di Unicredit (+58%) e Ubi Banca (+85%). A tenere sempre alta l’attenzione di investitori e analisti è stata l’ambizione poco o per nulla celata di Nagel di fare “il grande passo”, anche grazie al piano industriale 2016-2019 che ha dato il via ad un riposizionamento strategico su attività bancarie specialistiche ad elevata redditività e su una maggiore capacità di generare ricavi e capitale.

mediobanca
 

Ma anche la prevista cessione di circa un 3% di Generali (Piazzetta Cuccia è il primo socio del leone di Trieste col 13,465%), che tarda a concretizzarsi e che potrebbe non vedere mai la luce se, come sembra, Nagel opterà alla fine per un “piano B” che porti alla creazione di una holding priva di debito a cui verrebbe girata l’intera partecipazione nella compagnia triestina e in cui verrebbero poi fatti entrare soci di minoranza (processo di valorizzazione). Un’ipotesi che è piaciuta agli analisti: quelli di Equita Sim (che sul titolo esprimono un giudizio “buy”, acquistare, con target price di 10,5 euro) hanno fatto notare come in questo modo Mediobanca risparmierebbe capitale, mantenendo allo stesso tempo il controllo sull’intera quota, per di più senza limiti temporali a 3 o a 5 anni come nel caso di una cessione a soggetti terzi con cui stipulare poi un patto di sindacato.

vincent bollorè
 

Il “piano B” su Generali di Nagel, che oggi è stato bacchettato dalla Consob con una multa di 70 mila euro per comunicazioni "incomplete" e "non corrette" sulla cordata nella contro-Opa su Rcs, avrebbe inoltre il pregio di rendere meno agevole una scalata ostile (scenario fino a pochi mesi fa giudicato poco o nulla credibile, ma che dopo le “avances” di Intesa Sanpaolo è apparso non più così inverosimile, specie nel caso in cui la pressione sui margini del settore finanziario riproponesse situazioni come quelle già viste nel 2011). In attesa di vedere come andrà a finire su Generali e se Nagel riuscirà a centrare gli ambiziosi obiettivi del piano industriale (risultato operativo in crescita a 1 miliardo di euro l’anno entro il 2019, Rote, ossia ritorno sul capitale tangibile, al 10%, Common Equity Tier 1 al 14% e una distribuzione di dividendi, o “payout”, confermata al 40% degli utili annui), Piazzetta Cuccia si è rifatta il trucco, anzi la governance: nel prossimo Cda, che sarà votato dai soci il 28 ottobre, salirà il peso dei consiglieri indipendenti che da 8 (inclusi i 2 riservati ai fondi) in un board composto di 18 membri saliranno a 9 in un Cda ridotto a a 15 consiglieri. Una piccola rivoluzione che però, ha subito fatto notare Nagel, costituisce “un netto miglioramento della governance della banca”, in linea con quanto richiesto dai grandi soci.

Mustier
 

Nel prossimo Cda sono confermati sia Nagel sia il presidente Renato Pagliaro, escono Marco Tronchetti Provera (Pirelli, col suo 1,79%, ha disdettato il patto), Tarak Ben Ammar, Gilberto Benetton, Gian Luca Sichel e Alexandra Youung, entrano Cesar Alierta, ex presidente di Telefonica, Massimo Tononi, ex banchiere di Goldman Sachs ed ex presidente di Mps (ma anche ex sottosegretario all’Economia e finanze), Gabriele Villa, professore dell’Università Cattolica, finora sindaco di Mediobanca, e Valerie Hortefeux, consigliere di Blue Solutions (gruppo Bolloré). Resta Alberto Pecci (socio all’1,51%) che succederà a Marco Tronchetti Provera come vice presidente e restano, dopo qualche incertezza, anche i Pesenti (0,98% tramite Italmobiliare), ma il peso di quello che probabilmente sarà l’ultimo patto di sindacato della storia di Mediobanca si riduce dal 30,69% al 28,9% del capitale.

Un ulteriore e forse definitiva “picconata” al concetto di “salotto buono” che lo stesso Nagel aveva favorito quando nel 2013 d’intesa con Renato Pagliaro aveva auspicato prima e realizzato poi una revisione del patto che superò la suddivisione degli azionisti in tre grandi gruppi e la durata biennale, vedendo al contempo calare la percentuale di capitale sindacato dal 42,03% al 30,05%.

Chissà se nel futuro di Mediobanca c’è quello di essere una “public company” o se finirà sposa, come alcuni rumor hanno ventilato più volte nel corso dell’ultimo anno, di uno dei suoi azionisti, Unicredit (socio all’8,697%)? Nell’uno come nell’altro caso per Nagel potrebbe rivelarsi l’occasione giusta per fare a sua volta un “grande passo”, divenendo un banchiere a tutto tondo; un poco come era stato Cesare Geronzi, il potente banchiere romano già deus ex machina di Banca di Roma-Capitalia, poi presidente di Mediobanca e infine di Generali, con cui lo stesso numero uno di Mediobanca si era scontrato nel 2011: corsi e ricorsi storici o sogni destinati a rimanere nel cassetto?

Luca Spoldi

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