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Economia
PopBari appesa al ricorso Ue su Tercas. Il salvataggio è sempre più a rischio
Marco Jacobini, Presidente della Banca Popolare di Bari, che partecipa alla Fiera Internazionale dell’agricoltura di Foggia con un proprio stand e la nuova gamma di prodotti dedicati “Semina”.

Che aria tira a Bari? Non sembrerebbe essere delle migliori, nella more che il previsto riassesto del gruppo Banca popolare di Bari vada in porto. L’istituto guidato dalla famiglia Jacobini è da tempo nei radar di autorità di vigilanza ed analisti finanziari che seguono il settore del credito, se non altro perché ormai da molti mesi, se non anni, i piccoli azionisti (l’istituto ha in tutto oltre 69 mila soci) faticano, per usare un eufemismo, a vendere le proprie quote, non essendo riusciti neppure il “mercatino” Hi-Mtf (sul quale l’istituto è sbarcato il 30 giugno 2017) a risolvere la questione. 

Nel mese di novembre, a esempio, risultano essere stati scambiati appena 500 quote, al prezzo di 2,38 euro per quota, a fronte di oltre 1,8 milioni di quote messe anche oggi in vendita che non trovano nessuna proposta d’acquisto in contropartita. A monte, resta insoluto il problema dei crediti deteriorati di un istituto che ha chiuso il 2018 in rosso di 397 milioni e che dovrebbe trasformarsi in Spa per riuscire, almeno, a sfruttare un beneficio fiscale massimo di 500 milioni legato alle Dta (Deferred tax asset, trasformazione di attività per imposte anticipate in crediti d’imposta) previsto nel caso di aggregazioni bancarie.

Banca popolare di Bari ormai da mesi sta accarezzando l’idea di agire da polo aggregante di altre realtà creditizie più piccole sia della Puglia (si è fatto il nome della Popolare di Puglia e Basilicata) sia della Campania (secondo indiscrezioni si guarda a Banca Regionale di Sviluppo, Banca del Sud e Popolare Vesuviana). Ipotesi auspicata da Assopopolari, il cui segretario generale Giuseppe De Lucia Lumeno ha ottimi rapporti con gli Jacobini, ed avvallata, pare, dalla Vigilanza di Banca d’Italia. Operazione che, tra l’altro, potrebbe favorire, per reazione, ulteriori aggregazioni sul territorio ad esempio tra la Banca popolare di Puglia e Basilicata e la Banca popolare pugliese. Ma per adesso nessuna delle potenziali “aggregate” ha mandato chiari segnali di disponibilità.

Se la direzione di marcia e gli obiettivi paiono chiari, ciò che resta al momento nebuloso sono dunque le tempistiche e gli esiti dell’intero processo di ristrutturazione e rilancio. Il piano elaborato dal capo azienda Vincenzo De Bustis sarebbe tuttora all’esame delle strutture interne e non avrebbe ancora ricevuto il definitivo via libera del Cda, anche se potrebbe essere questione di giorni. Una volta varata la trasformazione in Spa si procederebbe inoltre allo scorporo di alcune attività per creare una nuova banca cooperativa di piccole dimensioni controllata da Banca popolare di Bari che assolva al ruolo di “valorizzatore del territorio”.

Col passare del tempo, tuttavia, il costo dell’intera operazione, su cui sarebbero al lavoro Mediobanca e Oliver Wyman, sarebbe lievitato passando dai 500 milioni iniziali (300 milioni di aumento di capitale, 200 milioni tramite emissione di un prestito subordinato) ad una cifra tra 800 e 900 milioni. Visto anche l’appetito basso per non dire nullo da parte di investitori privati, sarà necessario l’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd), che dopo la pronuncia dello scorso marzo della Corte Ue può intervenire con lo Schema Volontario e interverrà, assieme a Mezzogiorno Credito Centrale (Mcc), controllato al 100% da Invitalia (chiamata a sua volta a ricapitalizzare Mcc). 

A patto, pare, che l’istituto pugliese faccia cadere ogni genere di richiesta/ricorso/risarcimento contro la Commissione Ue legato alla vicenda Tercas, l’istituto rilevato dalla popolare barese nel 2014 dopo due anni di commissariamento e poi accusato da Bruxelles di aver ricevuto 265 milioni di euro di aiuti di stato, illegittimi, dal Fitd sotto forma di ricapitalizzazione di Tercas ante cessione. Guarda caso, una cifra molto simile all’incremento ventilato dell’importo della ricapitalizzazione, cosa che farebbe presupporre che la più massiccia iniezione di capitali non serva tanto a ripulire ulteriormente i crediti deteriorati, a fine giugno scorso pari a 2,57 miliardi contro poco più di 7 miliardi in bonis, con un tasso di copertura media appena superiore al 39%, a fronte di un Cet1 pari al 6,22% contro l’8% minimo richiesto dalla Bce.

Ricapitalizzato l’istituto, fortemente diluiti gli Jacobini (che dovrebbero rinunciare al controllo dell’istituto) e gli altri soci attuali, resterà dunque da sistemare la partita delle sofferenze. Se interverrà Sga o un soggetto privato non è chiaro al momento, dato che questa storia sembra ancora da scrivere: se ne saprà, forse, di più una volta che il Cda dell’istituto pugliese abbia dato il suo via libera alla ricapitalizzazione e al piano di ristrutturazione e rilancio industriale sottostante.

 

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