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Economia
Trade war, pil Germania e curva dei tassi Usa: prepariamoci alla recessione

Ci mancava solo l’inversione della curva dei tassi americana per far salire ulteriormente la tensione su mercati finanziari già resi volatili dal periodo estivo e dai segnali poco rassicuranti in arrivo dall’economia tedesca (col Pil tedesco in calo dello 0,1% nel secondo trimestre a causa del netto rallentamento dell’export), che si vanno a sommare alle incertezze in merito alla Brexit e all’esito del confronto commerciale tra Usa e Cina. Preoccupa in particolare che l’inversione della curva dei rendimenti dei titoli di stato americano tra la scadenza a 2 anni (il cui rendimento, a inizio anno pari al 2,50% cala sull’1,623%) e quella a 10 anni (che oggi rende l’1,62% rispetto al 2,66% di inizio 2019) non si vedeva dal maggio 2007 e, negli ultimi 40 anni, è stato un segnale anticipatorio di una recessione dell’economia a stelle e strice nell’85% delle volte in cui si è verificato.

Se da un lato questo aumenterà la pressione di Trump sulla Federal Reserve perché tagli nuovamente i tassi ufficiali sul dollaro (così facendo favorendo anche un calo dei tassi a breve) proprio per indebolire il biglietto verde e cercare di contrastare il rallentamento in atto nell’espansione economica americana più prolungata dagli anni Trenta del secolo scorso, dall’altro aumentano i timori che alla fine la recessione si manifesti. E’ quanto l’attuale inquilino della Casa Bianca vuole evitare accuratamente, visto che il prossimo anno si giocherà le sua chanche di un secondo mandato.

E’ quanto, verosimilmente, si augura Pechino, che non a caso nelle “contromisure” subito adottate dopo la minacciata introduzione di dazi del 10% da inizio settembre sugli ultimi 300 miliardi di import cinese (introduzione poi slittata al 15 dicembre) ha puntato direttamente ad un nuovo stop alle importazioni di prodotti agricoli dagli Usa, così da danneggiare proprio quella parte di “America profonda” che tre anni fa ha votato per l’immobiliarista di New York. Non si deve pensare però che la curva dei tassi invertita sia un problema solo americano: a parte il fatto che anche in Europa la curva dei tassi è già invertita tra i 3 mesi e i 3 anni, la differenza tra i rendimenti a 2 anni e quelli a 10 anni è minima a fronte di tassi entrambi negativi in termini nominali oltre che reali (-0,883% il tasso a 2 anni dell’Eurozona, - 0,567% quello a 10 anni secondo i dati Bce).

Un “paradiso” per chi riesce a contrarre nuovi mutui e prestiti a lunga scadenza, che però le banche del vecchio continente ed italiane in particolare concedono sempre meno volentieri: secondo Banca d’Italia, ad esempio, a giugno i prestiti alle imprese sono calati dello 0,9% mensile, rispetto al -0,2% segnato in maggio, nonostante il proseguo della riduzione delle sofferenze lorde e nette e una crescita dei depositi del 3,4% su base annua. Per chi però si trova a dover impiegare i propri capitali, che si tratti di fondi pensione, assicurazioni, società di gestione del risparmio, aziende o famiglie, non sono pochi i riflessi negativi di questo scenario. Tassi reali negativi significa un depauperamento strisciante della ricchezza privata o, se preferite, una forma di “patrimoniale occulta”. La “zombieficazione” delle banche, che sempre meno riescono a produrre utili attraverso la loro gestione caratteristica, rischia poi di promuovere un’allocazione inefficiente (ed eccessivamente rischiosa) del capitale, mantenendo in piedi soggetti altrimenti destinati a uscire dal mercato a favore di soggetti più efficienti. Se a questo scenario di tassi sotto zero (che il nuovo allentamento delle politiche monetarie delle maggiori banche centrali occidentali rischia di accentuare ulteriormente) si dovesse alla fine sommare una recessione americana o più verosimilmente mondiale, si rischierebbe poi una paralisi del mercato del lavoro col rischio, in caso di crisi prolungata, che si giunga all’espulsione definitiva di forza lavoro per obsolescenza delle competenze di parte dei lavoratori. Per paesi come l’Italia dove da decenni la politica persegue una crescita finanziata con livelli più o meno elevati di deficit il rischio è infine che, semplicemente, non ci siano più risorse per tutti.

Certo, la demografia da un lato e la globalizzazione dall’altra continuano a limitare i rischi d’inflazione rendendo deficit e tassi bassi sostenibili più di quanto sarebbe stato pochi decenni fa, ma se le riforme strutturali dovessero venire smantellate nel tentativo di rispondere a pulsioni populiste dell’elettorato, in America come in Europa, il quadro rischierebbe un rapido deterioramento cui potrebbe corrispondere uno shock dei mercati sia obbligazionari sia azionari. Per ora il rischio resta sullo sfondo, ma visto anche la volatilità del periodo e le incertezze circa l’evolversi dello scenario politico italiano (e le sue implicazioni in termini di conti pubblici e politica industriale), sarà meglio mantenere un profilo d’investimento prudente, riducendo la leva finanziaria, investendo solo in bond e azioni di buona qualità e iniziando a creare un cuscinetto di liquidità da eventualmente utilizzare se lo scenario dovesse stabilizzarsi verso fine anno.

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