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Economia
Rapporto Svimez: il Sud cresce di più ma aumenta la povertà

Le proposte SVIMEZ nel Rapporto 2016 sull'economia del Mezzogiorno presentato oggi a Roma

Serve una nuova politica industriale per il rilancio del Mezzogiorno, agli strumenti di incentivazione nazionali accesso troppo basso delle imprese meridionali. Bene ha fatto il Governo a ripristinare solo nel Mezzogiorno per il 2017 l'esonero totale dal pagamento dei contributi INPS a carico del datore di lavoro per i nuovi assunti, giovani e svantaggiati, a tempo indeterminato. Sì all'introduzione di una prima misura nazionale di contrasto alla povertà nelle famiglie a rischio, ma le risorse sono assolutamente insufficienti. Per Masterplan e Patti per il Sud servono: diverse e ulteriori forme di finanziamento, coordinamento e unitarietà della programmazione e una chiara strategia sovraregionale. Sono solo alcune delle proposte di rilancio del Sud avanzate dalla SVIMEZ nel Rapporto 2016 sull'economia del Mezzogiorno presentato oggi a Roma nella Sala del Tempio di Adriano della Camera di Commercio.
Una politica industriale per il rilancio del Mezzogiorno, basata su alcuni capisaldi: 1) Una parziale, inversione di tendenza degli aiuti alle imprese da parte del MISE c'è stata nel 2014, ma dopo un quindicennio di netta riduzione: è giunto il momento di cambiare registro, superando l'attuale basso accesso delle imprese meridionali alla quasi totalità di strumenti nazionali di politica industriale 2) Orientare le risorse verso interventi per la crescita dimensionale, l'internazionalizzazione, l'accesso al credito, oltre che a favore della ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico 3) Implementare Industria 4.0 declinando territorialmente a favore del Sud gli interventi di incentivazione 4) Finanziare a tasso zero le imprese meridionali per la nuova Sabatini e implementare anche al Sud i competence center. 5) Rilanciare l'attrattività degli investimenti al Sud attraverso le ZES (Zone Economiche Speciali).
Mercato del lavoro - Di fronte alla enorme sotto utilizzazione del capitale umano di giovani e donne e alla strutturale carenza di occasioni di lavoro specialmente qualificato, è importante che l'occupazione al Sud sia al centro della ripartenza, ma il divario strutturale è ancora troppo ampio: nel 2015 gli occupati al Sud erano sotto la soglia di 6 milioni. Peraltro, il maggior contributo alla ripresa occupazionale meridionale è venuto dai contratti a termine e part time, essendo agricoltura e turismo i settori che hanno fatto il più elevato numero di assunzioni. In definitiva, è l'occupazione atipica ad essere tendenzialmente cresciuta, e, in questo quadro, rientra anche l'esplosione dei voucher ai quali occorre mettere un freno. Per i giovani tra i 15 e i 34 anni il Sud si colloca

in fondo a ogni classifica europea, facendo registrare una condizione giovanile nel mercato del lavoro, e nella formazione, peggiore della Spagna e perfino della Grecia: basti pensare che al Sud ha una borsa di studio solo il 52% degli idonei, contro il 92% del Nord. Di qui l'idea della SVIMEZ di dar vita a un MIT per il Mezzogiorno. A sua volta il mercato del lavoro femminile è a bassa occupazione e qualificazione. Per di più, i servizi per l'infanzia offerti dalle PA sono carenti. Nel Sud appena un terzo dei Comuni offre asili nido, che coprono il 5% dei bimbi di età inferiore a 3 anni.
Povertà: necessarie misure specifiche di contrasto - Non è più rinviabile, secondo la SVIMEZ, una misura organica e universale di contrasto della povertà. Soprattutto alla luce della comparsa dei "nuovi poveri", lavoratori anche diplomati o laureati che con la crisi hanno subito un netto peggioramento della condizione economica (perdita di lavoro, riduzione di orario e salariale, perdita del potere d'acquisto connessa alla precarietà). Con la crisi, al Sud il 60% degli individui in famiglie giovani è a rischio povertà. L'adozione di un Piano nazionale per la lotta alla povertà e all'esclusione, con l'istituzione di un Fondo, è solo un primo passo. Ma le risorse messe in campo, che peraltro sono rimaste invariate anche per il 2017, sono ancora troppo poche e consentono di raggiungere al massimo un terzo di quei 4,5 milioni di persone, di cui circa 2 milioni e 100 mila nel Mezzogiorno, che attualmente in Italia versano in condizioni di povertà assoluta.
Patti per il Sud - La sfida per il Mezzogiorno è quella dell'addizionalità, solo così Masterplan e Patti per il Sud possono diventare strumenti davvero efficaci e non risolversi in una mera ricognizione di opere o nella sola accelerazione della spesa. A tal proposito, è condivisibile la mole di risorse importante destinate alla coesione e l'individuazione di aree tematiche in larga parte coincidenti con i driver indicati dalla SVIMEZ. Modesto, però, l'impatto finanziario per 2016 e 2017, con il rischio concreto di ulteriore sostitutività. Secondo la SVIMEZ, il Mezzogiorno può essere un'opportunità per l'economia italiana, la cui soluzione ai problemi strutturali non verrà da una ripresa internazionale alla quale agganciarsi, ma solo sviluppando gli investimenti, pubblici e privati

I driver.
1) Rilanciare la logistica -Realizzare Filiere Territoriali Logistiche al Sud, veri e propri district park (identificati 8: Napoli, Torre Annunziata, Salerno, Gioia Tauro, Taranto, Catania, Messina-Città dello Stretto, Termoli) con uno sbocco a mare adatto a ospitare porti di transhipment. Le FTL hanno lo scopo di attrarre flussi di merci trasformati e lavorati tramite attività logistiche ad elevato valore aggiunto, e poi esportate via mare, trattenendo così valore e ricchezza.
2) Rigenerazione urbana - Di fronte alla sfida delle 7 Città metropolitane del Sud, con le quali sono stati stipulati recentemente altrettanti Patti, la rigenerazione urbana diventa un'occasione per promuovere le capacità di coordinamento e integrazione degli interventi, a cominciare dal Piano periferie.
3) Energie rinnovabili, le biomasse - Il Sud potrebbe ritagliarsi un ruolo crescente nell'offerta di biomasse puntando su residui agricoli e dell'industria agroalimentare,  scarti  organici  alimentari,  colture  no-food.  Potendo, peraltro,


contare su centri di ricerca e università specializzate, dalla cui collaborazione sono scaturiti progetti innovativi: progetto di ricerca Enerbiochem in Campania, progetto BioPolis e STAR AgroEnergy in Puglia, bioeconomia in Sicilia. Senza sottovalutare né il piano di riconversione della raffineria di Gela da parte dell'Eni, puntando sulla produzione di biocarburanti avanzati, né la riconversione dell'ex petrolchimico di Porto Torres, dove si è deciso di investire in biomasse.
4) Matera e industria culturale - Il settore turistico meridionale tra il 2014 e il 2015 ha registrato interessanti performance: oltre un milione di presenze straniere negli esercizi ricettivi, un aumento pari all'8% della spesa dei turisti stranieri al Sud. Se si investisse in cultura al Sud quanto già avviene nel Centro-Nord, l'occupazione crescerebbe di circa 200 mila unità, di cui 90 mila laureati. Un ruolo di rilievo in questo piano lo ha la designazione di Matera come Capitale Europea della Cultura per il 2019: un percorso da realizzare con progetti ad alto contenuto di innovazione, che permettano la creazione di ambienti in cui sia possibile sperimentare nuovi modelli di sviluppo urbano, sociale e imprenditoriale, con al centro la cultura, non solo per la Basilicata ma per l'intero Mezzogiorno.
5) Il ruolo dell'agricoltura - L'agricoltura meridionale può oggi contare innanzitutto sulla qualità delle proprie produzioni, ma anche su una multifunzionalità che comporta diversificazione e allargamento delle attività non solo all'interno delle aziende agricole, ma anche nell'agriturismo, nei servizi ambientali, etc.

IL SUD NEL 2015 CRESCE DI PIU'
MA AUMENTA LA POVERTA'
NEL 2016 RALLENTA LA CRESCITA.

I numeri principali del Rapporto

Le previsioni per il 2016 e il 2017
              Secondo stime SVIMEZ aggiornate a novembre, nel 2016 il Pil italiano dovrebbe crescere dello 0,8%, quale risultato del +0,9% del Centro-Nord e del +0,5% del Sud. Una variazione ancor più positiva di prodotto del Sud rispetto alle previsioni di luglio 2016. A trascinare l'evoluzione positiva del Pil l'andamento dei consumi, stimato in +0,6% al Centro-Nord e +0,4% al Sud. Divergente nel 2016 la dinamica degli investimenti fissi lordi, +2% al Centro-Nord, +0,6% al Sud. L'occupazione, dopo la drastica riduzione dal 100% al 40% degli sgravi contributivi, ristagna: +0,3% al Centro-Nord, +0,2% al Sud.
La crescita si rafforza nel 2017: il Pil italiano dovrebbe aumentare del +1% , sintesi di un +1,1% del Centro-Nord e di un +0,9% del Sud. A concorrere positivamente l'andamento dei consumi finali, stimato in +0,5% al Centro-Nord e +0,6% al Sud. Su anche gli investimenti fissi lordi, +2% il dato nazionale, quale risultato del +2% del Centro-Nord e del +0,6% del Sud. Sul fronte occupazionale, si prevede un aumento nazionale del +0,4%: +0,4% al Centro-Nord e +0,3% al Sud.


Pil e Mezzogiorno nel 2015 
               In base a valutazioni SVIMEZ nel 2015 il Pil è cresciuto nel Mezzogiorno dell'1%, recuperando parzialmente la caduta dell'anno precedente (-1,2%). L'incremento è stato superiore dello 0,3% a quello rilevato nel resto del Paese,+0,7%. Dopo sette anni di crisi ininterrotta, l'economia delle regioni meridionali ha iniziato la ripresa, sebbene in ritardo non solo rispetto al resto dell'Europa ma anche al resto del Paese: dal 2007, il Pil in quest'area è calato del -12,3%, quasi il doppio della flessione registrata nel Centro-Nord (-7,1%).
La crescita del prodotto nelle regioni del Sud ha beneficiato nel 2015 di alcune condizioni peculiari: un'annata agraria particolarmente favorevole, con un aumento di valore aggiunto del +7,3%; la crescita del valore aggiunto nei servizi, soprattutto nel turismo, legata alle crisi geopolitiche nell'area del Mediterraneo che hanno dirottato parte del flusso turistico verso il Mezzogiorno; la chiusura della programmazione dei Fondi strutturali europei 2007-2013, che ha portato a un'accelerazione della spesa pubblica legata al loro utilizzo per evitarne la restituzione.
Dal 1996 al 2015 il gap cumulato nella crescita è stato pari a 29 punti percentuali con l'UE a 28 e a quasi 23 punti con l'area dell'Euro. Un ritmo molto più lento del + 30% in Germania, +51% in Spagna, +36% in Francia.

RAPPORTO SVIMEZ 2016

Sintesi


GLI ANDAMENTI ECONOMICI GENERALI
POPOLAZIONE, MERCATO DEL LAVORO, SCUOLA, POVERTA'
PAE BES, POLITICHE DI COESIONE, INFRASTRUTTURE
INDUSTRIA E POLITICHE INDUSTRIALI, TRA LUCI E OMBRE

I DRIVERS DELLO SVILUPPO: LOGISTICA, RIGENERAZIONE URBANA, ENERGIE RINNOVABILI, AGRICOLTURA E INDUSTRIA CULTURALE

CRIMINALITÀ E MEZZOGIORNO
 
GLI ANDAMENTI ECONOMICI GENERALI

2015: la ripresa fa capolino in Italia, ma il gap con l'Europa aumenta- Le economie avanzate tornano timidamente a crescere mentre la crescita nei Paesi in via di Sviluppo rallenta (+4,0% nel 2015 dopo il +4,6% del 2014). La ripresa fa capolino in Italia, ma si mantiene cauta; il prodotto nel 2015 aumenta dello 0,8% dopo cinque annualità di cali consecutivi. Il PIL dell'Europa cresce in maniera quasi omogenea, con una media dell'1,7%. Le economie più forti dell'area hanno completamente recuperato i livelli di prodotto precedenti alla crisi (Francia 3,9%, Germania 7,1%), mentre l'Italia, la Spagna e la Grecia stentano ad agganciarsi a questo trend, soffrendo di una maggiore profondità della fase recessiva del 2008-2009: la distanza tra questi tre Paesi e Unione Europea tra il 2008 e il 2015 arriva rispettivamente a -8,3%, -3,3% e -26,2%.

Il Mezzogiorno torna a crescere e sorpassa il Centro Nord- Il Sud torna a crescere dopo sette anni con segno meno e avanza di 0,3 punti percentuali anche la crescita del Centro-Nord, attestandosi a +1% nel 2015 rispetto al +0,7% della restante parte d'Italia. Il dato favorevole è stato originato da una serie di eventi concomitanti, che però non evidenziano un mutamento strutturale delle singole componenti economiche. In particolare hanno contribuito la buona annata del settore agricolo e l'ottima prestazione di quello turistico, in conseguenza alla crisi di altre zone del Mediterraneo colpite da instabilità politiche. La chiusura della programmazione dei Fondi Strutturali 2007-2013 ha inoltre stimolato un'accelerazione della spesa per evitare la perdita di una parte dei Fondi. Il gap con il resto del Paese, tuttavia, rimane ancora strutturale e profondo, in particolar modo in alcuni settori economici, come quello manifatturiero.

Pil e Mezzogiorno nel 2015- Nel 2015 il PIL pro capite del Mezzogiorno torna ai livelli di metà anni Duemila: 17.887 euro rispetto ai 17.884 del 2006, pari al 56,5% del resto del Paese. Nel 2015, nel Centro-Nord, il prodotto è cresciuto in tutte le regioni con la sola eccezione della Valle d'Aosta (-1%) e del Friuli Venezia Giulia (-0,2%). Il Nord- Ovest è stato più reattivo nel cogliere la ripresa, crescendo dello 0,8% dopo la flessione dello 0,9% del 2014, sospinto dagli incrementi delle economie del Piemonte (0,9%) e della Lombardia (0,8%). Il Nord-Est raddoppia la crescita già manifestata nel 2014 (da 0,3% a 0,6%), grazie all'aumento del prodotto in Emilia Romagna (0,6%) e nel Veneto (0,7%), e all'estensione della ripresa al Trentino Alto Adige (da -0,3% del 2014 allo 0,6% del 2015), sebbene rallentato dal risultato non positivo del Friuli Venezia Giulia (-0,2%). Nelle regioni del Centro il prodotto è cresciuto dello 0,7%, come l'anno precedente, con un miglioramento del contributo della Toscana (1%) dell'Umbria (2,4%) e delle Marche (1%), superiori a quello del Lazio (0,2%).  La regione del Sud con il reddito pro capite più alto è nel 2015 ancora l'Abruzzo (89,3% del reddito pro capite nazionale). La regione con la performance peggiore è la Calabria, con un reddito pro capite pari al 61,8% di quello medio del Paese; anche la Puglia, la Campania e la Sicilia non raggiungono il 70% del PIL. Un aumento rilevante è registrato in Basilicata (+5,5%), ma anche nel Molise, sebbene con un ritmo più moderato (+2,9%). L'Abruzzo cresce del 2,5% grazie all'industria, invertendo cosi la flessione del 2014 (-2,0%). La Sicilia e la Calabria, a causa dei risultati eccezionali ottenuti dal settore agricolo, crescono rispettivamente dell'1,5% e dell'1,1%. Molto più contenuta (solo lo 0,2%) è l'incremento registrato in Campania, Puglia e Sardegna, debolezza parzialmente attribuibile alla persistenza di alcune crisi industriali. Nel Mezzogiorno, la crisi ha colpito le regioni meridionali, con un'intensità assai differenziata ma che nella media è quasi doppia di quella del resto del Paese (-13,2% contro il -7,8%).
La divergenza tra le due aree del Paese rimane ancora nettamente marcata e non può essere superata grazie a occasionali incroci di fattori positivi ma necessita un reale processo di amalgamazione. Nel quindicennio tra il 2000 e il 2015 il divario del PIL per abitante tra Mezzogiorno e il resto del Paese si è ridotto appena dello 0,3%, passando dal 56,2 al 56,5% del valore nazionale. Un divario che si conferma difficile da colmare, sebbene sia soggetto a lievi diminuzioni: nel 2015 il PIL per abitante della regione più ricca d'Italia, il Trentino Alto Adige (37.561 euro pro capite), risulta più che doppio di quello della regione più povera, la Calabria (16.659 euro pro capite).
 
Tornano a crescere i consumi, sostenuti dalla domanda interna- La crescita è stata sostenuta in tutti i paesi dell'Europa dall'aumento della domanda interna (1,8% nell'Area Euro e 1,2% in Italia), accompagnata dalla crescita del reddito reale a disposizione delle famiglie (+0,8% in Italia rispetto alla stagnazione del 2014). I consumi finali interni del Mezzogiorno sono cresciuti nel 2015 dello 0,3% rispetto alla diminuzione del -0,6% dell'anno precedente. La crescita ha premiato soprattutto l'acquisto di beni, piuttosto che quella di servizi. La differenza tra le due aree geografiche è dovuta solo alla componente privata (+0,9% da parte delle famiglie consumatrici), mentre quella pubblica è calata in entrambe le circoscrizioni del -0,6% a causa della spending rewiev a cui è sottoposta la Pubblica Amministrazione.

Occupazione, segno più anche al Sud, ma il superamento della crisi resta lontano- Nel 2015 l'occupazione è cresciuta, confermando il cambio di tendenza avutosi nel 2014 dopo un biennio negativo: il numero di occupati è aumentato di circa 135 mila unità, pari a un incremento dello 0,6% rispetto all'anno precedente, quando l'occupazione era aumentata solo dello 0,1%. Il sorpasso del Sud è avvenuto anche nel mercato del lavoro, con la crescita quasi doppia degli occupati (0,8% rispetto allo 0,4% nazionale), interrompendo la serie negativa che proseguiva dal 2007. Nel settore dell'industria l'occupazione è diminuita dello 0,8%, con una dinamica cumulata dall'inizio della crisi fortemente negativa (-15%). La crescita ha riguardato i settori economici in maniera diversa: è aumentata nei servizi (1,0%), ma è diminuita fortemente nel settore dell'industria e in particolare dell'edilizia, dove il calo del 2015 (-1,6%) ha portato complessivamente ad una diminuzione dal 2007 del 21,3%. Sia sul piano nazionale che su quello del Centro-Sud la crescita degli occupati è localizzata nel settore del lavoro dipendente, mentre il lavoro autonomo subisce una flessione. Il recupero dell'occupazione nel terziario nel Mezzogiorno lascia ancora un vulnus rispetto alle unità perse dal 2007 (-0,6%), mentre questo è stato recuperato al Centro-Nord (+3,6%).

L'agricoltura traina la ripresa al Sud, ma il settore è ancora tra luci e ombre- Nonostante la crescita del settore agricolo sia in termini assoluti (dai 12.208 milioni di euro del 2014 ai 13.668 del 2015), sia in termini relativi (il peso dell'agricoltura sul sistema complessivo dell'economia del Mezzogiorno è passato dal 3,6% del 2014 al 4,1% del 2015), è necessario tenere conto che questi dati si inseriscono in un trend di recupero rispetto ad una pesante flessione che dal 2000 affliggeva il settore e che oggi torna ai livelli appena del 2013. Inoltre, scremando i dati della produzione, si colgono ancora evidenti disparità tra le varie categorie produttive. Tutte hanno certamente beneficiato dell'andamento climatico positivo e dell'aumento dei prezzi alla produzione rispetto a quello dei mezzi di produzione. Tuttavia solo in alcuni casi la performance è davvero eccellente (olio + 40% dei prezzi e legumi e ortaggi + 20%). A ciò si aggiunge un abbassamento dei mezzi di produzione, attestatosi in media a - 3,5% e la crescita del consumo alimentare medio delle famiglie italiane (+ 0,3% con punte di 2,2% sui prodotti confezionati). In aumento le esportazioni (del 7,3% in Italia e del 15,5% nel Mezzogiorno); una importante fetta di queste, l'11,5% di quelle del Mezzogiorno, sono state destinate al Regno Unito, la cui futura uscita dalla UE introduce degli elementi di incertezza per il comparto. La frammentazione dell'offerta e la scarsa organizzazione dei produttori, tuttavia, limitano fortemente l'espansione del mercato del settore agricolo che nel 2015 ha contribuito per il 30% alle esportazioni agricole italiane e per il 15% alle esportazioni di prodotti alimentari. L'agricoltura cresce anche in termini di occupazione: nel 2015 sono 19,6 mila unità in più gli occupati in questo settore, pari a 2,2%. Oltre 18 mila dei nuovi occupati si collocano al centro sud, che conferma il suo ruolo di preminenza con il 55% dei lavoratori nel settore primario.

Il tessuto industriale del Mezzogiorno resta fragile- Nel 2015, in Italia, l'indice della produzione industriale è aumentato dell'1,1% rispetto all'anno precedente, interrompendo la caduta registrata negli ultimi tre anni. Nel 2015 l'evoluzione del prodotto industriale è risultata difforme: -0,9% nel Mezzogiorno e +1,7% nel Centro-Nord. Il risultato conseguito dall'industria meridionale è stato sfavorevolmente influenzato dalla dinamica congiunturale fortemente negativa della fornitura di energia, acqua, e rifiuti (-7,3%; Centro-Nord+5,3%); settore che, inoltre, nel Sud rappresenta quasi il 23% dell'intero aggregato industriale, rispetto a una quota media dell'11% nelle regioni centrosettentrionali. Invece, le produzioni dell'automotive hanno fatto registrare, nel Sud, un forte balzo in avanti (+39,3%). Se si guarda al medio periodo, tra il 2009 e il 2014, il prodotto meridionale ha perso circa il 31%, quasi tre volte in più della caduta registrata nel resto del Paese (12,1%).  Nel 2015, gli investimenti fissi lordi industriali sono diminuiti, in termini reali, dell'1,6% nel Mezzogiorno e, invece, sono aumentati dell'1,7% nel Centro-Nord. Dal 2008, gli investimenti fissi lordi meridionali hanno perso oltre il 40%, quasi il doppio di quanto verificatosi nel Centro-Nord nello stesso periodo. Per quanto riguarda la domanda estera, la variazione congiunturale dell'export, al netto dei prodotti petroliferi, ha fatto segnare un incremento del 12% nel Mezzogiorno; nel Centro-Nord il medesimo dato è risultato pari al 3,7%. L'aumento delle vendite all'estero del Sud non ha riguardato tutti i settori, diversamente da quanto verificatosi nel Centro-Nord. Ciò conferma la maggiore fragilità della posizione sull'estero del Sud, che riguarda in maniera disomogenea l'apparato produttivo. Dal 2008 al 2015, l'industria meridionale ha perso circa 196.000 occupati, pari al 20,5% dell'intero stock di inizio periodo (l'analoga percentuale nella manifattura sale al 22,8%). È questa l'eredità più pesante della crisi avviatasi nel 2009 e che rappresenta, specie per il Sud, un elemento strutturale in grado di limitare le potenzialità di crescita di lungo periodo dell'area.

Gli investimenti crescono soprattutto in agricoltura- Gli investimenti anche nel Mezzogiorno sono cresciuti dello 0,8% dopo sette anni di variazioni negative. L'incremento è stato di intensità simile a quello del Centro-Nord (0,8%), dove però il calo era stato nel tempo decisamente inferiore. La crescita è stata particolarmente elevata nel settore agricolo (9,5%), risentendo dell'annata eccezionale, e in quello delle costruzioni (5,4%) dopo quattro anni di cali consecutivi. La crescita appare positiva, ma moderata nei servizi (0,9%). L'incremento degli investimenti in Italia ha riguardato la spesa in impianti, macchinari e mezzi di trasporto (3,4% rispetto al -2,7% dell'anno precedente), mentre quella per costruzioni ha mostrato ancora una flessione (-0,5% rispetto al -5,0 del 2014). Il massiccio disinvestimento al Sud negli scorsi anni ha aggravato la scarsa competitività dell'area e favorendo un processo di desertificazione dei territori meridionali. I buoni risultati del 2015 fanno comunque supporre che sia rimasto comunque attivo e competitivo un nucleo industriale che, se adeguatamente sostenuto, può superare le conseguenze di questo prolungato disinvestimento.

Esportazioni in attivo soprattutto grazie all'energia e agricoltura- Le esportazioni di merci nel 2015 in Italia sono aumentate del 3,8% a prezzi correnti, più dell'anno precedente (2,0%). Anche le importazioni sono incrementate del 3,3%, dopo la flessione del -1,6% nel 2014. La bilancia commerciale è migliorata in modo significativo (totale 45 miliardi di euro, con una variazione del saldo in valore assoluto di 3,2 miliardi di euro). Il miglioramento è da attribuire principalmente ai prodotti energetici. Le esportazioni sono cresciute nel 2015 più nel Mezzogiorno che nel resto del Paese, in particolare nel settore agricolo e nella manifattura, in maniera analoga nei paesi UE che extra UE. Aumenti particolarmente elevati si sono registrati in Basilicata (145,7%), con la ripresa dell'export di automobili, Molise (36,1%), Calabria (15,1%) e in Abruzzo (7,3%).

POPOLAZIONE, MERCATO DEL LAVORO, POVERTÀ, SCUOLA

Continua il calo demografico, nel Mezzogiorno giù la natalità - Continua il profondo cambiamento della geografia demografica dell'Italia. Nel 2015 in Italia sono nati poco meno di 486 mila bambini, il 3,3% in meno rispetto all'anno precedente (-13 mila unità nel Centro-Nord e -4 mila nel Mezzogiorno). È un nuovo minimo storico, dopo quello del 2014 con 503 mila nati. Prosegue il calo demografico nel Mezzogiorno: nel 2015 la popolazione meridionale è diminuita di circa 62 mila unità, dopo la perdita di 21 mila unità nel 2014 e 31 mila nel 2013 per effetto congiunto delle migrazioni verso il Centro-Nord o l'estero e per il calo delle nascite. Cala anche il tasso di incremento naturale, che si attesta nel 2015 a -2,0%, rispetto alla media nazionale di 2,7%. Il trend demografico al ribasso è abbastanza omogeneo in tutta la Penisola: il tasso di fecondità totale (TFT) italiano nel 2014 è risultato pari a 1,37, figli per donna, in calo rispetto all'1,39 del 2013. Nel Mezzogiorno il numero medio di figli per donna è di 1,30. Le donne in Italia diventano madri sempre più tardi, in media 31,5 anni a livello nazionale.  Continua a diminuire il numero dei matrimoni (190 mila nel 2015, 80 mila in meno rispetto al 2002); in aumento i riti civili che rappresentano il 43,1% del totale, oltre 14 punti percentuali in più rispetto al 2002. Il rito civile è scelto dal 54,1% di coppie che decidono di sposarsi nel Centro-Nord, solo dal 27,1% nel Centro-Sud. L'età del matrimonio cresce in maniera quasi omogenea nella Penisola: 33,2 anni per gli uomini, 30,3 anni per le donne al Sud, 35,2 e 32,2 al Nord.

Emigrazione e immigrazione, il Sud sempre più a rischio desertificazione- Negli ultimi venti anni il Sud ha perso 1 milione e 113 mila unità, la maggior parte dei quali concentrati nelle fasce d'età produttiva tra 25-29 anni e 30-34 anni, (23 mila unità). A questi si accompagna una perdita di popolazione di 2 mila unità nella fascia di 0-4 anni in conseguenza al flusso di bambini che si trasferiscono con i genitori. Anche nel 2015 continua l'esodo verso il Centro-Nord: nel 2014 si sono trasferiti dal Mezzogiorno in una regione centrosettentrionale circa 104 mila abitanti, mentre sono circa 63 mila quelli che si trasferiscono dal Centro-Nord al Mezzogiorno, in gran parte frutto dei rientri di chi ha concluso il proprio ciclo lavorativo. Le regioni con il saldo migratorio più alto sono la Campania (32 mila unità), la Sicilia (23 mila unità), la Puglia (19 mila unità) e la Calabria (13 mila unità).
A lasciare il Sud sono ancora i soggetti più qualificati e dinamici: circa il 20%, ovvero 24 mila unità, hanno una laurea. Le quote più alte di laureati sul totale degli emigrati si registra in Puglia e Abruzzo, rispettivamente il 32,5% e il 32,1%. Nelle altre regioni del Mezzogiorno la quota dei laureati che si trasferisce al Centro-Nord è comunque sempre superiore al 25%. Il calo demografico è in parte compensato dal saldo migratorio dall'estero (+133 mila unità). La presenza straniera nel Mezzogiorno (800 mila unità) è molto modesta rispetto a quella nel Centro-Nord (circa 4,3 milioni), che ne trae maggiore beneficio nel riequilibrio della struttura demografica interna della popolazione: al Centro-Nord i residenti immigrati sono per la maggior parte all'interno della fascia con meno di 2 anni (19%), o tra i giovani in età lavorativa (22,6% all'età di 29 anni). Secondo le stime Istat il Mezzogiorno perderà entro il 2065 circa 4,2 milioni di abitanti, mentre il Centro-Nord ne guadagnerà 4,5 milioni al Centro-Nord.

Occupazione, i primi segnali positivi segnano un'inversione di tendenza nel Mezzogiorno- La dinamica positiva dell'occupazione del 2015 è senz'altro il maggiore punto di forza della ripartenza dell'economia meridionale, pur in un quadro di persistente fragilità ed emergenza sociale. Nella media del 2015, l'occupazione italiana cresce di 186 mila unità, pari allo 0,8%. Nel 2014 la crescita era stata dello 0,4%. Le unità in aumento nel Mezzogiorno sono 94 mila, 92 mila al Centro-Nord. Nonostante la crescita più contenuta il Centro-Nord recupera quasi completamente i livelli occupazionali pre-crisi, mentre il Sud rimane ancora ben 7 punti percentuali indietro rispetto al 2008 (-482 mila unità). Cresce il divario anche con l'Eurozona, dove il tasso di occupazione aumenta di 8 decimi di punto attestandosi al 69,0%; le regioni del Centro-Nord sono vicine alla media europea (68,0%), mentre il Mezzogiorno è lontano di circa 24 punti (46,1%, era al 45,6% nel 2014). Nel 2015 la crescita degli occupati interessa sia gli uomini che le donne, anche nel Mezzogiorno (+1,5% per le donne, a fronte del +1,7% degli uomini). L'aumento dell'occupazione riguarda sia gli italiani (0,6%) che gli stranieri (2,8%). In Italia l'occupazione giovanile tra i 15 e i 34 anni continua a scendere, anche se meno drasticamente rispetto al 2014; nel Centro-Sud, però, i segnali positivi fanno segnare una significativa inversione di tendenza (+24 mila unità, pari al +1,8%).

Jobs Act e decontribuzione stimolano il mercato del lavoro ma non incidono sulla struttura - La crescita dell'occupazione nel Mezzogiorno interessa tutti e tre i principali settori; in particolar modo l'incremento più significativo al Sud si registra in agricoltura (+5,5%, rispetto al +2,4% del paese) e nei servizi; si estende anche all'industria in senso stretto, mentre ancora in flessione sono le costruzioni. L'occupazione terziaria aumenta in tutte le regioni con l'eccezione di Basilicata, Puglia e Molise.
Il mercato risponde alle misure incentivanti sull'occupazione, in particolare alla combinazione di Jobs Act e decontribuzione sulle assunzioni a tutele crescenti di cui ha giovato il Sud. Queste misure non riescono però a incidere sulle problematiche strutturali del Mezzogiorno, che continua a rimanere legato a schemi già sperimentati: la prima forma di assunzione rimane l'occupazione a termine: l'occupazione a tempo determinato cresce nel 2015 del 3,3%, a tempo indeterminato si arresta allo 0,6%. Nel Mezzogiorno l'aumento dei dipendenti a tempo indeterminato è in termini relativi leggermente più accentuato (+37 mila occupati, pari all'1%) grazie alla decontribuzione sulle assunzioni a tutele crescenti. La crescita degli occupati a livello nazionale è costituita in gran parte da lavoratori dipendenti (+208 mila unità pari al +1,2%). La popolazione inattiva tra 15 e 64 anni continua a diminuire (-84 mila unità, pari al -0,6%). Nonostante i segnali positivi che invertono la tendenza del mercato del lavoro, i livelli occupazionali rimangono ancora molto distanti dai livelli pre-crisi in quasi tutte le regioni: in Calabria e Molise (-10%), in Sicilia (-8,5%), in Puglia (-8,4%), in Abruzzo (-6,3%), in Sardegna (-6,1%) e in Campania (-5,7%); l'unica regione ad avvicinarsi ai valori del 2008 è la Basilicata (-2,7%). L'andamento del 2015 è particolarmente positivo per questa regione (+3,5%), una crescita significativa avviene anche in Sardegna (+3,1%), Puglia (+2,4%) e Sicilia (+2,3%) mentre è più contenuta in Molise (+1,4), Campania (+1%) ed Abruzzo (+0,6%).
 
Cresce il rischio di povertà nel Mezzogiorno, aumenta il divario con il resto del paese- In Italia, dal 2008 al 2015, le persone che vivono in condizioni di povertà assoluta sono aumentate da 2,1 a 4,6 milioni. Nel 2015 i poveri assoluti nel Mezzogiorno sono aumentati di 218 mila unità, superando i 2 milioni, 10 meridionali su 100 risultano in condizione di povertà assoluta contro poco più di 6 nel Centro-Nord. La recessione ha peggiorato notevolmente gli squilibri del mercato del lavoro all'interno. L'aumento della povertà assoluta nel Mezzogiorno nel 2015 si è verificato soprattutto nei Comuni di più grande dimensione, dove nel 2014 il 18,5% dei residenti è a rischio di povertà. Nel 2014 il rischio di povertà è aumentato in quattro delle otto regioni meridionali, peggiorando in maniera evidente in Campania, Abruzzo e Sardegna; migliorano la Puglia e la Basilicata. Differenze evidenti esistono anche all'interno del Mezzogiorno: in Sicilia e Campania i cittadini a rischio povertà superano il 39%, mentre in Abruzzo sono di poco superiori al 20%. Crescono anche le disparità interne alle aree geografiche: fra il 2007 e il 2014 è aumentata in particolare la distanza fra i redditi del 10% più ricco della popolazione e quelli del 10% più povero. Maggiormente a rischio nel Mezzogiorno sono le famiglie con un solo genitore con minori a carico (52%) e le coppie con figli minori (41%). Le famiglie più colpite sono in generale quelle composte da numerosi componenti o da coppie con figli. Particolarmente significativa, infine, è l'incidenza della povertà tra le famiglie in cui la persona di riferimento è un lavoratore autonomo a tempo pieno o un lavoratore dipendente a tempo parziale.

Le fasce più a rischio sono quelle giovani, emerge la figura del working poor- I redditi delle famiglie composte da giovani sono di gran lunga più bassi di quelli delle famiglie composte da adulti: tra il 2007 e il 2014 il rischio di povertà per le famiglie con capofamiglia tra i 20 e i 39 anni aumenta dal 28,9% al 32,7%, soprattutto nel Mezzogiorno (+ 12 punti). I nuovi poveri (working poor) sono spesso lavoratori diplomati o laureati che con la crisi hanno subìto un generale cambiamento della loro condizione economica (perdita di posti di lavoro, entrata in Cassa integrazione, perdita del potere di acquisto anche in ragione delle forme di lavoro precario). Tra il 2007 e il 2014 la percentuale di working poor  aumenta, arrivando al 7% nel Centro-Nord, e oltre il 24% nel Sud.

Le soluzioni, un nodo difficile- Le iniziative previste dal Governo per il contrasto della povertà e dell'esclusione sociale nel futuro a breve termine sono attualmente focalizzate attorno alla previsione di una misura di contrasto alla povertà, il Sostegno di Inclusione Attiva (SIA) che estende, modificandone alcuni aspetti, un precedente intervento di carattere provvisorio e sperimentale, limitato a soli 12 Comuni italiani. La misura prevede 600 milioni di euro per il 2016 e un miliardo per il 2017, che, aggiungendosi alle altre risorse già disponibili, portano il finanziamento complessivo a circa 1,5 miliardi per ognuno dei prossimi anni. Il SIA, tuttavia, risulta insufficiente a contrastare nel lungo periodo la povertà sia per la scala dell'intervento, destinato ad un sottoinsieme limitato di poveri, sia per l'intensità, dato che l'importo erogato non sarà sufficiente a superare la soglia di povertà. La SVIMEZ, a fronte di questi dati non può che constatare che l'Italia è troppo diseguale per tornare a crescere a ritmi sostenuti e, più in particolare, che la povertà costituisce ormai un serio ostacolo alla crescita.

Il gap dell'occupazione giovanile si allarga: 3,3 milioni perdono il lavoro dal 2000- Il Sud si colloca in fondo ad ogni classifica europea rispetto al tema della condizione giovanile nel mercato del lavoro. Tra il 2000 ed il 2015 l'occupazione della fascia di popolazione tra i 15 e i 34 anni si è ridotta di 3,3 milioni di unità rispetto alla flessione della popolazione di età corrispondente di circa 2,9 milioni; il divario in termini di tasso di occupazione nei confronti dell'Unione Europea si è notevolmente ampliato (dai 4 punti del 2000 agli oltre 16 punti percentuali del 2015).  La flessione interessa entrambe le circoscrizioni territoriali del paese: più accentuata nel Centro-Nord nel periodo pre-crisi (-2,5% all'anno tra il 2000 ed il 2007, -1,7% nel Mezzogiorno) e viceversa più pronunciata al Sud dal 2008 al 2015 (-4,5% all'anno a fronte del -3,9% del Centro-Nord). Due elementi, tuttavia, contribuiscono a rendere più critica la situazione del mercato del lavoro al Sud. Mentre il Centro- Nord parte da livelli di occupazione giovanile molto alti, superiori alla media europea, per il Mezzogiorno la situazione dell'occupazione giovanile, già critica negli anni pre-crisi, si deteriora ulteriormente negli anni Duemila fino a sfiorare il 27,4% nel 2015. Il Mezzogiorno manifesta una crescita contenuta dell'occupazione nella fascia di età oltre i 35 anni (+0,9% in media all'anno tra il 2000 ed il 2015 a fronte del +2,1% del Centro-Nord): l'occupazione complessiva flette nel quindicennio nel Mezzogiorno (-308 mila unità), mentre cresce sensibilmente nel Centro-Nord (+534 mila unità).

Laureati e diplomati stentano a trovare lavoro, crescono i Neet- Nel 2015 i giovani italiani Neet hanno raggiunto i 3 milioni 421 mila, con un aumento rispetto al 2008 di circa 621 mila unità (+22,2%). Di questi, quasi 2 milioni sono donne (56%) e quasi 1,9 milioni sono meridionali. Oltre un quarto dei diplomati ed oltre un quinto dei laureati tra i 15 e i 34 anni non lavora e nel contempo ha abbandonato il sistema formativo. Nel 2015 risultano occupati nel Sud il 40,9% dei diplomati ed il 57,6% dei laureati a tre anni dal conseguimento del titolo di studio a fronte rispettivamente del 49% e 68,8% del Centro-Nord; prima della crisi erano circa il 60% circa dei diplomati ed il 70% dei laureati. Un gap incolmabile rispetto alla media UE con il 70% dei diplomati e l'81% dei laureati. Tra le nuove misure del Governo di contrasto al problema emergono nel 2015 l'apprendistato e l'introduzione, con il provvedimento sulla "Buona Scuola" dell'obbligatorietà dell'alternanza scuola-lavoro per tutti i giovani inseriti nei trienni terminali del ciclo secondario.

L'occupazione femminile cresce soprattutto per le lavoratrici straniere- L'occupazione femminile in Europa negli anni Duemila cresce di più di quella maschile: +1% in media all'anno nel periodo 2001- 2015, +0,3% tra gli uomini. L'occupazione femminile sale più velocemente nel Centro-Nord (+0,9% all'anno, +0,5% nel Mezzogiorno) mentre negli anni della crisi, flette nelle regioni meridionali dello 0,2% all'anno. Il divario con la media europea, già elevatissimo all'inizio del periodo (circa 26 punti percentuali), si è ulteriormente ampliato portandosi sopra i 30 punti. Il tasso di occupazione femminile, partito da 31% del 2000 e cresciuto di circa 3 punti nella fase pre-crisi per poi restare stazionario, si attesta nel 2015 al 33,4%. L'incremento del lavoro ha riguardato soprattutto le lavoratrici straniere nel settore dei servizi alla persona: sono 370 mila, 110 mila quelle italiane, l'11% delle occupate.

Continua il declassamento delle competenze professionali, giù gli occupati in professioni cognitive e manageriali- Il fenomeno di downgrading colpisce soprattutto le fasce giovani a causa di fattori strutturali - come l'elevata frammentazione del sistema produttivo, il basso livello di istruzione degli imprenditori e la scarsa propensione alla ricerca e all'innovazione.
L'incremento delle alte qualificazioni (+40% tra il 2001 ed il 2008) è prevalentemente connesso all'innovazione tecnologica, ma si è interrotto durante la crisi: a differenza che per gli altri paesi europei, in cui le professioni più qualificate sono cresciute, la struttura dell'occupazione italiana dal 2008 ha manifestato un evidente downgrading delle qualifiche. In Italia le professioni cognitive altamente qualificate hanno perso tra il 2008 ed il 2015 oltre 1,1 milione di unità (12,8%), mentre nell'Europa a 28 sono aumentate del 4,6%; il calo nel Mezzogiorno è stato assai più accentuato (-18,7%) rispetto al Centro-Nord (-10,8%): il 37,1% tra le donne e il 35% tra gli uomini. Rimangono aperte le questioni ataviche sull'occupazione femminile: il 33% delle madri abbandona il lavoro perché non riesce a conciliare la vita familiare, in particolare perché non ha parenti di supporto, per un mancato accoglimento al nido e per gli elevati costi di assistenza del neonato.
 
I giovani non danno fiducia all'Università, calano le immatricolazioni- L'Italia si mantiene tra i paesi europei che investe meno sui suoi studenti, circa 10.000 dollari rispetto ai 13.000 della Spagna, 15.000 della Francia, 17.000 della Germania. Dal 2001 al 2015 le risorse complessivamente erogate per il sistema universitario si sono ridotte di circa il 17%. Dal 2008 al 2015 il FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario) è diminuito complessivamente di circa il 19%, in particolare del 24% al Mezzogiorno, 21% al Centro e 14% al Nord. L'Università italiana continua a perdere appeal nei confronti degli studenti: in Italia si immatricolano solo il 42% degli studenti che hanno terminato la scuola secondaria, a fronte di un 70% in Spagna, 60% in Germania e Regno Unito. Tra il 2000 e il 2015, il numero degli immatricolati in Italia è passato da 273.444 a 251.509 unità con un calo di circa l'8%. Il tasso di proseguimento scuola-Università calcolato come il rapporto tra il numero dei diplomati e il numero di immatricolati per ripartizione geografica di residenza scende vertiginosamente in Italia: dal 72-73% degli anni 2003 e 2004 (riforma del 3 + 2) al 55% del 2014 e 2015. Tale diminuzione non ha interessato il Nord-Italia (+2,6%), ma solo il Centro (-8,4%) e soprattutto, drammaticamente il Sud (-16,87%). Si colgono delle disparità anche in seno agli incentivi e al sostegno allo studio: per l'anno accademico 2013-2014 al Nord hanno ricevuto una borsa di studio il 92% circa degli studenti richiedenti e dichiarati idonei; questa percentuale diminuisce al Centro passando all'89%, e crolla al Sud attestandosi al 52%.

 

PA E BES, POLITICHE DI COESIONE, INFRASTRUTTURE
 
Divario amministrativo e PA- L'apertura dei mercati alla competizione internazionale ha reso necessario il miglioramento della la competitività dei sistemi-Paesi europei anche negli ambiti della Pubblica Amministrazione, dei servizi resi ai cittadini e alle imprese. La capacità di offrire servizi di qualità al cittadino (sicurezza, sanità, istruzione, public utilities) è essenziale per lo sviluppo, in quanto essi costituiscono una condizione di base per l'avvio di quei processi che portano alla creazione di reti sul territorio e all'accumulazione di competenze e capabilities a livello individuale, in definitiva al miglioramento del capitale umano e sociale.  È indubbio che servizi pubblici efficienti migliorano la competitività di un territorio rendendolo più attrattivo per gli insediamenti produttivi, sia in termini di competitività internazionale ma anche per lo sviluppo e i processi di convergenza tra territori di uno stesso paese.
Più che un differenziale nella performance dei singoli settori ciò che emerge è un divario generalizzato a sfavore del Mezzogiorno, accentuato dall'approccio federalista degli ultimi decenni. Le carenze si riflettono sui cittadini e sul sistema delle imprese, che lo scontano con maggiori costi e minore efficienza. Ciò contribuisce ad allontanare ulteriormente l'area meridionale da quegli standard di competitività indispensabili per attrarre le necessarie risorse aggiuntive per lo sviluppo dall'esterno. La minore efficienza si traduce in un sostanziale razionamento nella dotazione di risorse, determinando un circolo vizioso tra indirizzo politico e strutture amministrative.  Con riferimento alle attività economiche, il nesso tra performance della Pubblica Amministrazione e sviluppo è molto stretto. Nel Mezzogiorno in particolar modo risultano carenti le funzioni della PA relative alle agevolazioni che facilitano l'attività imprenditoriale (semplificazione delle procedure amministrative, tempi della giustizia amministrativa e civile).
L'Italia nel suo complesso ha fatto dei significativi progressi, dovuti in gran parte agli interventi di riforma della giustizia civile: il Rapporto della Banca Mondiale Doing Business 2016 colloca l'Italia al 45esimo posto di una classifica di 189 Paesi, recuperando ben 11 posizioni rispetto all'anno precedente. La densità dei dipendenti pubblici è più bassa in Italia che nei negli altri principali paesi dell'UE; inoltre, secondo i risultati del censimento 2011 emerge, rispetto al censimento 2001, una PA "dimagrita" in termini di personale negli enti locali e nelle aziende erogatrici di servizi del 6,1% nel Mezzogiorno e del 14% nel Centro-Nord.  La presenza della PA resta comunque più elevata nel Centro-Nord: 31 addetti ogni 1.000 abitanti, contro i 26 del Mezzogiorno (dieci anni prima erano rispettivamente 38 e 28).
La Pubblica Amministrazione nel 2011 era composta di 12.183 unità attive (21,8% in meno rispetto al precedente censimento), nelle quali operavano 2.840.845 addetti (11,5% in meno rispetto al 2001), 196.736 altri lavoratori (tra esterni, temporanei e volontari: il 27,8% in meno rispetto al 2001). Tra gli enti locali, i Comuni registrano la maggiore contrazione al Nord come al Sud (rispettivamente -11,4% e -8,9%). Nel Nord si rileva una maggior concentrazione rispetto alla popolazione residente sia di unità attive che di risorse umane rispetto al Mezzogiorno (2,4 unità attive ogni 10 mila abitanti a fronte di 1,9 nel Mezzogiorno e quasi 300 occupati complessivi ogni 10 mila abitanti a fronte di poco meno di 260 al Sud). Tra il 2012 e il 2014 i dipendenti della PA sono passati da 3.221 mila a 3.224 mila in Italia con un saldo positivo di 3 mila unità dovuto ad una crescita di 8 mila unità nel Centro-Nord ed un calo di quasi 5 mila dipendenti nel Mezzogiorno.

Welfare e no-profit- L'arretramento della PA ha lasciato spazio ad una forte espansione del settore no profit che sempre più sta assumendo ruoli sussidiari rispetto alla PA nell'erogazione di alcuni importanti servizi sociali. Nel Centro-Nord il welfare privato-sociale già oggi è in grado di sostituire in misura significativa il welfare pubblico, compensando la forte contrazione di addetti della PA verificatasi nell'ultimo decennio; nel Mezzogiorno, invece, la garanzia della parità dei diritti di cittadinanza deve continuare ad essere assicurata soprattutto dal welfare pubblico.
Nel 2011 in Italia sono state censite 301.191 unità attive appartenenti al settore non profit (65.959 in più che nel 2001), nelle quali hanno lavorato 680.811 addetti (192.288 in più rispetto al 2001); i lavoratori esterni e temporanei sono cresciuti di 172.045 unità; c'è stato un vero boom dei volontari: +1.443.295.
Nel Centro-Nord aumentano del 50% gli addetti che operano nel settore non profit, dai quasi 3 milioni del 2001 ai quasi 4,6 milioni nel 2011. Nel Mezzogiorno, la loro presenza, relativamente assai meno significativa è aumentata di poco oltre le 200 mila unità, pari al 22,5%, nello stesso periodo (da 932 mila a 1.138 mila). Questi dati segnalano anche una consistente disparità nel livello di partecipazione dei cittadini alle attività della società civile. In particolare, i più modesti risultati del Mezzogiorno riflettono le carenze del welfare ed un minor benessere individuale.
In rapporto alla popolazione residente, si può notare come esista una forte disomogeneità territoriale. La presenza del settore non profit è decisamente più elevata nel Nord-Ovest (156,0 addetti ogni 10 mila abitanti), nel Nord-Est (141,0) e nel Centro (127,2), e assai meno nel Sud e nelle Isole (rispettivamente, 49,7 e 85,3). Analogo comportamento si può rilevare per le "altre risorse umane" (lavoratori esterni e temporanei), presenti in maggior misura nel Centro (59,5 ogni 10 mila abitanti), nel Nord-Est (55,1) e nel Nord-Ovest (52,5), mentre risultano meno diffusi nelle Isole (34,9) e nel Sud (27,4).

Le risorse- Rimane di centrale importanza la necessità di ridurre l'elevata incidenza del debito pubblico sul PIL. La necessità di disporre di avanzi primari va perseguita attraverso un contenimento della spesa. La strategia che produca un miglioramento della qualità dei servizi pubblici passa pertanto attraverso recuperi di efficienza nella loro fornitura.  Al Sud la dotazione di risorse finanziarie, espressa in termini di spesa pro capite, è più bassa che nel resto del Paese e nel corso della recessione ha mostrato un'evoluzione meno favorevole. Il divario al 2014 è di circa 25 punti percentuali rispetto al Centro-Nord. In particolare, lo svantaggio del Mezzogiorno è molto marcato nei settori della Formazione, Cultura e Ricerca e Sviluppo, Sanità e Previdenza. Questi importanti strumenti della politica di welfare non riescono a supportare adeguatamente la fragile condizione socio-economica delle famiglie e dei lavoratori più deboli. È solo nella protezione ambientale, e in parte nei trasporti e nelle telecomunicazioni che la spesa pro capite nel Mezzogiorno risulta relativamente più elevata, anche se la qualità dei servizi erogati non è sempre adeguata ai fabbisogni dei cittadini. Rimane un vulnus la qualità dei servizi sociali nel Mezzogiorno, decisamente inferiore a quelli erogati nel resto del Paese; in particolare peggiorano i servizi in Abruzzo, nel Molise, in Puglia e in Calabria; migliorano in Campania, Basilicata, Sicilia e Sardegna.

La giustizia- Una giustizia rapida ed efficiente è un fattore chiave per lo sviluppo e la competitività nel processo di globalizzazione dell'economia e della società. Il buon funzionamento della giustizia crea, infatti, un clima di fiducia che favorisce la realizzazione di investimenti interni e, soprattutto, esterni, necessari per le iniziative imprenditoriali, la crescita dimensionale delle imprese e lo sviluppo dei mercati finanziari. A livello europeo, del resto, i paesi con una giustizia lenta (espressa con l'elevato numero di giorni per pervenire ad un giudizio) mostrano un più modesto tasso di crescita, mentre i paesi con un buon funzionamento del sistema giudiziario registrano soddisfacenti risultati economici. Del resto, la fiducia nel pieno rispetto dello stato di diritto si traduce in atteggiamenti favorevoli ad investire in quelle attività economiche che possono garantire lo sviluppo del Paese.
In Italia permane un gap di funzionamento rispetto agli altri Paesi membri dell'UE, in parte dovuto proprio al differenziale tra Nord e Sud. Nel 2015 la durata media dei procedimenti, con riferimento ai procedimenti civili di "contenzioso puro" in tribunale, è di 976 giorni. Si tratta di un dato che rivela una riduzione dei tempi, rispetto ai 1.134 del 2000, anche se negli anni di crisi (2008-2014) il processo sembra sia rallentato. Anche nell'ambito della giustizia ci sono profondi divari tra Nord e Sud: dal 2000 nel Centro-Nord il numero medio di giorni per un procedimento di cognizione ordinaria si è ridotto da 1.001 giorni a 777 giorni; nel  Mezzogiorno il miglioramento è inferiore, dai 1.377 giorni nel 2000 agli attuali 1.194 giorni. Si distingue l'Abruzzo, dove la durata media è di 869 giorni; la durata medie più elevata si rileva in Basilicata (1.569 giorni) e in Puglia (1.375 giorni).

Erogazione dei servizi ed efficienza- L'efficienza nell'erogazione di servizi di pubblica utilità da parte della PA è molto modesta per l'intero territorio nazionale e nel periodo che va dal 2007 al 2014 è peggiorata sensibilmente, soprattutto nel Mezzogiorno. Uno dei comparti più critici per il quale l'Italia è sottoposta al controllo dell'Unione Europea è quello dello smaltimento dei rifiuti. In contrasto con le direttive europee, in Italia la percentuale di rifiuti smaltiti in discarica, pur se in tendenziale flessione negli ultimi anni, appare ancora molto elevata, soprattutto al Sud con un valore che risulta doppio di quello del Centro-Nord: nelle regioni meridionali, lo smaltimento in discarica supera nettamente la metà dei rifiuti prodotti in Sicilia (84,3%), in Puglia (53,0%) e in Basilicata (52,0%).
L'incremento di raccolta differenziata registrato nel Mezzogiorno è notevole, con una percentuale che passa dall'11,6 del 2007 al 31,3% del 2014. Sopra la media nazionale la Sardegna (53,0%), l'Abruzzo (46,1%) e la Campania, dove la raccolta differenziata ha raggiunto nel 2014 la quota del 47,6%, con una crescita di 34 punti percentuali rispetto al 2007, la più vivace tra tutte le regioni italiane. Problemi relativi alle infrastrutture di rete (elettricità, acqua e gas) sono in media più frequenti al Centro-Sud, dove il livello di soddisfazione degli utenti è più basso del Centro-Nord. Il divario nella diffusione ed efficacia dell'ICT sembra colmarsi con maggior rapidità. Ciò accade per quanto riguarda il grado di diffusione della banda larga nelle amministrazioni locali, ormai non dissimile nelle due ripartizioni del Paese, con circa il 98% di copertura. Anche l'utilizzo dell'e-Government da parte delle imprese nei rapporti con la PA ha raggiunto un grado soddisfacente nel Mezzogiorno (67,2%) come nel Centro-Nord (69,7%). La distanza tra le due ripartizioni riappare nella diffusione della piena interattività nei Comuni (12,9 ogni 100 nel Sud contro i 19 del Nord) e nella disponibilità del wi-fi pubblico (23,5% nel Mezzogiorno e 32% nel Centro-Nord).

Benessere del cittadino e indice BES- Da tempo la concezione di "benessere" non è più strettamente assimilata al dato economico, ma è ritenuto un concetto più complesso, derivante dall'integrazione di un insieme di fattori di tipo sociale, ambientale, umano. In quest'ottica la valutazione delle disparità interregionali non può essere schematizzata solo attraverso gli indici che riguardano occupazione e prodotto, ma è il risultato della redistribuzione di singole componenti del benessere riguardanti aree fondamentali della vita di ciascun cittadino. Il coefficiente derivante da questa impostazione è l'indicatore di BES (Benessere equo e sostenibile), che nel Mezzogiorno raggiunge performances inferiori a quelle medie nazionali: nel 2014 la differenza media di benessere con l'intero Paese è di 9,8%, un terzo di quello misurato nello stesso anno in termini di prodotto pro capite (-33,9%).
Il divario negli ultimi anni mostra una flessione: nel 2010 il gap socio-economico era del 14,2% rispetto all'intero Paese, la metà di quello misurato attraverso il prodotto pro capite (-32,2% circa).
Le differenze socio-economiche del Mezzogiorno, dunque, risultano inferiori a quelle rilevate con i metodi "classici" della contabilità, riferite al prodotto o ai consumi, segno evidente che alcune aree mostrano significativi margini di miglioramento. In particolare il Mezzogiorno si mostra in vantaggio rispetto al resto del Paese nei temi della sicurezza. Crescono, anche durante la crisi, i parametri relativi a istruzione e formazione, cala quello relativo alle relazioni sociali, sia al Nord che al Sud.
I ritardi del Sud riguardano soprattutto il reddito, la disuguaglianza e il disagio sociale. Ciò a riprova che tra il 2008 e il 2015, la crisi è stata molto più profonda ed estesa nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese, con effetti negativi che appaiono non solo transitori, ma strutturali. Il Mezzogiorno infatti non ha goduto, come il Centro-Nord, della "ripresina" del biennio 2010-2011, e ha risentito almeno con un anno di ritardo della ripresa europea. Durante la crisi le disuguaglianze fra aree in termini di reddito e sua distribuzione rimangono invariate. L'indice che mostra con maggiore chiarezza le difficoltà del Mezzogiorno è quello del lavoro: qualità e soddisfazione nell'ambito professionale sono diminuite in maniera rilevante durante gli anni della crisi sia al Centro-Nord che al Centro- Sud, ma nel Mezzogiorno il calo è stato più elevato; le regioni del Mezzogiorno maggiormente penalizzate sono la Sicilia, la Campania, la Calabria e la Puglia. L'indicatore di Benessere Soggettivo, che riassume la soddisfazione complessiva di ciascun individuo, mostra un gap profondo, che va dal 118,6% della provincia autonoma di Bolzano al 69,6% della Campania. La Sardegna si distingue nettamente dalle altre regioni del Sud con un valore dell'indice composito pari a 89,3%, superiore anche a quello di alcune regioni nel Centro-Nord. Nel complesso anche l'analisi del BES evidenzia un aumento delle diseguaglianze tra Centro-Nord e Mezzogiorno a sfavore di quest'ultimo: cinque indicatori sugli otto analizzati nel dettaglio sono in diminuzione. Il trend secondo cui le differenze interne si limano durante i periodi di crisi non ha funzionato per l'Italia, probabilmente a causa della profondità e vastità della crisi, che ha colpito in maniera più severa le aree più svantaggiate.

I divari regionali di sviluppo e competitività nell'Unione europea- Secondo l'ultimo Rapporto sulle Politiche di Coesione della Commissione europea i divari regionali nell'UE si sono ridotti dal 2000 al 2008, grazie ad una maggiore crescita della periferia rispetto al centro, per poi riprendere ad aumentare negli anni della crisi a causa della maggiore intensità degli effetti della recessione nelle regioni deboli. Nelle valutazioni va dunque tenuta in conto una lettura "aggregata" della periferia, che ha il limite di nascondere i disomogenei andamenti economici tra le diverse regioni della convergenza.
Tra il 2001 ed il 2007, il PIL pro capite delle regioni della convergenza è cresciuto del 51,1% nei Paesi che non aderivano alla moneta unica e del 56,4% nell'UE a 13 dei nuovi Stati membri, contro valori del 38,8% nell'Area Euro e del 31,4% nell'UE a 15 dei membri storici. Le regioni della convergenza dell'Est crescevano più delle regioni svantaggiate dell'UE a 15 già prima del 2008 e hanno continuato a crescere anche negli anni della crisi.  La crescita delle regioni svantaggiate dei nuovi Stati membri ha accentuato la geografia periferica delle regioni mediterranee, che hanno perso terreno, mentre i nuovi Stati membri avanzavano. Il ritardo del Mezzogiorno, dunque, va misurato all'interno della cornice europea che ha accentuato la competizione con i nuovi paesi in forte crescita. Nello stesso periodo il Mezzogiorno il PPN pro capite a parità di potere d'acquisto è cresciuto del 17,7%.
Se assumiamo l'indice di Progresso Sociale (SPI) come uno degli indicatori di sviluppo regionale, prediligendo la prospettiva che aggrega diversi dati, piuttosto che fare riferimento solo a quelli economici e al PIL in particolare, si nota che i forti divari economici regionali presenti nell'UE si ritrovano anche in termini di sviluppo sociale. Le regioni della convergenza registrano uno SPI pari a 54,5, mentre le regioni della competitività raggiungono un valore di quasi 70. In media, i divari regionali appaiono comunque rilevanti ma meno intensi nell'Area Euro rispetto all'Area non Euro, dove la forbice si allarga sia per effetto dello SPI maggiore delle regioni della competitività (72 nell'Area non Euro rispetto a 69 nell'Area Euro), sia in ragione di uno SPI più contenuto delle regioni della convergenza (53,2 nell'Area non Euro rispetto a 57,1 nell'Area Euro).  Le regioni italiane della competitività sono al di sotto della media UE a 28 (69,8) con uno SPI pari a 59,7. Il dualismo economico italiano tra Sud e Centro-Nord è dunque evidente anche guardando al diverso grado di soddisfacimento dei bisogni essenziali.
La dinamica differenziata tra le aree è confermate dall'Indice sintetico di competitività (RCI), le cui prime nove posizioni, con l'eccezione di Regno Unito (1° posto) e Portogallo (9° posto) sono tutte occupate dai nuovi paesi membri (nell'ordine, Estonia, Slovenia, Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Slovacchia e Croazia). L'Italia occupa solo il 13° posto della graduatoria. Stilando una classifica nazionale delle Regioni sulla base del RCI, notiamo che le Regioni meridionali occupano le ultime posizioni, ma la bassa competitività interessa anche le regioni più avanzate, rendendo il deficit di competitività una questione nazionale. Il Sud, dunque, sopporta una situazione di divergenza strutturale di doppio livello in ambito europeo: quello derivante da un'economia nazionale sempre meno competitiva rispetto alle altre grandi economie europee e, dall'altro, quello determinato dallo status di macroregione della periferia, soprattutto dopo l'allargamento europeo ad Est. La mancanza di armonizzazione fiscale nell'Unione origina una concorrenza impari tra le regioni meno sviluppate che ambiscono a stimolare la competitività delle imprese operanti sul territorio e, al tempo stesso, a favorire la capacità dei territori di attrarre risorse da destinare allo sviluppo.  In questo quadro appare limitata la possibilità dei fondi strutturali di incidere sul ritardo di sviluppo del Mezzogiorno, in assenza di armonizzazione delle politiche macroeconomiche europee, a fronte della quale andrebbe inaugurata una revisione operativa dei fondi strutturali. La prospettiva di rafforzamento dell'Unione economica e monetaria appare lontana; si auspica pertanto l'attivazione immediata della golden rule per tutti gli investimenti pubblici strategici, oltre che l'impiego dello strumento operativo delle Zone Economiche Speciali (ZES) che ha mostrato, nelle economie dell'Est, tutte le sue potenzialità in termini di attrazione degli investimenti esteri.

Le politiche di coesione nel Mezzogiorno - Con il 2015 si è concluso il ciclo di programmazione 2007-2013, forse il più critico della storia recente della coesione europea e nazionale. Di certo, è stato quello che più si è allontanato dagli standard europei e dalle sue stesse premesse - finanziarie, programmatiche e operative - contenute nel quadro strategico iniziale. A gravare sull'attuazione degli interventi, dal 2008 in poi, è stato tutto il peso della lunga crisi, che ha avuto un impatto asimmetrico dal punto di vista territoriale, scaricando sul Mezzogiorno gli effetti peggiori dell'austerità. La crisi ha inoltre portato allo smantellamento del quadro unitario sul piano delle fonti finanziare, con il sostanziale venir meno della leva nazionale delle politiche di coesione. Gli aspetti maggiormente problematici che la SVIMEZ ha ampiamente evidenziato riguardano la mancanza di un coordinamento strategico nella gestione delle politiche, la frammentazione e dispersione degli interventi e il mancato nesso con le politiche generali ordinarie.  In questo quadro, importante e non scontato il conseguimento dell'obiettivo del pieno assorbimento delle risorse europee alla chiusura del ciclo: i dati a nostra disposizione, ad oggi, fanno pensare che l'obiettivo sia stato pressoché interamente realizzato nella generalità dei Programmi. L'obiettivo di spesa è stato centrato soprattutto grazie all'espediente "straordinario" a fine 2011 della riprogrammazione del Piano di Azione Coesione, che ha ridotto la dotazione complessiva dei Programmi e aumentato la quota di cofinanziamento europeo, facilitando il raggiungimento dei target di spesa ammissibili ai rimborsi comunitari. Si tratta di un meccanismo utile in via emergenziale per contrastare il rischio di perdere risorse comunitarie, ma che non affronta i nodi strutturali dell'efficacia delle politiche di coesione. Le Amministrazioni che negli anni hanno mantenuto nel tempo buone performances attuative hanno realizzato i Programmi per tempo senza ricorrere a questo meccanismo e senza disperdere la dotazione destinata alle iniziali strategie di sviluppo: meritano di essere ricordati, in particolare, il PON "Istruzione" e i POR di Puglia e Basilicata.
Dal 2012 si sono messi in campo meccanismi più strutturali per affrontare i nodi critici dell'amministrazione della coesione: dal rafforzamento di un centro di coordinamento e controllo strategico all'istituzione di task force territoriali per migliorare le perfomances, dalla modifica della complessa governance delle politiche di coesione con la costituzione di un'Agenzia per la Coesione e lo spostamento alla Presidenza del Dipartimento, al ripristino da ultimo di un'Autorità politica delegata alla coesione in grado di assicurare un costante commitment. Si è dimostrato utile il rafforzamento della trasparenza realizzata attraverso iniziative come OpenCoesione. L'insieme di questi correttivi, però, non sembra aver ancora prodotto effetti decisivi né nel ciclo concluso (2007-2013), né nel ciclo in corso (2014-2020).  In chiusura, le Amministrazioni si sono lasciate margini importanti negli impegni per riconsiderare, in occasione della certificazione delle spese a valer sui Fondi strutturali, interventi già previsti e finanziati su altre fonti. Il ricorso a "progetti retrospettivi" determinano un effetto di "spiazzamento" che si è realizzato in particolare sul PAC e, soprattutto, sul FSC, che hanno finito per rappresentare dei "bacini di overbooking" per progetti poi rendicontati con risorse europee. Gli strumenti e i meccanismi predisposti per raggiungere il massimo grado di rendicontazione delle risorse dei Programmi, come avvenuto in passato, hanno agito più sulla "quantità" della spesa che sulla "qualità" della programmazione.

Il nuovo ciclo 2014-2020 - A due anni e mezzo dall'inizio, le prime battute del nuovo ciclo di programmazione evidenziano una situazione di ritardato avvio. Il lavoro delle Amministrazioni, tutto concentrato lo scorso anno sulla chiusura del 2007-2013, si è fin qui concentrato sulle architetture, l'impostazione dei meccanismi di gestione, e la progettazione operativa piuttosto che su una diffusa attività di bandi, gare ed assegnazioni. I segnali frammentari di attività che si manifestano vengono in maggioranza da regioni più sviluppate, tranne qualche eccezione. Le criticità segnalate nell'ambito della gestione amministrativa - lentezze burocratiche, eccessivo avvicendamento dei vertici politici/strutture amministrative, farraginosità delle procedure nazionali e comunitarie, difficoltà tecniche o progettuali - sembrano riproporsi senza forti discontinuità.
Sul piano strategico, invece, la positiva novità dell'Accordo di Partenariato, prevede interventi che mirano ad irrobustire l'attività economica dei territori per creare occupazione: purtroppo, non sembra vi sia stato un significativo sforzo di concentrazione e anzi, si è via via registrata una tendenza alla frammentazione delle azioni. Tra le novità più interessanti di questo ciclo di programmazione c'è il recupero della centralità di progetto in fase attuativa. Tale approccio, adottato in relazione a progetti significativi come quello della banda ultralarga, concentra intorno ad un progetto unitario e sovraregionale attenzione politica, coordinamento amministrativo e capacità tecnica, integrando le singole componenti progettuali e finanziarie in un disegno unitario coerente con una policy nazionale.
La principale caratteristica del nuovo ciclo 2014-2020, ma anche il suo limite di fondo, è il "superamento" dell'unitarietà della programmazione che aveva caratterizzato l'impianto strategico del 2007-2013. Nell'Accordo di Partenariato, infatti, la cornice unitaria delle scelte di politiche di coesione nazionali ed europee, che fu la positiva intuizione del QSN 2007-2013, sembra essere venuta meno. Oggi, la programmazione poggia su tre pilastri: i Fondi strutturali e di investimento europei, la "programmazione parallela" finanziata con la riduzione del cofinanziamento nazionale ai Programmi Operativi, e il Fondo di Sviluppo e Coesione. Il problema principale è che ciascuno di questi pilastri ha una sua specificità, con procedure, tempi e soggetti coinvolti differenti, che riduce la portata strategica di un complesso di interventi che doveva seguire invece obiettivi e principi comuni: coordinamento, complementarietà, unitarietà, strategicità. Discutibile appare la scelta di confermare a inizio del ciclo una "programmazione parallela", un PAC 2014-2020: aver trasformato in strutturale un meccanismo emergenziale sembra il segno di una rinuncia a priori al miglioramento della capacità gestionale e di spesa della maggioranza delle Amministrazioni della coesione nel Mezzogiorno. Ad aggravare il quadro, nel corso del 2015, è sopravvenuta la mancata programmazione del FSC per il nuovo ciclo, che per quanto distinta da quella dei Fondi strutturali, avrebbe dovuto offrire una certezza di governance, procedure e tempistiche previste dalla legge di stabilità per il 2015, a lungo disattese. Il ritardo è stato recuperato solo nell'agosto di quest'anno.

Il Masterplan e i Patti per il Sud - Una positiva discontinuità, intervenuta tra la fine del 2015 e i primi mesi di quest'anno, è stata l'adozione del Masterplan e dei conseguenti Patti per il Sud, la cui novità principale, sul piano delle fonti di finanziamento, è aver rappresentato la prima organica (benché parziale) programmazione del FSC 2014-2020. Al di là di alcuni ritardi e limiti dell'impostazione, si tratta di un piano di intervento importante, che prevede la mobilitazione dell'insieme delle risorse disponibili per la coesione europea e nazionale, e individua le aree strategiche di intervento che appaiono condivisibili.
Il primo positivo segnale di discontinuità da segnalare è il tentativo di recuperare il coordinamento strategico delle risorse per la coesione europea e nazionale, che manca nell'Accordo di Partenariato. È un intento che, ad oggi, per quanto riguarda le fonti di finanziamento, sembra essere raggiunto solo parzialmente. Su investimenti attivabili per un totale, ad oggi, di 37,5 miliardi, 10,2 sono risorse già variamente assegnate, 12,6 sono imputati al FSC 2014-2020, e 14,7 sono individuati nelle altre fonti di nuova programmazione. Tuttavia, il grado di varianza regionali delle fonti di finanziamento implica che il coordinamento va perseguito nel singolo intervento, con esiti che di volta in volta possono essere molto diversi, a causa della scarsa definizione delle procedure. Inoltre, l'impatto finanziario per il biennio 2016-2017 risulta dal cronoprogramma alquanto modesto (appena 1,9 miliardi di euro per l'FSC), rendendo il rischio di sostitutività molto concreto. Per quanto riguarda la qualità delle scelte programmatorie, va segnalata anzitutto, sul piano del metodo, la scelta di un approccio bilaterale Governo-Regioni e Governo-Città metropolitane, che caratterizza i Patti. Tale approccio ha un risvolto negativo e uno positivo: da un lato, fa perdere di vista la strategia complessiva per la macroarea, in assenza di progetti che superino la dimensione regionale; dall'altro, fa emergere le priorità di sviluppo del territorio, per cui al centro non sono i fondi e loro procedure di spesa, come purtroppo è accaduto nell'attuazione delle passate programmazioni, ma i progetti. Una sintesi dei Patti per aree di intervento allo stato attuale ci porta a valutare positivamente l'"integrazione" operata dai Patti, rispetto alle scelte di programmazione europea della coesione: le infrastrutture che là erano state fortemente ridimensionate, qui raggiungono una percentuale, dovuta al forte apporto di risorse FSC, di quasi un terzo del totale, 12,3 miliardi di euro (sui 37 complessivi), e così l'ambiente, con oltre 11 miliardi; per lo sviluppo economico e le politiche industriali sono previsti circa 7 miliardi complessivi; 2,4 miliardi per il turismo e la cultura; 3 miliardi per welfare, inclusione sociale e sicurezza e 1,2 per l'istruzione e la formazione. Sul piano della governance, un elemento molto positivo è l'esplicitazione delle responsabilità reciproche, tra Governo e Amministrazioni coinvolte, nell'attuazione dei Patti; il soggetto attuatore individuato in via preferenziale è INVITALIA, con la previsione degli strumenti di accelerazione e le facoltà di esercizio di poteri sostitutivi, in capo alla Presidenza del Consiglio.
L'auspicio è che su questo fronte si produca una forte e duplice discontinuità, anche con il recente passato: da un lato i Contratti Istituzionali di Sviluppo già in essere, con i relativi cronoprogrammi previsti, hanno generalmente evidenziato una mancanza di cogenza nel rispetto degli impegni; dall'altro, l'esercizio del potere sostitutivo fin qui è stato solo formale, per la mancanza di bracci operativi centrali in grado di sostituirsi in quell'intervento e in quel territorio, alle Amministrazioni inefficienti. Tale esercizio si è finora sostanzialmente risolto nella sanzione facile, e tutta politica, del definanziamento degli interventi, facendo pagare due volte ai cittadini meridionali il costo delle inefficienze amministrative. Ad oggi è difficile dire se il Masterplan possa rappresentare quella svolta strategica nelle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno. L'auspicio anche in questo caso è una tempestiva definizione delle diverse e ulteriori fonti di finanziamento, per accelerarne l'impiego e massimizzare un impatto che nel breve periodo sembra ancora troppo limitato. La complessa governance delle politiche di coesione, dal 2016 finalmente provvista di un'Autorità politica delegata, non deve porsi soltanto l'obiettivo, pur essenziale, dell'accelerazione della spesa dei Fondi strutturali: senza un forte impegno di coordinamento, di unitarietà e strategicità della programmazione; anche questo finirebbe per produrre quegli effetti sostitutivi che hanno minato l'efficacia del ciclo 2007-2013. D'altro canto, è necessario accompagnare i Patti, che hanno inevitabilmente una forte caratterizzazione bilaterale, con una strategia sovraregionale chiara. Si ritiene dunque necessario programmare operativamente al più presto la parte restante dell'FSC 2014-2020, ma soprattutto predisporre linee di intervento nelle politiche ordinarie delle Pubbliche Amministrazioni che tengano conto degli impatti territoriali.
La sfida, per attivare una dinamica di convergenza nel Mezzogiorno, accanto a una politica generale nazionale ed europea che la favorisca (che fin qui è mancata), resta quella dell'addizionalità. Una sfida che risulta ancora più decisiva proprio perché, a fronte di una previsione tendenziale che vede un sensibile rallentamento della crescita nell'area, si potrebbe registrare una performance sicuramente migliore qualora lo spazio di investimenti aperto con le diverse "clausole di flessibilità" risultasse davvero aggiuntivo e non sostitutivo.

Politica infrastrutturale- La politica infrastrutturale italiana ha vissuto in quest'ultimo anno una fase interessante, densa di iniziative che hanno concentrato l'attenzione soprattutto sulla dimensione settoriale e sulla strumentazione istituzionale e programmatica. Il principale passaggio di questa fase è stato il definitivo abbandono dello schema operativo regolato con la Legge Obiettivo, varata nel lontano 2001, che ha condotto a risultati complessivamente deludenti, soprattutto per il Mezzogiorno.
La dotazione infrastrutturale del Mezzogiorno risulta ancora carente e inadeguata sia sul piano quantitativo che qualitativo. Nel Nord, infatti, il processo di accumulazione si arresta solo con l'insorgere della grave crisi del 2008-2009, mentre al Sud il declino si è arrestato solo per stabilizzarsi intorno ad una sorta di "soglia di sopravvivenza": negli anni più recenti gli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, risultano stabilmente ancorati ad un rapporto di 1 a 5 rispetto a quelli nel Centro-Nord. Nel Mezzogiorno le scelte sono orientate a garantire più standard di servizi "di base", che veri e propri up-grade quali-quantitativi e tecnologici: i collegamenti sono assicurati da una relativamente più fitta rete di strade che hanno standard di servizio inferiori. Nel Centro-Nord si è proceduto, invece, ad un complessivo up-grade qualitativo di tutte reti, aumentando la dotazione autostradale, mentre il processo di razionalizzazione e potenziamento della rete ferroviaria ha potuto giovarsi anche della realizzazione in quest'area di gran parte della rete nazionale dell'Alta Velocità.
L'indice sintetico della dotazione di reti sembrerebbe evidenziare una sorta di "illusione infrastrutturale" nel Mezzogiorno, determinata dalla maggiore consistenza di reti stradali: l'indice risulta pari a 103,1 contro il 98,3 del Centro-Nord; questa "illusione" scompare quando si prendono in considerazione le categorie infrastrutturali qualitativamente più elevate  (autostrade e reti ferroviarie elettrificate), i cui valori indicano una consistente sottodotazione dell'area meridionale: l'indice si ferma a 87,4 rispetto al 107,2 del Centro-Nord.  Passando ai nodi infrastrutturali complessi, la dotazione relativa del Mezzogiorno assume valori estremamente modesti. I centri intermodali ferroviari (di RFI) risultano inesistenti nel Mezzogiorno, mentre gli interporti vantano una presenza estremamente modesta. Negli ultimi anni gli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, risultano stabilmente ancorati ad un rapporto di 1 a 5 rispetto a quelli nel Centro-Nord.

La politica infrastrutturale al Sud nel 2015- Nel 2015 si è manifestata una netta inversione di tendenza con la ripresa degli investimenti in opere pubbliche: +1,1% nazionale (+1,5%, nel Mezzogiorno, +1% nel Centro-Nord). Su questo risultato hanno influito l'accelerazione della spesa per la chiusura delle rendicontazioni della programmazione comunitaria 2007-2013, ma anche le scelte, operate dal Governo, di rilancio delle politiche infrastrutturali. In questo quadro, il Mezzogiorno resta marginale nelle strategie di investimento infrastrutturale europeo, essendo escluso nel 2016 dall'accesso accesso ai finanziamenti della Connecting Europe Facility (CEF), per la programmazione comunitaria, e sostanzialmente anche dagli interventi strategici cofinanziati dal Fondo Europeo per gli investimenti (FEIS) costituito all'inizio di quest'anno nell'ambito del cosiddetto Piano Juncker. A livello comunitario, gli interventi del FESR restano, soprattutto per il Mezzogiorno, la principale fonte finanziaria a sostegno degli investimenti infrastrutturali. Sugli 1,8 miliardi di euro riprogrammati sul Programma operativo nazionale (PON) "Reti e Mobilità" 2007-2013 nelle cinque regioni meridionali "Convergenza" (Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia) si registrano ad aprile 2016 impegni per 2,4 miliardi (pari al 128,6% degli stanziamenti) e pagamenti a 1,8 miliardi di euro (97,7% degli stanziamenti). Nel ciclo di programmazione 2014-2020 è stato confermato un PON nel settore dei trasporti, denominato Infrastrutture e Reti, per le cinque Regioni Meno Sviluppate (ex Convergenza). L'approvazione del Piano nazionale degli aeroporti ha già prodotto una nuova generazione di investimenti, definiti con contratti di programma stipulati dall'ENAC, alla quale dovranno essere affiancati interventi orientati soprattutto al collegamento tra gli scali e i centri urbani e le reti di comunicazione di riferimento. Nei porti, la riforma della governance con il Piano Strategico Nazionale della Portualità e della Logistica (PSNPL) dovrebbe sbloccare una situazione di stallo che dura da anni. Nelle ferrovie, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ha avviato un'importante iniziativa di analisi e confronto con le imprese per rilanciare il settore cargo, puntando all'adeguamento sostanziale di un contratto di programma con RFI già consistente e di rilancio degli investimenti, nella prospettiva di dotare l'intera rete core delle merci entro il 2021 di standard operativi competitivi a livello europeo e con il trasporto stradale di media-lunga percorrenza. Nel settore stradale, l'ANAS ha recentemente presentato il proprio piano industriale, fortemente orientato non solo alla realizzazione di nuove infrastrutture, ma soprattutto alla manutenzione, all'efficienza e alla sicurezza delle reti. In tutti questi ambiti di intervento però emerge con difficoltà un chiaro disegno specificamente dedicato al Mezzogiorno.
Il PIS 2015, formato dalle opere comprese nei primi due blocchi del DEF, ammonta a 278,9 miliardi, di cui il 68,4% nel Centro-Nord e il 30,9% nel Mezzogiorno. Oltre la metà delle opere del PIS 2015 sono però ancora nelle fase di progettazione: 154,9 miliardi su di un totale di 278,9 miliardi, di cui 103,7 nel Centro-Nord e 51,2 nel Mezzogiorno, con un'incidenza sul totale dei costi delle opere, maggiore nel Mezzogiorno che nel Centro-Nord (59,4% contro il 54,3%), dove però risulta maggiore la quota delle opere già ammesse in gara o aggiudicate; al Sud appare, invece, più elevata l'incidenza delle opere ultimate (16% dei relativi costi, circa doppio che nel Centro-Nord 7,7%). Le opere completate nel Mezzogiorno rappresentano il 72,2% di quelle nazionali. L'analisi dello stato di avanzamento fa emergere, tuttavia, una realtà ben diversa. Dei 28,2 miliardi in fase di progettazione, 17,5 sono nel Mezzogiorno e 10,8 miliardi nel Centro-Nord; ma in quest'area, ben 15,8 miliardi sono per opere aggiudicate o contrattualizzate e 24,6 miliardi (il 45,3% del totale) sono in corso di esecuzione. Nel Mezzogiorno, le opere in gara, aggiudicate e contrattualizzate sono appena 2,6 miliardi e quelle in corso solo 7,7 miliardi. Il costo delle opere prioritarie, al netto delle ultimazioni, ammonta a 70,9 miliardi di euro, di cui sono disponibili 48 miliardi di euro (34,8 miliardi nel Centro-Nord con 6,9 miliardi di risorse private e 13,2 miliardi nel Mezzogiorno, tutti pubblici).  Nel Sud prevalgono gli interventi sulle infrastrutture stradali (48,4% del totale), mentre nel Centro-Nord quelli sulle reti ferroviarie (45,4% del totale); con queste scelte tende ad ampliarsi il divario non solo quantitativo, ma anche qualitativo tra le due aree. Gli indici per settore di intervento, mostrano un Centro-Nord dotato di una copertura finanziaria prossima al 100% salvo che nelle ferrovie (51,5%), dove invece risulta maggiore nel Mezzogiorno (69,5%), ma mentre in quest'area l'avanzamento è ancora vicino allo zero, nel Centro-Nord la situazione appare relativamente migliore. Le risorse complessivamente destinate agli investimenti fissi lordi della PA dovrebbero registrare ulteriori incrementi nominali nel periodo 2016-2019: dai 36,9 miliardi di euro del 2014, si dovrebbe arrivare ai 40,6 miliardi del 2019.

Il Masterplan Mezzogiorno - Il Masterplan può rappresentare uno strumento essenziale per definire il quadro programmatico infrastrutturale del Sud, anche se all'interno di una pianificazione onnicomprensiva e definita territorio per territorio. Le risorse destinate alle infrastrutture valgono complessivamente oltre il 30% dei Patti per il Sud, e i settori infrastrutturali coinvolti sono rilevanti e tutti di primaria importanza: dai trasporti (Alta Velocità sulle direttrici adriatica e tirrenica e sulla Napoli-Bari-Taranto, ammodernamento delle ferrovie in Sicilia e Sardegna, Piano della portualità e della logistica e Piano degli aeroporti) all'energia (rigassificatori, interconnessioni con l'estero, dorsale Sud-Nord) e alle telecomunicazioni (Piano Banda Ultralarga, con 3,5 miliardi già stanziati sul FSC e circa 2 miliardi sui PON e sui POR). L'esigenza di un vero e proprio disegno strategico per l'infrastrutturazione del Mezzogiorno dovrà tuttavia trovare sede nel nuovo Piano generale dei trasporti e della logistica (PGTL), frutto della sintesi e del coordinamento delle varie pianificazioni già approvate o in corso di elaborazione, e soprattutto come quadro di riferimento del primo Documento pluriennale di pianificazione (DPP), la cui adozione è prevista entro il mese di aprile 2017
INDUSTRIA POLITICA INDUSTRIALE TRA LUCI E OMBRE

L'industria meridionale tra luci e ombre- La fase più intensa della crisi italiana è stata fortemente connotata dalla sua natura "industriale": nel manifatturiero e nelle costruzioni, infatti, si sono concentrate le contrazioni più marcate dei livelli produttivi e occupazionali, ed il processo di accumulazione ha registrato la battuta d'arresto più evidente. Tale crisi ha rappresentato l'apice di un lento processo di declino industriale che ha preso le mosse nella seconda metà degli anni '90. In Italia la crisi ha sortito effetti fortemente asimmetrici dal punto di vista territoriale, colpendo in misura più intensa il Mezzogiorno, soprattutto nell'industria manifatturiera. Ai processi di riduzione dimensionale o di fuoriuscita dai mercati delle PMI più deboli può essere attribuita una valenza positiva, legata ad un effetto di "scrematura", che ha lasciato sul campo solo le imprese più efficienti grazie a fatturati più corposi, redditività più elevata e maggiore patrimonializzazione. Tuttavia rimane qualche perplessità sul fatto che l'uscita degli operatori più deboli e il ridimensionamento di alcuni dei sopravvissuti possano creare le condizioni per un effettivo rilancio della competitività delle PMI meridionali e un recupero della loro condizione di ritardo strutturale rispetto alle PMI localizzate nel resto del Paese.
Tra il 2007 e il 2014, il settore manifatturiero meridionale ha perso il 34% del valore aggiunto, oltre due volte e mezzo quella subita dal resto del Paese (-13,3%). L'intensità di tale caduta - non solo del Sud, ma anche del Centro-Nord - non è paragonabile con quella sperimentata dagli altri paesi europei, pari al -4,1% per quelli dell'Area dell'euro e ad appena il -1,5% per i paesi non aderenti all'Unione monetaria.
Nel 2015 l'industria manifatturiera del Sud ha manifestato una prima, importante, inversione di tendenza: il tasso d'incremento del valore aggiunto è stato pari al +1,9%, interrompendo la caduta degli ultimi anni. Per la prima volta dal 2007, inoltre, la dinamica del settore manifatturiero meridionale è stata di entità maggiore rispetto a quella del Centro-Nord (+1,4%), trainata da una crescita delle esportazioni particolarmente sostenuta (+12% al netto della branca dei prodotti petroliferi, contro il +3,7% del resto del Paese). Nel confronto con il dato medio dell'Ue a 28 (+2,2%), il Sud ha fatto registrare un differenziale negativo di appena pochi decimi di punto. Tra i settori che hanno maggiormente contribuito a determinare le buone performance del 2015, si distinguono in particolare l'automotive e meccanica (+8,4%), la gomma e materie plastiche (+6,8%) e il legno, carta e editoria (+4,5%). In aumento, seppure più contenuto, risultano anche le produzioni tessili e l'abbigliamento (+2,3%), il chimico-farmaceutico (+1,9%) e le produzioni metallurgiche (+2,0%). Il cambio di passo che nel 2015 ha interessato gli andamenti del prodotto e della competitività del settore manifatturiero meridionale, non è stato sufficiente ad arrestare il processo di disinvestimento, che però si è fortemente ridotto di intensità. Nel Sud, gli investimenti dell'industria in senso stretto sono diminuiti del -1,6%, a fronte del -12,7% nel 2014, in presenza di un aumento del +1,7% nel Centro-Nord (-2,2% nel 2014). Tra il 2007 e il 2015, gli investimenti industriali hanno subito al Sud un vero e proprio crollo (-43,5%, a fronte del -23,3% sperimentato nel Centro-Nord).
Considerando che anche la flessione dei livelli occupazionali nel settore manifatturiero meridionale non si è arrestata, la produttività del lavoro è aumentata del +3,5% nel 2015, oltre un punto percentuale in più rispetto al resto del Paese (+2,2%). Posto uguale a 100 il livello della produttività del Centro-Nord, il valore relativo del Mezzogiorno è dunque salito dal 65,1% al 65,9%, realizzando un parziale recupero dopo la pesante crescita del gap strutturale verificatasi negli anni 2008-2014 (73,6% nel 2007). In definitiva, l'analisi degli andamenti del 2015 condotta sulla base dei principali dati macroeconomici sembra mostrare che l'industria manifatturiera del Sud sopravvissuta alla crisi dia segnali di essere in condizioni di ricollegarsi alla ripresa nazionale e internazionale, come sta ad indicare anche la buona performance delle esportazioni.
Anche al Sud si rileva la presenza di un gruppo di imprese dinamiche, innovative, con un grado elevato di apertura internazionale e inserite nelle catene globali del valore (CGV). Nel passato, nel Mezzogiorno la presenza di queste "eccellenze" era confinata al segmento delle imprese di "medie" dimensioni. L'importante novità è che tali caratteristiche si rinvengono anche nel gruppo delle "piccole", come ad esempio nel caso delle start up innovative e delle c.d. "gazzelle", piccole imprese che negli anni della crisi hanno almeno raddoppiato il proprio fatturato. Tuttavia, va considerato che nel Sud la possibilità che tali imprese possano "contaminare" positivamente il resto del sistema produttivo è fortemente limitata dalla loro bassa numerosità: 680 "gazzelle" (contro 3.282 nel resto del Paese), 1.196 start up innovative (4.056 nel Centro-Nord), e 245 imprese di medie dimensioni, in calo del 31% rispetto al 2008 (valori che si confrontano con le 3.020 imprese del Centro-Nord, in calo del -19% rispetto al 2008). Per di più, l'assottigliamento della classe delle medie imprese è stato principalmente determinato, soprattutto al Sud, da uno spostamento verso la classe dimensionale inferiore, accentuando il downsizing del sistema produttivo meridionale.
Al di là degli ambiti ristretti di queste "eccellenze", gli andamenti recenti anche delle variabili di natura "microeconomica" sembrano confermare che nel Mezzogiorno, a fronte di un indubbio assottigliamento della base produttiva, non sembrano ravvisarsi segnali di un irrobustimento delle imprese più efficienti emerge come l'inserimento delle imprese del Mezzogiorno nelle catene globali del valore (GCV), oltre ad essere relativamente scarsa, avviene con modalità sub-ottimali. Negli ultimi anni, la specializzazione produttiva dell'apparato produttivo meridionale e il suo posizionamento nei sistemi di produzione globali si sono modificati notevolmente, dovendo fare fronte sia alla grande crisi che alla continua evoluzione dei processi di globalizzazione. In ambito nazionale, considerando la ripartizione settoriale delle unità locali e dei relativi addetti, il Mezzogiorno appare specializzato in misura crescente nel tempo nelle produzioni di Coke e prodotti petroliferi ed Alimentari e bevande, mentre i settori Abbigliamento, Legno e Tabacco evidenziano una dinamica opposta.
Nonostante il buon andamento dell'export nel 2015 nell'ambito dell'internazionalizzazione le difficoltà strutturali del sistema economico meridionale sono notevoli. Per quanto riguarda le esportazioni di merci la quota percentuale del Sud è largamente inferiore al suo peso in termini di PIL. Tale quota è aumentata leggermente nel 2015, mantenendosi tuttavia nettamente inferiore al livello che aveva raggiunto nel 2008. Considerando le sole esportazioni di manufatti al netto dei prodotti energetici raffinati, la quota del Mezzogiorno sulle esportazioni italiane si è ridotta notevolmente a partire dal 2009. Mentre in due anni le esportazioni del Centro-Nord sono tornate a un livello superiore a quello del 2007 e hanno poi continuato a crescere senza interruzioni, quelle del Mezzogiorno hanno subito pesantemente gli effetti della seconda ondata della crisi: nel 2014 si trovavano ancora a un valore inferiore del 5% rispetto a quello del 2007 e soltanto l'anno scorso lo hanno superato.
Da un'analisi dei vantaggi comparati da noi effettuata, emerge un impoverimento del modello di specializzazione del Mezzogiorno, derivato essenzialmente dalla crisi dei sistemi locali di piccola impresa nella filiera della pelle e nei mobili, e da un indebolimento nei settori della chimica-farmaceutica e dell'ICT, dominati da grandi imprese a controllo esterno. I vantaggi comparati si sono progressivamente invece concentrati nell'industria alimentare, e restano molto forti per i mezzi di trasporto, in particolare gli autoveicoli.

Una politica industriale per il rilancio del Mezzogiorno- Durante gli anni di crisi le principali economie hanno riscoperto il ruolo della politica industriale, in funzione non solo correttiva delle dinamiche spontanee di mercato ma che attraverso investimenti strategici punti a favorire una modifica dei modelli di specializzazione esistenti. In Italia, invece, a partire dal 2007 la politica industriale è stata perseguita con minore forza rispetto agli altri principali partner europei. La netta riduzione delle agevolazioni, sia concesse che erogate, degli ultimi quindici anni ha colpito in misura molto più accentuata il Mezzogiorno. Il 2014 ha fatto evidenziare una prima inversione di tendenza: l'aumento delle agevolazioni nel 2014, sia concesse (+90% al Sud, rispetto al -34,1%del Centro-Nord), sia erogate (+28,7% nel Mezzogiorno, a fronte del -8,6% nel resto del Paese), è ascrivibile all'accelerazione della spesa dei Fondi strutturali 2007-2013 e alla movimentazione di strumenti riconducibili alla politica industriale regionale, finanziata dalle risorse dei Fondi strutturali (Contratti di sviluppo, Zone franche urbane e aiuti per gli "investimenti innovativi"). Nel 2014 è proseguita anche la forte crescita degli interventi del Fondo di garanzia, che costituisce l'unico intervento della politica industriale nazionale che presenta un buon grado di utilizzo da parte delle imprese meridionali (pari negli anni 2007-2015 al 30% in termini di garanzie concesse). A livello programmatico, tra il 2015 e la prima metà del 2016 è stata completata una intensa attività, che ha riguardato essenzialmente la politica industriale regionale e che ha condotto all'approvazione di importanti documenti strategici, tra cui la "Strategia Nazionale di Specializzazione Intelligente", il PON "Ricerca e innovazione" e il PON "Imprese e competitività" 2014-2020. A questi documenti si affianca il "Programma Nazionale per la Ricerca (PNR) 2015-2020", che non attinge solo alle risorse della politica regionale.
Permangono tuttavia delle criticità evidenti, sia per la diminuzione delle risorse stanziate, che interessa principalmente quelle del PON "Ricerca e innovazione" 2014-2020, quasi dimezzate rispetto alle risorse del precedente PON "Ricerca e competitività" 2007-2013 (da 3,3 miliardi di euro a circa 1,7 miliardi), sia per il debole coordinamento tra le politiche delle Regioni e tra queste e le policy nazionali. Il recente varo del piano "Industria 4.0" individua una serie di interventi volti a favorire la digitalizzazione e l'interconnessione di tutta la filiera produttiva. Alcune misure specifiche riguardanti gli interventi di incentivazione per le imprese sono state inserite nel disegno di Legge di Bilancio 2017. Si tratta di misure per lo più già esistenti, di sostegno agli investimenti (Nuova Sabatini, Superammortamento, Credito di imposta per la R&S) e per facilitare l'accesso al credito (Fondo di garanzia), ma che verrebbero rafforzate e indirizzate sugli ambiti produttivi più strettamente correlati alla implementazione di tecnologie digitali. Sono, inoltre, previsti interventi volti a favorire il trasferimento tecnologico attraverso l'istituzione di "competence center", in cui opereranno a stretto contatto centri di ricerca, Università, PMI innovative, grandi imprese, start up. La definizione del piano "Industria 4.0", pur se in ritardo rispetto ai nostri principali partner europei, rappresenta un passaggio importante per favorire il necessario adeguamento del sistema industriale. Nel Mezzogiorno, tuttavia, la sua implementazione appare molto più complessa, poiché la presenza di imprese di taglia estremamente ridotta si accompagna ad un livello di industrializzazione molto basso e alla relativa assenza di distretti e cluster produttivi. Senza una declinazione territoriale degli interventi a favore del Mezzogiorno è molto probabile che la gran parte delle imprese meridionali non sia in grado di accedere agli interventi previsti da "Industria 4.0". L'assenza di una strategia di medio-lungo termine in Italia rimane un pesante fardello. Occorre una prospettiva d'insieme che dovrebbe mettere a sistema gli interessi del Mezzogiorno con quelli dell'intero Paese, favorendo nel Centro-Nord un riposizionamento competitivo in linea con i cambiamenti strutturali intervenuti nella geografia degli assetti produttivi a livello mondiale e nel Sud non solo l'adeguamento del sistema esistente, ma anche l'ulteriore sviluppo dell'apparato produttivo.
Gli obiettivi che risultano prioritari nel sistema produttivo nazionale, ed in particolare del Mezzogiorno, sono l'innalzamento delle dimensioni medie e dei processi di aggregazione delle imprese; l'aumento dei livelli di internazionalizzazione, in particolare favorendo un maggiore inserimento del Sud nelle catene globali del valore e il rilancio delle politiche di attrazione; il miglioramento delle condizioni di accesso al credito e ai mercati dei capitali. L'avvio del nuovo ciclo di programmazione 2014-2020 e la formazione della Legge di Bilancio 2017, potrebbe rappresentare una buona occasione per mettere in campo alcune "misure di primo intervento".
Sul piano della ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico, andrebbe rifinanziata la misura degli "investimenti innovativi" e introdotta una riserva di risorse a favore del Sud nell'implementazione del credito di imposta per la R&S e dei "competence center", in assenza della quale è altamente probabile che le imprese meridionali catturino quote irrilevanti di agevolazioni. Analogamente per la "Nuova Sabatini" si potrebbe prevedere il finanziamento a tasso zero degli investimenti per le imprese del Sud. Relativamente all'innalzamento delle dimensioni di impresa l'introduzione di canali di accesso privilegiato a favore delle imprese meridionali nei due fondi di private equity controllati dalla Cassa Depositi e Prestiti, il Fondo Italiano di Investimenti e il Fondo Strategico Italiano risulta fondamentale, come l'istituzione di fondi di private equity specifici per il Mezzogiorno. Per stimolare i processi di internazionalizzazione occorrerebbe implementare il prolungamento del "Piano per il Sud" dell'ICE. Cruciali per favorire l'avanzamento del processo di sviluppo nel Sud sono i Contratti di sviluppo, per i quali si rileva, però, la necessità di intervenire per velocizzare i tempi di attuazione degli accordi già sottoscritti. Secondo la SVIMEZ, inoltre, sarebbe importante l'istituzione delle Zone Economiche Speciali (ZES), per le quali, al di là delle iniziative intraprese dalle singole Regioni, sarebbe opportuno predisporre una legge nazionale che ne consentisse una implementazione in tempi brevi.
In una prospettiva di maggiore strategicità, un contributo decisivo all'innalzamento dei livelli di internazionalizzazione delle imprese, anche del Sud, può essere decisamente offerto dallo sviluppo della logistica avanzata. Nel Mezzogiorno la logistica avanzata, soprattutto se coniugata a vantaggi fiscali e doganali come quelli delle ZES, potrebbe rappresentare una importante leva non solo per accrescere il grado di internazionalizzazione delle imprese e l'attrazione di investimenti nazionali ed esteri, ma anche per favorire lo sviluppo dell'apparato produttivo dell'area.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I DRIVERS DELLO SVILUPPO

Secondo la SVIMEZ la crisi di competitività del Mezzogiorno e dell'intero Paese va affrontata con una politica attiva di sviluppo basata su alcune direttrici di intervento prioritarie, fortemente interconnesse tra loro. I punti di forza che compongono questa strategia sono la logistica in una prospettiva euromediterranea, le energie rinnovabili e le bio energie, la rigenerazione urbana, l'agroalimentare e l'agroindustria con tutti i settori ad essi collegati, l'industria culturale, a partire dalla scommessa di "Matera 2019".

La logistica- Il Mezzogiorno è nelle condizioni di svolgere un ruolo preminente nel sistema economico delle relazioni euro - mediterranee, da cui passa una notevole quota degli scambi mondiali. Il Sud può contare su un forte asset portuale che ha bisogno di essere rigenerato e rilanciato. Alla competitività in termini di capacità logistiche dei porti del Nord Europa si affianca la forte concorrenza delle nuove strutture del Mediterraneo orientale e del Nord Africa in seguito a un forte potenziamento della dotazione infrastrutturale. Occorre ripensare il sistema della logistica del Mezzogiorno nell'ottica di una visione d'insieme, capace di convogliare le esigenze di tutti i comparti del trasporto marittimo: da quello container a quello crocieristico, allo Short Sea Shipping-autostrade del mare, alle navi multipurpose (Con-Ro), ai poli logistici retroportuali (distripark). Sono tre le funzioni che questi ultimi potrebbero svolgere: consolidamento e inoltro di flussi di produzioni locali di eccellenza  a livello globale (funzione di out-bound), attrazione di flussi in entrata via trasporto marittimo, di semilavorati e beni intermedi prodotti in diverse aree del mondo (funzione di in-bound) e trasformazione in beni intermedi o finali attraverso processi innovativi e ad elevata tecnologia di logistica a valore per la successiva riesportazione (funzione di export processing). Otto sono state le aree retroportuali censite da trasformare in distripark: Napoli, Torre Annunziata, Salerno, Gioia Tauro, Taranto, Catania, Messina-Città dello Stretto, Termoli. Per rilanciare la logistica al Sud, l'idea proposta dalla SVIMEZ è la realizzazione di Filiere Territoriali Logistiche (FTL): un insieme di infrastrutture e servizi di trasporto e logistica a servizio di un'Area Vasta, con uno sbocco a mare adatto a ospitare porti di transhipment, quali Taranto in Puglia, Gioia Tauro in Calabria e Catania in Sicilia. Inoltre si deve puntare alla trasformazione e "idoneizzazione" logistica delle aree adiacenti ai porti da trasformare in distripark e centri per la logistica a valore, in base a modelli dove il valore del bene intermedio cresce nelle sequenze fino al mercato finale come quello convergente dell'assemblaggio, come automotive, elettronica, elettrodomestici, beneficiano dello status di vantaggio fiscale e doganale di Zona franca o di Zona Economica Speciale, favorendo, per questa via, l'insediamento di imprese.

La rigenerazione urbana- La rigenerazione urbana può rappresentare un formidabile driver, unendo agli interventi di riqualificazione edilizia un insieme vasto di interventi di natura ambientale, sui sistemi di mobilità e sul funzionamento dei cicli dell'acqua, dell'aria e dei rifiuti in grado di attivare un cambiamento profondo e duraturo, nell'ambito di un rinnovato rapporto tra pubblica amministrazione e comunità locali. Il perdurante dualismo urbano tra Centro-Nord e Mezzogiorno rimane una questione di ordine nazionale, a cui si tenterà di dare risposta anche con la sfida delle nuove Città metropolitane che dal 1° gennaio 2015 hanno accorpato le funzioni degli enti provinciali a nuove funzioni di pianificazione e programmazione: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli, Reggio Calabria e Roma Capitale, a cui si affiancheranno le quattro Città Metropolitane istituite dalle Regioni Autonome della Sardegna (Cagliari), e della Sicilia (Palermo, Catania, Messina): insieme rappresentano una parte consistente del paese, ovvero 22,1 milioni di residenti, su un totale di 60,7milioni nell'intero Paese. Si coglie una notevole differenza tra le città metropolitane del Centro-Nord e del sud, sia in termini demografici che economici: mentre le prime incrementano il saldo migratorio, per le seconde i dati sono spesso in passivo; sul fronte economico il dato del 2013, a fronte di un ammontare del valore aggiunto per l'Italia pari a 1.391 miliardi di euro, mostra un contributo dell'insieme delle Città metropolitane di oltre 555 miliardi, pari a circa il 40% del totale nazionale, su una popolazione metropolitana pari al 36,3% dell'intera popolazione italiana (60,8 milioni al 1° gennaio 2014). Il valore aggiunto delle Città metropolitane del Mezzogiorno, pari numericamente a sette su quattordici, ammonta ad appena 124 miliardi di euro, meno di un decimo del valore aggiunto nazionale, più esattamente l'8,92%. Il Governo, prendendo atto della condizione di grave difficoltà dell'economia meridionale, accanto all'impegno per l'accelerazione della spesa dei Fondi europei 2007-2013 ha avviato un percorso, chiamato Masterplan per il Mezzogiorno, che partendo dalla diffusione di alcune linee guida (emanate il 4 novembre 2015) prevede la stipula di sedici Patti con otto Regioni meridionali e sette Città metropolitane del Sud, più un Patto con la città di Taranto. L'azione di coordinamento non dovrebbe limitarsi solo alla governance verticale per le decisioni sulla destinazione dei fondi e all'allineamento delle normative per l'attuazione delle opere. Gli interventi di rigenerazione urbana richiedono un adeguato coordinamento tra programmi di riqualificazione urbana e azioni specifiche di tipo sistemico, quali interventi di incentivo fiscale e contributivo per la nascita e sviluppo di nuove imprese.

Energie rinnovabili e biomasse- La SVIMEZ ha da tempo posto attenzione al tema energetico e alle opportunità offerte dalle energie rinnovabili. In particolare la promozione delle biomasse può contribuire al contenimento delle emissioni nocive e alla riduzione della dipendenza dai combustibili fossili.
Lo sviluppo della bioeconomia, nella quale i diversi processi produttivi sono alimentati essenzialmente dalle biomasse, è al centro dell'agenda dell'Unione europea; in Italia essa impiega circa 1,5 milioni di occupati, con un valore produttivo nel 2013 pari a 244 miliardi di euro, ovvero il 7,9% del valore complessivo del totale economia. Il Mezzogiorno possiede, in particolare, un maggior potenziale negli scarti provenienti da colture arboree (ulivo, vite, melo, pero, agrumi, ecc.) e in quelli provenienti dalle produzioni di olio d'oliva, uva da vino, pomodori e gusci di frutta. La sfida è quella di promuovere un maggiore sviluppo delle biomasse di seconda e terza generazione, che derivano dall'utilizzo di prodotti (come, ad esempio, alghe e paglia) che non creano domanda aggiuntiva di terreno agricolo per la propria produzione, senza entrare in competizione con le produzioni alimentari ma rappresentano un'irrinunciabile opportunità di sviluppo per i terreni marginali e perfino per quelli inquinati.
Lo sviluppo della bioeconomia si ricollega, inoltre, al grande tema della riconversione di impianti industriali obsoleti, in particolare ex raffinerie altamente inquinanti presenti anche al Sud. É, ad esempio, il caso del progetto di riconversione da parte dell'ENI della raffineria di Gela, attualmente riconosciuta dal Ministero dello Sviluppo Economico tra le "aree di crisi industriale complessa". La riconversione dell'impianto dello stabilimento di Gela per la produzione di biocarburanti si dovrebbe concretizzare  seguendo il modello adottato per la raffineria di Porto Marghera (Venezia).
Per accelerare il processo di rafforzamento della bioeconomia resta fondamentale il ruolo delle politiche a livello nazionale, attraverso la promozione e lo sviluppo delle zone rurali. In particolare la SVIMEZ indica tra le azioni principali per sviluppare la bioeconomia l'adozione di un piano strategico, lo snellimento dell'iter burocratico e l'implementazione di adeguati sistemi di enforcement della normativa vigente.

L'agricoltura- Il settore agricolo rappresenta uno dei settori economici di maggiore tenuta per il Sud. La dinamica positiva che si è instaurata nel 2015, sembra essere confermata dai primi dati del 2016. Il processo di ristrutturazione delle realtà produttive e dall'aumento delle dimensioni medie aziendali rilancia il punto di vista economico e occupazionale.
Di particolare interesse è la riflessione sulle nuove istanze espresse dai consumatori moderni relativamente ai prodotti alimentari e alla qualità delle materie prime. Particolare interesse per i prodotti derivanti da agricoltura biologica, quelli certificati con il marchio DOP o IGP, oltre che per la salvaguardia e valorizzazione della sfera etica.Tra i nuovi ruoli che possono essere stimolati da una politica volta a valorizzare la multifunzionalità dell'agricoltura, c'è quello della salvaguardia "ambientale" attraverso la conservazione/ricostituzione del paesaggio rurale e della biodiversità e la riconversione verso pratiche agricole più sostenibili.
Il ruolo dell'agricoltura risulta strategico poiché connesso a due dei principali drivers di sviluppo che la SVIMEZ ha individuato: il rilancio della logistica portuale e retroportuale, per lo scambio e la valorizzazione dei prodotti sui mercati internazionali, e la produzione di bioenergia, anche come fattore decisivo per l'aumento della competitività delle produzioni.


L'industria culturale- Il settore culturale ricopre nell'ambito dei driver una componente chiave nello sviluppo del Mezzogiorno. A testimoniarlo le performance del settore turistico meridionale, che incoraggiano perseguire questa direttrice di sviluppo: tra il 2014 e 2015 si è registrato un incremento di oltre un milione delle presenze straniere negli esercizi ricettivi del Mezzogiorno; e nello stesso periodo è aumentata di circa l'8% la spesa dei turisti stranieri nel Mezzogiorno dopo il forte aumento registrato nel 2014. Gli spazi di crescita sono importanti soprattutto nelle regioni meridionali, dove un processo di investimento integrato in cultura e innovazione potrebbe determinare, se si raggiungesse la stessa quota presente nelle regioni del Centro-Nord, una crescita dell'occupazione impiegata di circa 200 mila unità, di cui circa 90 mila laureati. In questa prospettiva, un ruolo di particolare rilievo potrebbe essere rappresentato dalla designazione di Matera come Capitale Europea della Cultura per il 2019, da trasformare già oggi in un'occasione per l'intera economia lucana e per tutto il Mezzogiorno.

Verso Matera 2019 - Capitale europea della Cultura - "Matera 2019" si candida a diventare una importante opportunità per l'intero Mezzogiorno, diventando un catalizzatore per la rigenerazione economica e culturale di un territorio, come già è stato per le precedenti Capitali europee della Cultura, che hanno saputo ricoprire anche un importante valore economico di sviluppo territoriale; per raggiungere questo traguardo occorre investire in un sistema di infrastrutture non solo culturali. Tra le priorità c'è quello di innalzare il livello dei servizi offerti alle imprese nel campo delle infrastrutture materiali ed immateriali, della logistica, della commercializzazione ed export e della formazione-aggiornamento della forza lavoro. Una delle sfide più importanti è rappresentata dallo sviluppo di un sistema di accoglienza sostenibile nel breve-medio periodo. Gli indicatori relativi ai flussi turistici che interessano Matera continuano a registrare trend positivi: nell'anno 2015 il numero di arrivi e presenze di clienti italiani e stranieri in città è cresciuto del 40% rispetto all'anno precedente.
Il budget operativo previsto per Matera 2019 ammonta a 52 milioni di euro, mentre il piano di investimento per le spese in conto capitale ammonta a 650 milioni di euro e comprende infrastrutture culturali, azioni di rigenerazione urbana e investimenti in grandi infrastrutture legate all'accessibilità della città. Alcuni interventi previsti interessano l'intera regione nell'ottica di allargamento e coinvolgimento dei territori circostanti. La governance del percorso è affidata a una Fondazione "Matera-Basilicata 2019".
Nell'ambito del Masterplan per il Mezzogiorno, il Patto per lo sviluppo della Basilicata tra Presidenza del Consiglio dei Ministri e Regione Basilicata, prevede obiettivi e impegni di natura finanziaria che riguardano anche l'accessibilità del territorio, i collegamenti interni e il programma di "Matera 2019". Di fondamentale importanza sono gli interventi del Patto che rientrano nell' Agenda Digitale per un totale di 170 milioni di euro. Ulteriori risorse sono stati riservate direttamente dal Governo al programma di "Matera 2019", sia dalla Legge di Stabilità 2016 che da uno specifico programma del MIBACT. Una tempestiva attuazione di questo importante programma di interventi può rendere l'occasione di Matera 2019 un'opportuna strategica per uno sviluppo trainato dalla cultura per l'intera regione.
CRIMINALITÀ E MEZZOGIORNO

L'azione di contrasto delle Forze dell'Ordine ai gruppi mafiosi storici è stata assai incisiva negli ultimi anni. Nonostante ciò, i boss continuano a presentarsi come "regolatori" delle transazioni economiche, dei rapporti tra cittadino e amministrazione, della vita politica e civile. Il punto di forza dei gruppi criminali organizzati risiede proprio nella disponibilità di vari operatori economici ad avvantaggiarsi dei loro rapporti di collaborazione, oltre che nella capacità di internazionalizzazione dei clan, grazie a cui possono reperire risorse ingenti, operando in paesi in cui le normative antimafia sono meno rigorose.
 
Cosa Nostra- Secondo l'ultima Relazione della Direzione investigativa antimafia (DIA), pur continuando a costituire un "sistema unitario" che però si caratterizza come "realtà reticolare", la maggiore organizzazione criminale siciliana conosce oscillazioni e instabilità dovute agli "avvicendamenti nelle posizioni di vertice di alcuni boss". I nuovi affiliati non mostrano l'identificazione totalitaria con l'organizzazione che caratterizzava i vecchi boss, presentano codici di condotta più lassisti, sono più cedevoli di fronte alla prospettiva di una detenzione in regime speciale. I continui tentativi di ricostituire la struttura di vertice sono stati sventati dagli investigatori. In assenza della "cupola", pertanto, i mafiosi hanno fatto ricorso a una sorta di "consiglio degli anziani", i quali operano "in una logica di cooperazione orizzontale". Anche nella Sicilia orientale le famiglie evidenziano continue riconfigurazioni interne o talora migrazioni interne. Cosa nostra aspira ancora a un "riconoscimento pubblico", intrattiene rapporti con sodalizi stranieri soprattutto in attività quali prostituzione, smercio di merci contraffatte o traffico e sfruttamento di esseri umani, cerca di operare nel narcotraffico, anche attraverso la sinergia con la 'Ndrangheta. Inoltre, fornisce agli operatori economici collusi "servizi criminali" quali protezione, informazioni riservate, denaro sporco, "accesso a circuiti politico finanziari", partecipazione a gare d'appalto manipolate.

La 'Ndrangheta- Ha una fortissima proiezione esterna ed è dotata di immense disponibilità finanziarie, che le hanno consentito di "colonizzare" nuovi territori o realizzare insediamenti "sommersi" o "ausiliari" sia al Nord che all'estero. Molteplici e variegati sono i suoi interessi: dal narcotraffico ai fondi pubblici ed europei, dai contratti d'area e patti territoriali alla riqualificazione dei centri urbani, alle aree industriali dismesse, alle lottizzazioni edilizie, dai rifiuti e beni confiscati, alla sanità, associazioni sportive e gioco on line. Anche il sodalizio calabro è oggi sotto una pressione importante, confermata da centinaia di arresti, tra cui quello del secondo latitante più ricercato dopo Messina Denaro, Ernesto Fazzalari, a Taurianova.

La Camorra- La Camorra non ha mai avuto l'unitarietà che è stata raggiunta da Cosa nostra e dalla 'Ndrangheta. Si contano circa 110 clan, che alternano conflitti a momenti di cooperazione. Il cartello dei Casalesi si caratterizzava per una maggiore solidità e un prestigio criminale, ma è stato decapitato. Secondo la DIA alcuni suoi affiliati minori sono ancora operativi, mentre si assiste all'emergere di gruppi criminali nuovi e gangs la cui riconducibilità alla Camorra è dubbia.

Criminalità organizzata pugliese e lucana. Gruppi autoctoni in Lazio e in altre regioni italiane-  I sodalizi di stampo mafioso pugliesi e lucani sono nati di recente e hanno richiesto una legittimazione dalle famiglie di 'Ndrangheta. I nuovi gruppi pugliesi hanno anche ramificazioni extraregionali ed internazionali e hanno sviluppato un mix con attività tipiche della criminalità comune. Frequenti sono gli attentati incendiari e dinamitardi, segno del fatto che tali sodalizi non hanno l'età e la reputazione necessarie per intimidire senza ricorrere alle maniere forti.
In Lazio, oltre alla presenza di 'Ndrangheta, Camorra e Cosa nostra, si segnala anche quella di gruppi autoctoni, in cui viene ipotizzata la loro riconducibilità alle associazioni di stampo mafioso. Le recenti vicende di attualità hanno portato alla luce un "gruppo eterogeneo, fatto di criminali di strada, amministratori pubblici, imprenditori, che si è sostituito di fatto allo Stato", avvalendosi sia di una propria fama criminale violenta, sia dell'uso massiccio dello strumento corruttivo.

Linee evolutive della politica antimafia- I terreni su cui la politica antimafia italiana si confronta sono numerosi. Un tema complesso è quello dei beni e aziende oggetto di sequestro e confisca, su cui sono state presentate una serie di proposte di riforma, non ancora definite. Si tratta di una risorsa di enorme valore economico e simbolico, la cui gestione oculata costituirebbe un contributo alla crescita del Paese. L'esigenza principale è di sperimentare delle procedure pienamente tracciabili, che possano coniugare efficienza e trasparenza di gestione. Altro terreno di contrasto alle mafie è quello del gioco d'azzardo. Infine, la sconfitta delle mafie passa anche attraverso la ribellione "dal basso" delle vittime dell'estorsione. Sono pertanto necessari una serie di interventi, sia sul piano organizzativo-procedurale sia su quello normativo, per integrare e rendere più efficace questa disciplina.

Qualità istituzionale e lotta alla corruzione- La capacità di resistere ai fattori di disturbo e instabilità, detta economic resilience, così come la "prosperità di lungo termine" dei paesi dell'UE, dipendono in modo cruciale dalla qualità delle istituzioni pubbliche e della adeguatezza delle strutture economiche. Secondo l'Indice europeo di Qualità delle Istituzioni (EQI) elaborato dalla Università di Gothenburg nel 2013 le regioni del Mezzogiorno si collocano in coda alla classifica delle 236 regioni comprese nella rilevazione, tra il 200° (Abruzzo) e il 232°(Campania) posto. Le regioni centro-settentrionali (Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche e Lazio) si attestano su posizioni più elevate, ma comunque inferiori alla media europea e in netto peggioramento rispetto alla precedente rilevazione, effettuata nel 2010. Tra le novità introdotta nell'ambito delle azioni di contrasto all'illegalità, c'è l'Autorità indipendente, l'ANAC.
Il suo presidente Cantone ha parlato di "un "risveglio" da parte di operatori e cittadini, stanchi di un sistema spesso incapace di gestire risorse pubbliche destinate a opere e servizi fondamentali per la collettività". Una novità assai rilevante è costituita dal decreto legislativo 50/2016, il nuovo "codice degli appalti", che introduce significative novità finalizzate a processi che risultino più trasparenti ed efficaci.
Le differenze interregionali che si colgono sulla qualità istituzionale dipendono in parte da singole attività investigative e da una maggiore propensione alla denuncia. Ci sono dunque delle componenti che non possono essere monitorate con il rigore scientifico richiesto per stilare una classifica pienamente rappresentativa. La distribuzione per regione delle azioni penali e gli esiti giudiziari per i reati di corruzione e concussione  sono alcuni dei parametri monitorati per vagliare lo stato del settore. Esistono poi degli indici di riferimento, che sono il risultato di una serie di parametri più complessi. Secondo il Corruption Perception Index elaborato da "Transparency International", in buona parte basato appunto sulla corruzione "avvertita" da soggetti intervistati, nel 2015 la Svezia è al terzo posto su 168 paesi, con un punteggio di 89, mentre l'Italia è al 61°, con un punteggio di 44.

 


Pil pro capite e Mezzogiorno nel 2015
           La crescita in termini di prodotto pro capite è stata dell'1,1% nel Sud, e dello 0,6% nel resto del Paese. Il divario di sviluppo tra Nord e Sud in termini di prodotto per abitante ha ripreso a ridursi: nel 2015 il differenziale negativo è tornato al 43,5% rispetto al 43,9% del 2014. A livello regionale nel 2015 segno positivo per tutte le regioni italiane, con un prodotto pro-capite italiano del +0,9%, che si declina in +0.8% nel Centro Nord e nel +1,2% nel Mezzogiorno. Nello specifico delle singole regioni meridionali, il Pil pro capite 2015 più performante è quello della Basilicata +5,9%, seguita dal Molise +3,4%, dall'Abruzzo +2,7%. Poi nella graduatoria compaiono la Sicilia +1,7%, e la Calabria +1,4%. Agli ultimi posti la Sardegna +0,5%, la Puglia + 0,4%, fanalino di coda la Campania +0,3%. Le regioni più povere sono la Calabria, con un Pil pro capite pari a 16.659 euro, la Puglia con 16.973, la Campania con 17.077. Il divario tra la regione più ricca, il Trentino Alto Adige, dove il Pil pro capite è stato mediamente pari a 37.561 euro e la più povera, la Calabria, è stato nel 2015 pari a quasi 21 mila euro.

 

Tornano a crescere i consumi al Sud
 I consumi delle famiglie meridionali sono aumentati nel 2015 dello 0,3%, a fronte di una diminuzione del -0,6% nel 2014. L'incremento nelle regioni del Centro-Nord è stato dello 0,8%. La differenza tra le due aree è dovuta solo ai consumi privati, perché quelli pubblici sono diminuiti dappertutto del -0,6%. I consumi delle famiglie sono cresciuti l'anno scorso al Sud dello 0,7%, meno che nel resto del Paese 81,2%). Ciò è avvenuto sia per la necessità di ricostituire le scorte monetarie, prosciugate negli anni di crisi, sia per le attese non del tutto positive sull'uscita da un ciclo negativo. Nel Mezzogiorno, in particolare, non cresce ancora la spesa alimentare (-0,1%, mentre la stessa aumenta dello 0,2% nel centro-Nord. Particolarmente ampia è la forbice per la spesa in vestiario e calzature, che cresce al Sud nel 2015 dell1%, meno del +1,6% del resto d'Italia. Infine, i consumi per altri beni e servizi, tra i quali figurano quelli per la salute e la cultura, sono stati pari nel Mezzogiorno nel 2015 al +0,7%, contro +1,2% del resto del Paese.

In ripresa anche gli investimenti
Nel 2015 il miglioramento del clima di fiducia degli imprenditori e le meno stringenti condizioni poste dalle banche per l'accesso al credito, uniti alle aspettative positive della domanda interna, hanno sospinto gli investimenti nel Sud che sono cresciuti dello 0,8%, dopo sette anni di variazioni negative. Un incremento pari a quello del Centro-Nord. Ma non bisogna sottovalutare che nel periodo della recessione 2008-2014, gli investimenti fissi lordi erano diminuiti cumulativamente nel Mezzogiorno del -41,4%, circa 15 punti in più che nel resto del Paese (-26,7%).

I settori che tirano
Nel 2015, in agricoltura, il valore aggiunto ha fatto un balzo in avanti del +7,3%, contro un modesto 1,6% del Centro-Nord. Anche nei servizi il Mezzogiorno ha sopravanzato l'altra parte del Paese: +0,8% contro +0,3%. Nell'industria, invece, è il Centro-Nord che continua a tirare (+1,1% contro -0,3% del Sud): ma la novità è che la dinamica negativa del Sud è da attribuirsi al settore energetico, perché, se, invece, si considera il solo manifatturiero, il prodotto è cresciuto dappertutto, anzi è aumentato più al Sud +1,9% rispetto al Centro-Nord (+1,4%). Meglio nel Mezzogiorno perfino gli investimenti nelle costruzioni, +1,1%, rispetto al Centro-Nord, dove sono calati del -1,3%. Va comunque tenuto presente che l'aumento della produzione nel settore manifatturiero lo scorso anno è avvenuto al termine di sette anni di crisi in cui il valore aggiunto al Sud si era complessivamente ridotto di circa un terzo (-32,5%), registrando una caduta quasi tripla rispetto a quella avvenuta nel resto del Paese (-12%).

Aumentano gli occupati al Sud
Nelle regioni meridionali nel 2015 gli occupati sono aumentati dell'1,6%, pari a 94 mila unità, mentre in quelle del Centro-Nord sono cresciuti dello 0,6%, 91 mila unità.
E finalmente nel 2016 cresce anche l'occupazione giovanile meridionale: +3,9%, rispetto a una media nazionale del +2,8% e un aumento al Centro-Nord pari a +2,4%.
I risultati, nel complesso positivi, del mercato del lavoro meridionale, che si riflettono in un aumento dell'occupazione e un calo della disoccupazione, non debbono però far perdere di vista le criticità, in quanto i livelli occupazionali al Sud sono ancora troppo distanti da quelli precedenti alla crisi. L'unica regione del Sud vicina ai valori del 2008 è la Basilicata. L'aumento dei posti di lavoro al Sud riguarda in particolare l'agricoltura (+5,5%) e il terziario (+1,8%), grazie soprattutto al turismo. Nell'industria in senso stretto vi è nel 2015 ancora un calo degli occupati al Sud, -1,6%, che, però, nei primi mesi del 2016 inverte il segno: +3,9%. Mentre prosegue la caduta degli occupati nelle costruzioni all'inizio dell'anno in corso, -4%. Perdono, però, peso le occupazioni più qualificate, cresce piuttosto il lavoro part-time in professioni meno qualificate. Nel 2015 l'incremento del tempo pieno è più forte al Sud (+1,3%, a fronte del +0,4% del resto del Paese) favorito dalla riforma del job acts e dalla decontribuzione piena sulle nuove assunzioni. Non a caso aumenta, invece, al Centro-Nord e cala al Sud all'inizio del 2016, quando la decontribuzione scende dal 100% al 40%.

Migrazioni qualificate e crollo nascite
Il saldo migratorio netto del Mezzogiorno è di 653 mila unità. 478 mila sono giovani, di cui 133 mila laureati, e le donne sono più degli uomini. La popolazione meridionale nel 2015 è diminuita di ulteriori 62 mila unità: il calo è la conseguenza di una riduzione degli italiani di oltre 101 mila unità e di una crescita degli stranieri di circa 40 mila unità. Nel 2015 il numero dei nati al Sud ha raggiunto il livello più basso dall'Unità d'Italia: 170 mila.

Povertà e disuguaglianze sociali
Nel 2015 10 meridionali su 100 risultano in condizioni di povertà assoluta, contro poco più di 6 nel Centro-Nord. Il rischio di cadere in povertà è triplo al Sud rispetto al resto del Paese, nelle due regioni più grandi, Sicilia e Campania, sfiora il 40%.

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