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Economia
Tim, il debito rimane lo spettro che spaventa i mercati
Il Ceo di Tim Pietro Labriola

Tim, il debito rimane lo spettro che spaventa i mercati

Siamo ben lontani – e per fortuna – dall’errore di comunicazione invocato da Chiara Ferragni per l’affaire Balocco. Eppure c’è qualcosa di incredibile in quello che sta succedendo in Tim. Breve riassunto: giovedì il ceo Pietro Labriola presenta un piano industriale al 2026 che spiega in che modo la cessione della rete verrà integrata nella nuova creatura, la famosa SerCo, che si occuperà solo di servizi. Alle ore 9 del mattino il titolo viene scambiato a 0,27 euro per azione, 24 ore dopo la Borsa si apre con una perdita consolidata di quasi il 25%: un quarto del valore viene bruciato.

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Labriola prova a tagliare corto nella call con i giornalisti: non si è capito il piano, colpa degli analisti. Ma nel weekend viene convocato un consiglio d’amministrazione urgente per cercare di capire come integrare il piano medesimo e mettere una toppa. La missione, inizialmente, sembra compiuta, con il titolo che questa mattina guadagna quasi tre punti percentuali. Poi qualcosa si inceppa e i mercati assistono a un nuovo crollo, con punte del -8% prima di risalire. Che cosa succede? Il punto è che tra le slide del piano industriale ce n’è una che certifica che il debito, dopo la cessione della rete, tornerà a salire entro il 2026 prima di assestarsi.

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E allora qualcuno si domanda: ma se il debito risale, perché si è scelto di vendere la rete? Un asset strategico che avrebbe potuto ridare vigore alla società – gravata da quasi 30 miliardi di indebitamento. La risposta è che si tratta per larga parte di un’infrastruttura obsoleta, in rame, che non ha grande valore. Eppure viene venduta a quasi 20 miliardi di euro, cioè cinque volte la capitalizzazione di Tim. Gli stessi americani di Kkr che dovrebbero mettere le mani sulla rete entro l’estate, avevano offerto 11 miliardi per l’intera ex-Telecom, mentre hanno dovuto poi sborsarne poco meno del doppio. Tanto depauperata questa rete non dev’essere.

Che cosa succede adesso? Si va verso un rinnovo di cda infuocato. I francesi di Vivendi, che pure non dovrebbero presentare una loro lista, hanno ovviamente il dente avvelenato. Hanno svalutato la loro partecipazione in Tim a 0,21 euro per azione, di fatto un taglio di quasi il 90% dall’inizio della loro avventura in Telecom. Un vero bagno di sangue. E la contrarietà di Arnaud De Puyfontaine e soci sulla cessione della rete e sul cambio di ragione sociale – tanto da mettere in mezzo gli avvocati e chiedere un’assemblea straordinaria, e non ordinaria – inizia a mostrare di non essere stata totalmente campata per aria. Ora i francesi hanno perso la pazienza e sanno che si mantengono pesantemente in attivo nonostante la svalutazione in Telecom. Avere le mani libere sul cda dovrebbe garantire un vantaggio competitivo. Il problema è che se neanche vendendo la rete si riesce a risollevare Tim, allora c’è davvero un problema. 

Labriola si è detto disponibile a trattare M&A e a valutare fusioni strategiche. Ma al momento l’unica che dovrebbe andare in porto è quella tra Vodafone Italia e Fastweb. Iliad continua a conquistare quote di mercato. E Tim non ha molte alternative. Non dimentichiamo, tra l’altro, che dall’anno prossimo non sarà più title sponsor della Serie A di calcio (che passerà a Eni) e altre iniziative di marketing verranno ridimensionate. Ecco, il rischio è quello di procedere a una maxi-operazione che però non sia risolutiva. Anche perché, dopo la rete, di asset strategici ne resterebbero pochi. Allacciamo le cinture. 
 






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