Tim, il 5% di Cdp non convince gli analisti. In Borsa ha il fiato corto
Da qui al 24 aprile, giorno dell’assemblea, il titolo può recuperare terreno, ma la convivenza tra Vivendi, Paul Singer e Stato potrebbe rivelarsi poco felice
di Luca Spoldi
e Andrea Deugeni
I mercati finanziari sono spesso volubili: così la notizia di un possibile ingresso di Cassa Depositi e Prestiti con una quota fino al 5%, da rilevare ai blocchi, nel capitale di Telecom Italia a fianco dell’investitore attivista Elliott Management (che fa capo al finanziere Paul Singer, vicino al partito repubblicano Usa ma in buoni rapporti, tra gli altri, con Silvio Berlusconi), fa rimbalzare le quotazioni dell’ex monopolista telefonico italiano di oltre 5 punti, riavvicinandole alla soglia degli 80 centesimi per azione.
Ma, anche se fonti vicine a Vivendi si sono affrettati a far sapere che "l'ingresso di Cdp non è visto come un'operazione ostile", più di un analista a Piazza Affari si domanda quanto possa risultare appetibile una società che si troverebbe ad avere tra “soci rilevanti” schierati su due fronti opposti, i francesi di Vivendi col 24% da una parte e l’insolita coppia (ammesso che la Cassa italiana si vada a schierare con il fondo Usa) Elliott-Cdp dall’altra con un 11%-15%. Coppia che riporta all'interno di un ex grande gruppo pubblico italiano lo Stato.
Il controllo esercitato finora da Vivendi non si è rivelato particolarmente funzionale, anzi come ammesso dello stesso Ceo, Amos Genish (nominato da Vivendi ma pronto ad essere “super partes”), Vivendi “ha commesso degli errori”, avrebbe potuto e dovuto comunicare meglio, “evitare la golden power notificando le decisioni anche quando non lo si riteneva necessario, per creare un ambiente più favorevole”.
Ma Genish rivendica “una visione industriale di lungo periodo” e la disponibilità di Vivendi a investire, che al mercato può piacere più di un ritorno ad una nazionalizzazione in versione “nocciolino duro” che sembra invece avere incontrato il via libera di tutte le forze politiche italiane, stante anche la considerazione che la Caisse des dépots et consignations, ossia l’equivalente francese della Cdp, socia al 3% di Vivendi, non si è mai fatta scrupolo di andare più volte in assemblea di Telecom Italia con una quota sopra l’1%. Una presenza che, come sottolinea l'agenzia MF-DowJones, potrebbe trasferire lo scontro in atto tra Vivendi ed Elliott anche su un piano politico fra i governi di Francia e Italia, come avvenne lo scorso anno nell'operazione che portò al matrimonio tra Fincantieri e Stx.
Genish da parte sua invita a valutare l’operato di Vivendi dal 4 maggio 2017, giorno in cui è stata nominata la maggioranza dei consiglieri nel Cda di Telecom Italia, ma a tale data il titolo valeva 82,65 centesimi di euro per azione, essendo poi andato a toccare un minimo di 67 centesimi a novembre, prima di riprendere gradualmente terreno ma restando comunque su valori inferiori, segno di uno scarso apprezzamento dell’operato francese.
Anche provare a fare un raffronto dal 3 marzo, quando il Cda varò il nuovo piano industriale 2018-2020, non porta ad un risultato migliore: quel giorno, infatti, il titolo coronò il recupero partito da metà febbraio toccando quota 83,2 centesimi per azione, per poi perdere nuovamente terreno. Come dire che la gestione francese ha causato un calo di circa il 4% ad oggi, contro l’8,5% di rialzo messo a segno dal listino italiano rispetto al maggio dello scorso anno (ovvero il 4,8% rispetto agli inizi di marzo).
Ciò nonostante gli investitori istituzionali soci di Telecom Italia non hanno colto al balzo l’occasione di fare fronte comune e chiedere la nomina di un presidente indipendente, secondo alcuni rumor non smentiti per la “freddezza” dimostrata di fronte a tale ipotesi dai fondi targati Unicredit e Generali (gruppi guidati da due manager francesi, peraltro apprezzati, come Jean Pierre Mustier e Philippe Donnet in ottimi rapporti con Bolloré). Così all’assemblea del 24 aprile oltre a Genish (finora non cooptato in consiglio) potrebbero entrare in Cda, anche col supporto di Cdp, sei rappresentanti per Singer al posto di altrettanti consiglieri in quota Vivendi e cinque rappresentanti per i fondi (più Franco Bernabè, ex Ceo del gruppo poi rientrato in Cda come consigliere indipendente).
A quel punto resterebbero solo altre due poltrone libere (il nuovo statuto di Telecom Italia prevede un Cda di 15 consiglieri) per il gruppo francese, che pur essendo il primo azionista si troverebbe di fatto un board “presidiato” dallo stato italiano.
Se questa situazione porterà ad un miglioramento della gestione dell’ex monopolista pubblico, favorendo da un lato una più rapida separazione della rete che a quel punto potrebbe andare in sposa a Open Fiber per favorire il rilancio degli investimenti infrastrutturali in Italia e dall’altro la valorizzazione di Tim Brasil, o se si verrà a creare uno stallo destinato a pesare sulle prospettive del gruppo è presto per dirlo. Ma a Piazza Affari in molti sono pronti a scommettere che la corsa del titolo potrebbe avere il fiato corto.