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Economia
Mutui, azioni, bond e commodity. Investire con il petrolio a oltre 50 dollari

Una telefonata in piena notte tra i ministri del petrolio arabo, Khalid Al-Falih, e la sua controparte russa, Alexander Novak, è riuscita nel “miracolo” a cui i mercati non credevano più: un accordo in sede Opec per ridurre la produzione petrolifera degli aderenti al cartello viennese, grazie alla promessa che Mosca non si limiterà a congelare la propria produzione ma procederà ad un taglio pari alla metà di quanto deciso dall’Opec.

Così per la prima volta dal 2008 l’Opec ha accettato di tagliare dal primo gennaio la produzione di 1,2 milioni di barili al giorno e la Russia procederà a ridurla di 600 mila. Una notizia che i mercati hanno subito festeggiato, col Wti texano che ha chiuso la settimana a 51,68 dollari al barile (54,46 dollari al barile il Brent del Mare del Nord), superando il picco di 51,23 dollari visto, brevemente, agli inizi dello scorso giugno. 

La domanda che tutti si fanno è se l’accordo reggerà e se le quotazioni del petrolio potranno resistere dal dollaro forte che i previsti rialzi dei tassi americani (si inizierà a dicembre con un quarto di punto, ma nel 2017 potrebbero seguire da due a quattro ulteriori ritocchi all’insù) comportano. Dai tagli restano per ora escluse Algeria e Libia (mentre l’Iraq ha accettato di vedersi assegnare un limite per la prima volta dal 1990), oltre all’Iran (che potrà salire a 3,8 milioni di barili al giorno, 100 mila barili in più di quanto proponeva l’Arabia Saudita).

I commenti a caldo sono stati positivi, con Goldman Sachs (che però storicamente non è mai stata molto affidabile quanto a previsioni sull’andamento del prezzo del greggio) che ha subito sentenziato: i numeri dell’accordo sono “incredibilmente attraenti” e favoriranno la “normalizzazione delle scorte”. Non può che essere contento anche Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’Eni, che il mese scorso aveva sottolineato come il punto di pareggio del cane a sei zampe è intorno ai 50 dollari al barile e che dopo l’accordo ha sottolineato come dall’attuale squilibrio con una sovrapproduzione attorno ai 500-600 mila barili al giorno si potrebbe passare ad una domanda superiore all’offerta.

Un accordo importante per il settore, ha poi aggiunto il manager, che ci si augura possa “riequilibrare i prezzi e rilanciare gli investimenti, quindi le attività e i posti di lavoro”, anche se per ora è un accordo “a tempo” (fino a giugno prossimo), dopo di che bisognerà vedere se i prezzi continueranno a salire o si stabilizzeranno attorno ai livelli attuali. Contento è anche Donald Trump: il presidente eletto ha sempre detto di voler sostenere il settore petrolifero americano e in particolare i produttori di petrolio da scisti bitumosi, lo “shale oil”, che hanno punti di pareggio più elevati e dunque necessitano di quotazioni anche più alte delle attuali per produrre con profitto. 

In più lo stesso Trump, che come consulente per l’energia ha scelto il miliardario Harold Hamm (66esimo più ricco uomo al mondo), proprietario di Continental Resources, la cui fortuna è salita di 3 miliardi di dollari nelle ore immediatamente successive all’accordo, ha investito in due delle società che stanno costruendo il discusso oleodotto che unirà i giacimenti scistosi del North Dakota alle raffinerie dell’Illinois: la texana Energy Transfer Partners, che sta realizzando parte dell’oleodotto, e Phillips 66, veicolo societario che deterrà il 25% del Dakota Access Pipeline una volta completato.

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