Economia
Natuzzi: l’orgoglio italiano piagato da dazi, tavoli inutili e ministri distratti
La rappresentanza commerciale dell’Italia nel mondo non deve essere un ufficio per brochure, ma una squadra in campo, pronta a combattere per i nostri interessi

Natuzzi: l’orgoglio italiano piagato da dazi, tavoli inutili e ministri distratti

La vicenda Natuzzi, eccellenza globale dell’arredamento italiano che ha annunciato recentemente oltre 450 esuberi, è l’ennesimo esempio di come questo Paese riesca a pensare in grande solo a parole, mentre nei fatti confonde problemi seri con slogan da social. Per almeno un anno si è vaneggiato di dazi, perfino scrivendo titoli roboanti sulla stampa, senza mai capire realmente che cosa significasse quella parola sul portafoglio delle aziende italiane che esportano – e su quello dei lavoratori che qui producono con maestria e competenza.
Natuzzi non è un nome qualunque: è uno dei marchi che rappresentano il Made in Italy nel mondo, capace nonostante tutto di generare un giro d’affari che nel 2024 ha superato i 318 milioni di euro di fatturato complessivo – pur in lieve calo rispetto all’anno precedente. Nelle Americhe realizza oltre 90 milioni di fatturato, ma nel primo trimestre di quest'anno ha subito una frenata complessa, -5,4%, dovuta in prevalenza all'impatto dei dazi. Eppure, mentre il mondo fa i conti con guerre commerciali e politiche protezionistiche, noi in Italia ragioniamo come se la crisi fosse un dibattito da talk show e non una realtà che pesa sulla pelle degli imprenditori.
Soprattutto, mentre l’azienda cerca di riposizionare la produzione per il mercato nordamericano e di consolidare risultati, i dazi e le tensioni commerciali con gli Stati Uniti continuano a essere un macigno. Quel mercato – dove Natuzzi ha sempre puntato forte – non ha bisogno di annunci, ma di certezze e strategie, perché qui non si tratta di un semplice giochetto geopolitico ma di posti di lavoro veri, famiglie, filiere economiche.
E allora, proviamo a chiederci una cosa semplice: i dazi, di cui si è tanto parlato, chi li ha spiegati davvero al sistema produttivo italiano? Chi ha chiarito a manager e lavoratori quali categorie di prodotto fossero interessate, con quali tempistiche e quali compensazioni? Per troppo tempo si è fatto fumo, si è cavalcata l’indignazione, ma alla prova dei fatti non c’è mai stato un piano credibile né una comunicazione trasparente. Il risultato? Un’azienda che lotta per restare competitiva in un mercato globale sempre più complesso.
E qui arriviamo alla politica, o meglio alla tragicommedia dei tavoli di crisi. Lo sappiamo bene: ogni volta che un’impresa italiana entra in difficoltà si apre un tavolo, si convoca un ministero, si annunciano incontri, si pronunciano frasi di circostanza da parte del Mimit. L’ultimo incontro con Natuzzi – tenutosi al Ministero delle Imprese e del Made in Italy – ha visto l’azienda presentare il suo piano industriale per il triennio 2026-2028.
Sono stati discussi investimenti, efficientamento produttivo, riorganizzazione dei punti vendita. Peccato che questi stessi incontri siano troppo spesso il teatro di dichiarazioni roboanti e poco più, di promesse di attenzione che non si traducono in strumenti concreti, in progetti di politica industriale credibili, in scelte di Stato che davvero proteggano e valorizzino le imprese italiane sui mercati esteri.
E allora, permetteteci di dirlo senza giri di parole: il Mimit deve smettere di aprire tavoli di crisi che servono solo per ribadire la solita retorica sul sostegno alle imprese. Basti pensare al disastro dell'ex-Ilva. Il Made in Italy non sopravvive grazie alle passerelle ministeriali, ma con politiche commerciali coerenti, con l’abolizione dei lacci burocratici, con una diplomazia economica aggressiva e con una visione strategica vera sui rapporti con i partner internazionali. Parlare di “sostegno” mentre l’azienda annuncia la chiusura di stabilimenti e 479 esuberi è solo ipocrisia.
E che dire di Antonio Tajani, ministro degli Esteri? In questi mesi è stato così impegnato a gestire questioni interne da non accorgersi che, dall’altra parte dell’Atlantico, si stanno giocando partite decisive per l’export italiano. Quando un prodotto batte bandiera italiana negli Stati Uniti, non è sufficiente una visita di cortesia o una dichiarazione di facciata: servono trattative, alleanze strategiche e una presenza diplomatica forte e continua. La rappresentanza commerciale dell’Italia nel mondo non deve essere un ufficio per brochure, ma una squadra in campo, pronta a combattere per i nostri interessi.
Natuzzi è il simbolo di una battaglia più grande: quella di un sistema Paese che non può più permettersi di trattare l’economia come se fosse un capitolo marginale della politica. Qui non si parla di numeri astratti, ma di identità produttiva, di eccellenza che resiste, di lavoratori e territori che non possono diventare terreno di dileggio politico. È ora di smetterla con i dazi evocati a vanvera, con i tavoli inutili e con i ministri distratti. Natuzzi merita rispetto, serietà e strategie all’altezza del Made in Italy che rappresenta.
