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Economia
Svimez, il Mezzogiorno resta agganciato alla ripresa

Il Mezzogiorno esce dalla lunga recessione e consolida la ripresa, registrando una performance per il secondo anno superiore, se pur di poco, rispetto al resto del Paese. L’industria manifatturiera cresce nel biennio di oltre il 7%, più del doppio del media nazionale (3%); influiscono positivamente le politiche di sviluppo territoriale, ma restano le difficoltà delle imprese ad accedere agli strumenti di politica industriale. Aumenta anche il lavoro, seppure con basse retribuzioni e contratti di precariato. Lo rileva il Rapporto Svimez 2017 sull’economia del Mezzogiorno presentato a Roma questa mattina nella Sala della Lupa della Camera dei Deputati dal vice direttore Giuseppe Provenzano e dal presidente, Adriano Giannola. Secondo l’indagine, è la stretta integrazione e interdipendenza tra Sud e Nord che sta rafforzando la necessità di politiche meridionaliste per far crescere l’intero Paese. Ottima la performance delle esportazioni nel Mezzogiorno nel biennio 2015-2016, le previsioni per il 2017 e il 2018 confermano che quest’area del Paese è in grado di agganciare la ripresa, facendo segnare tassi di crescita di poco inferiori a quelli del Centro- Nord. Tuttavia la ripresa congiunturale è insufficiente ad affrontare le emergenze sociali. Il tasso di occupazione nel Mezzogiorno è ancora il più basso d’Europa (35% inferiore alla media Ue), nonostante nei primi otto mesi del 2017 siano stati incentivati oltre 90 mila rapporti di lavoro nell’ambito della misura “Occupazione Sud”. La povertà e le politiche di austerità deprimono i consumi. Il Sud è un’area non più giovane né tantomeno il serbatoio di nascite del Paese. Il Governo nell’ultimo anno ha riavviato le politiche per il Sud; fondamentali due interventi: le Zes e la “clausola del 34%” sugli investimenti ordinari. Le previsioni per il 2017 e il 2018, secondo stime Svimez aggiornate a ottobre, nel 2017 il Pil italiano cresce dell’1,5%: +1,6% al Centro-Nord e +1,3% al Sud. Nel 2018 il saggio di crescita del Pil nazionale si attesta all’1,4% con una variazione territoriale dell’1,4% nel Centro-Nord e dell’1,2% al Sud. A trascinare l’evoluzione positiva del Pil nel 2017 e nel 2018 è l’andamento della domanda interna che al Sud registra, rispettivamente, +1,5% e +1,4% (nel Centro-Nord, invece, aumenta quest’anno del +1,6% e il prossimo del +1,3%). Nel 2018 la Svimez prevede un significativo aumento sia delle esportazioni che degli investimenti totali, che cresceranno più nel Mezzogiorno che al Centro-Nord: le esportazioni del +5,4% rispetto a +4,3%, gli investimenti del 3,1% rispetto a +2,7%. Aumenta anche l’occupazione: +0,7% al Sud sia nel 2017 che nel 2018, e +0,8% in entrambi gli anni al Centro Nord. Secondo l’associazione romana di via Pinciana ,queste previsioni inglobano anche gli effetti della legge di Bilancio 2018 e scontano la mancata attivazione della clausola di salvaguardia relativa all’aumento delle aliquote Iva nel 2018 per circa 15 miliardi.

La crescita del Pil.

Nel 2016 cresce nel Mezzogiorno dell’1%, più che nel Centro-Nord dove è pari a +0,8%. Nello specifico delle singole regioni meridionali, il dato più performante è quello della Campania +2,4%, seguita da Basilicata +2,1%, Molise +1,6%, Calabria +0,9%, Puglia +0,7%, Sardegna +0,6%, Sicilia +0,3%, Abruzzo -0,2%. Nel 2016 il prodotto per abitante è nel Mezzogiorno pari a 56,1% di quello del Centro Nord (66% di quello nazionale). Ma la regione più ricca d’Italia è il Trentino Alto Adige, con i suoi 38.745 euro pro capite, più che doppio di quello della regione più povera, la Calabria, che è pari a 16.848 euro ad abitante. I consumi delle famiglie meridionali sono aumentati nel 2016 dell’1,2%, contro l’1,3% del Centro Nord: in particolare, la spesa alimentare e quella per abitazioni cresce al Sud meno che nel resto del Paese. Nel 2016 gli investimenti sono cresciuti nel Mezzogiorno del 2,9%, un incremento sostanzialmente in linea con quello del Centro Nord (+3%. Nel 2016 in agricoltura il valore aggiunto, dopo il boom del 2015, torna a diminuire, - 8,8% rispetto al 2015, che si traduce in -9,5% nel Mezzogiorno e -1,9% nel Centro Nord. Nell’industria il prodotto cresce al Sud (+3%) più che al Centro Nord (+1%). Positivo nel Mezzogiorno anche il valore aggiunto delle costruzioni (+0,5%), rispetto al centro Nord (-0,3%). Infine, nel terziario il valore aggiunto del Mezzogiorno con +0,8% supera quello del Centro Nord (+0,5%).

Interdipendenza tra Sud e Nord.

La domanda interna del Sud, data dalla somma di consumi e investimenti, attiva circa il 14% del Pil del Centro-Nord (nel 2015, un ammontare di circa 177 miliardi di euro). I recenti referendum in Lombardia e Veneto hanno riaperto la discussione sul tema del residuo fiscale. I flussi redistributivi verso le regioni meridionali sono in calo di più del 10%, da oltre 55,5 a circa 50 miliardi. Peraltro le risorse che, sotto diverse forme, affluiscono al Sud, non restano circoscritte al solo Mezzogiorno, ma hanno effetti economici che si propagano all’Italia intera. Secondo la Svimez, che ha fatto una valutazione quantitativa di tali effetti, su 50 miliardi di residui fiscali di cui beneficia il Mezzogiorno, 20 ritornano direttamente al Centro-Nord, altri contribuiscono a rafforzare un mercato che resta, per l'economia dell'intero Paese, ancora rilevante. Ancora male invece gli investimenti pubblici. Nel 2016 toccano il punto più basso della serie storica (la spesa in conto capitale è il 2,2% del PIL, nel Mezzogiorno appena lo 0,8%), dopo il modesto incremento del 2015. L’andamento della spesa in conto capitale in questi anni mette il Mezzogiorno su un livello molto più basso rispetto ai livelli pre crisi. Il crollo della spesa per infrastrutture nell’ultimo cinquantennio è del -2% medio annuo a livello nazionale, sintesi di un -0,8% nel Centro-Nord e -4,8% nel Sud. In termini pro capite, gli investimenti in opere pubbliche nel 1970 erano pari a livello nazionale a 529,6 euro, con il Centro-Nord a 450,8 e il Mezzogiorno a 673,2 euro. Nel 2016 si è passati a 231 euro a livello nazionale, con il Centro-Nord a 296 e il Mezzogiorno a meno di 107 euro pro capite. Secondo gli analisti della Svimez, l’attivazione della clausola del 34% potrebbe invertire il trend, ma dovrebbe riguardare non solo le amministrazioni centrali ma anche il settore pubblico allargato.

Continua la migrazione.

Alla fine del 2016 il Mezzogiorno perde altri 62 mila abitanti e sfiora le 28 mila unità, mentre nel Centro Nord è in aumento di 93.500. In particolare nel 2016 la Sicilia perde 9.300 residenti, la Campania 9.100, la Puglia 6.900. Il pendolarismo nel Mezzogiorno nel 2016 interessa circa 208 mila persone, di cui 54 mila si sono spostate all’interno del Sud, mentre ben 154 mila sono andate al Centro-Nord o all’estero. Questo aumento di pendolari spiega circa un quarto dell’aumento dell’occupazione complessiva del Mezzogiorno di circa 101 mila unità nel 2016. Secondo un’elaborazione dei dati sul depauperamento di capitale umano meridionale, considerando il saldo migratorio dell’ultimo quindicennio, la perdita netta in termini finanziari del Sud ammonterebbe a circa 30 miliardi, trasferiti alle regioni del Centro Nord e in piccola parte all’estero. Quasi 2 punti di Pil nazionale. La ripresa non migliora il contesto sociale. Al Sud non si fanno più figli, nel 2016, 10 meridionali su 100 risultano in condizioni di povertà assoluta, contro poco più di 6 nel Centro Nord ed il rischio di cadere in povertà è triplo rispetto al resto del Paese. Nelle due regioni più grandi, Sicilia e Campania, sfiora il 40%. L’emigrazione sembra essere l’unico canale di miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie meridionali. Svimez rileva che l’introduzione del reddito di inclusione avvia un processo per dotare anche l’Italia di una forma universalistica di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. Ma per ora l’impegno finanziario è assolutamente insufficiente: del Rei beneficerà soltanto il 38% circa degli individui in povertà assoluta per importi che sono generalmente compresi fra il 30 e il 40% della soglia di povertà assoluta per molte tipologie familiari. Pertanto vanno fatte scelte redistributive che, senza gravare sul bilancio pubblico, consentano di allargare la platea dei fruitori. Si tratta di una misura che avrebbe un impatto sui consumi senza dubbio notevole.

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