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Economia
Toy R Us, Macy’s, Fnac e Trony: tutte le vittime dell'impero Amazon-Alibaba

La crisi mondiale del 2008-2009, certo, ma anche il cambiamento di abitudini dei consumatori e l’offensiva dei colossi di e-commerce come Amazon, Zalando e Alibaba: così grandi catene distributive come Kmart, Toy R Us, Macy’s, Sears, Darty, Fnac Dixons, Gymboree, ma anche Trony e Mediaworld hanno avuto l’unica alternativa tra portare i libri in tribunale o lanciare una drastica cura dimagrante a colpi di decine di chiusure di punti vendita all’anno. Kmart fu la prima grande “vittima” di una competizione sempre più accesa: il secondo maggiore discount statunitense già a inizio 2002 dovette dichiarare bancarotta e richiedere il “Chapter 11” (l’equivalente americano dell’amministrazione straordinaria) dopo aver ingaggiato una strenua battaglia con Wal-Mart.

bezos
 

Sorte analoga è toccata poi alla catena di supermercati Sears, che aveva rilevato ciò che era rimasto di Kmart ma che dal 2012 (quando raggiunse un picco di vendite di 40 miliardi di dollari) a oggi (nel 2017 il giro d’affari si è ridotto a circa 22 miliardi) ha accumulato continue perdite, pur avendo chiuso nel frattempo decine di negozi e ceduto le filiali a marchio Craftsman.

Così Sears, dopo aver abbassato la serranda lo scorso anno in un’altra sessantina di negozi e ceduto vari asset ad Amazon, potrebbe chiedere a sua volta il “Chapter 11” prima della fine del 2018, dopo che già nel 2017 una ventina di grandi catene distributrici a stelle e strisce hanno presentato istanza di fallimento.

Di questi giorni è poi la notizia che Toy R Us, il maggior distributore americano di giocattoli, già in amministrazione controllata, ha definitivamente gettato la spugna avvisando i dipendenti che andrà in liquidazione e chiuderà i suoi 800 negozi in America (e forse anche gli altri 800 che ha in giro per il mondo), ma la crisi non riguarda solo il mercato americano, bensì tutto il mondo, Europa (vedi Fnac) ed Italia compresa. Proprio nel nostro Paese, Trony, anzi Dps Group, società pugliese che in Italia controlla un terzo delle insegne (43 punti vendita dei circa 200 aperti in tutta Italia) del marchio nato nel 1999 da una costola de La Rinascente (all’epoca socio di controllo al 51%), a sua volta ha gettato la spugna il 15 marzo scorso.

Davos Jack MaJack Ma, fondatore e presidente di Alibaba Group
 

In questo caso i negozi potrebbero peraltro riaprire, se fosse confermato l’interesse di Unieuro, uno dei pochi gruppi ancora coi conti in salute. Cause di questi fallimenti a catena sono state individuate in scelte manageriali sbagliate nella sempre maggiore concorrenza dell’e-commerce, che pure rappresenta attualmente non più del 9% del commercio al dettaglio mondiale ed è visto salire a circa il 14,6% del totale entro fine 2020 (in Italia nel 2017 l’e-commerce pur salendo a 23,6 miliardi di euro di fatturato ha rappresentato il 5,7% del totale degli acquisti al dettaglio).

Come dire che se Amazon, sempre più un supermercato “globale” dall’editoria all’elettronica da consumo, dalle polizze assicurative ai prodotti farmaceutici fino ai prodotti alimentari freschi, piuttosto che Zalando, colosso tedesco leader nel settore moda- abbigliamento, o Alibaba, gigante cinese del commercio elettronico che si è appena visto stoppare negli Stati Uniti l’acquisizione di Moneygram (messa nel mirino da Ant Financial Services, il braccio finanziario del gruppo fondato da Jack Ma) fanno paura ora, il futuro potrà solo essere peggiore se la grande distribuzione “tradizionale” non riuscirà ad adeguarsi alle nuove abitudini dei consumatori. A partire da quei “millenials” che con smartphone e e-commerce hanno un rapporto quotidiano e che i negozi fronte strada sembrano usarli solo per confrontare prezzi e modelli prima di ordinarli sul web.

(Segue...)

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