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Economia
Spread, perché le banche pagano il conto più salato per la crisi di governo

Giovedì 8 agosto lo spread, il differenziale di rendimento tra il Btp decennale e l’omologo bund tedesco, chiudeva la seduta di Borsa sui 200 punti, cioè sui livelli sui quali aveva oscillato per tutto il mese di luglio. Il giorno successivo, la decisione improvvisa del ministro degli Interni e leader della Lega Matteo Salvini di sfiduciare il premier Conte invocando di fatto le elezioni anticipate ha messo in apprensione gli investitori che immediatamente hanno venduto gli asset finanziari italiani – titoli di stato, obbligazioni societarie e, soprattutto, azioni – mentre lo spread si è impennato fino a quota 240 punti per chiudere la giornata a quota 238.

LA DIVERGENZA DEL SETTORE BANCARIO

L’indice Ftse Mib di Piazza Affari ha lasciato sul parterre il 2,4% mentre l’indice del settore bancario è arretrato del 4,4%. Lunedì lo spread si è stabilizzato a quota 230 punti: tuttavia, sebbene Piazza Affari abbia limitato le perdite a livello generale (con il Ftse Mib a -0,30%), l’indice del settore bancario ha continuato a correggere dell’1,63%. In due sedute di Borsa, a fronte di un -2,7% dell’indice generale di Piazza Affari, il Ftse Mib banks ha messo a segno un calo più che doppio (-6%): perché questa forte divergenza?

IL LEGAME INVERSO CON LO SPREAD

Le ragioni sono da ricercarsi nello spread e nel suo forte legame inverso con il valore delle banche: se lo spread scende la valutazione degli istituti di credito italiani sale e viceversa. Si stima che nei portafogli delle banche italiane figurino titoli di stato italiani per circa 400 miliardi di euro. Se lo spread si amplia come in questo frangente perché il rendimento dei Btp sale significa che i prezzi dei titoli di stato scendono. In queste due giornate, a fronte di un aumento medio dei rendimenti dei Btp tra i 5 e i 10 anni dello 0,40%, si è registrata una perdita media del loro prezzo di circa il 2,4%: un calo che provoca una perdita di valore di 9,6 miliardi di euro (400 miliardi per 2,4%) nei titoli di stato in portafoglio alle banche.

NON SI SALVA NESSUN ISTITUTO

Si tratta di una perdita ‘virtuale’ – perché lo spread può restringersi com’è accaduto martedì portandosi a 224 punti – ma il mercato tende a reagire immediatamente al potenziale contraccolpo e nessun istituto quotato si salva, anche i più grandi e quelli meglio gestiti. Per esempio, il titolo Intesa Sanpaolo, la banca che insieme a Unicredit è la più importante del nostro paese e tra le più prestigiose a livello europeo, che giovedì 8 agosto quotava 1,9454 con 34 miliardi di euro di capitalizzazione, lunedì 12 ha chiuso a 1,836 euro con 32,1 miliardi di capitalizzazione, cioè 1,9 miliardi in meno in sole due sedute ovvero quasi l’intero ammontare dei profitti semestrali (2,266 miliardi , il miglior risultato del gruppo dal 2008).

TASSI NEGATIVI

Ma c’è di più. La correlazione negativa dello spread con il valore di Borsa delle banche va ad aggiungersi ad altri aspetti che incidono negativamente sulle valutazioni azionarie degli istituti di credito del nostro paese. In primis i tassi negativi. Una delle fonti di rendimento principali delle banche è rappresentata dal ‘margine’ fra il tasso medio sui prestiti e quello medio sulla raccolta a famiglie e società non finanziarie: ebbene, in base ai dati dell’ABI, questo margine permane in Italia su livelli particolarmente bassi, intorno ai 196 punti base, in significativo calo rispetto agli oltre 300 punti base di prima della crisi finanziaria e ai 335 punti base a fine 2007. Il fatto che Draghi abbia confermato che i tassi resteranno bassi per ancora molto tempo non è una buona notizia per i bilanci bancari italiani.

SOFFERENZE IN AUMENTO

In secondo luogo, ci sono le sofferenze. E’ vero che quelle nette – ovvero le sofferenze lorde al netto delle somme accantonate dalle banche per coprire le voci sui crediti incagliati, inesigibili e a rischio, che a maggio 2019 si attestavano, per l’intero settore bancario, a 32,6 miliardi – risultavano in sensibile contrazione rispetto ai 76,7 miliardi di due anni prima e ai 50,8 miliardi di 12 mesi fa. Tuttavia, dopo aver toccato un minimo a marzo (31,7 miliardi), ora stanno mostrando una lieve tendenza a risalire. Segno che il rallentamento dell’economia reale comincia a farsi sentire e che le aziende ricominciano ad avere difficoltà nel restituire con la regolarità i finanziamenti.

RACCOLTA NETTA NEGATIVA PER I FONDI COMUNI

In terzo luogo si registra una frenata nella raccolta netta del risparmio gestito. Nei primi sei mesi di quest’anno i flussi di sottoscrizioni verso i fondi comuni sono risultati negativi per 3,16 miliardi di euro: nello stesso periodo del 2018 la raccolta netta era invece positiva per oltre 10 miliardi. Meno risparmi riversati nei fondi e nel risparmio gestito significano meno commissioni attive in entrata per le banche (a cui fa capo circa il 70% dei flussi di mercato) e quindi ulteriori pressioni sui margini.

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