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Economia
Trump fa felici i banchieri Us. Con Donald compensi aumentati


Le grandi banche americane devono essere grate a Donald Trump: dall'8 novembre, giorno della vittoria di "the Donald" alle elezioni presidenziali, ad oggi, la capitalizzazione dei principali istituti bancari a stelle e strisce è cresciuta in modo rilevante, variando da un +124% messo a segno da Citigroup (risalita sui 160 miliardi di dollari di capitalizzazione), al +19,4% di Jp Morgan Chase (che ormai sfiora i 300 miliardi), dal +21% di Wells Fargo (276,6 miliardi) al +27,2% di Goldman Sachs (circa 97 miliardi), fino all'astronomico +33,2% di Bank of America (142,2 miliardi).
La gratitudine dovrebbe essere doppia, perché negli ultimi 12 mesi il settore bancario a Wall Street ha segnato una performance media decisamente misera, +0,5%, con molti "grandi nomi" che nonostante l'impennata delle quotazioni degli ultimi due mesi ancora vedono il proprio titolo mantenersi su livelli inferiori ad un anno fa, come nel caso di Jp Morgan, Citigroup, Goldman Sachs, ma anche Us Bancorp e Bank of New York Mellon. Senza l'ex mattatore di "The Apprentice", insomma, per gli azionisti delle maggiori banche a stelle e strisce nel 2016 ci sarebbe stato ben poco da festeggiare.
Chi ha potuto festeggiare ugualmente sono stati tuttavia i capi azienda: il Ceo (e presidente) di Jp Morgan Chase, Jamie Dimon, si è appena visto assegnare 28 milioni di dollari di compensi totali per il 2016, un  milione in più dello scorso anno. C'è da dire che Dimon è stato bravissimo a far crescere di valore la sua banca, visto che ha segnato risultati record in sei degli ultimi sette esercizi (compreso l'ultimo, chiusosi con 24,7 miliardi di dollari di profitto), facendo leva soprattutto sul taglio dei costi.
Poiché il sistema di incentivazione di Jp Morgan lega la maggior parte dei bonus dei suoi top manager alla crescita del Rote (Return on tangible common equity,ossia rendimento del capitale ordinario tangibile), tagliare i costi è un ottimo sistema, in alternativa all'incremento dei ricavi, per migliorare la redditività del capitale e veder salire i propri bonus indipendentemente dall'andamento delle quotazioni (che comunque a fine anno, grazie alla crescita post-elettorale, risultavano in crescita del 31% rispetto al primo gennaio).
Ha visto crescere la sua paga di un 7% anche James Gorman, numero uno di Morgan Stanley (con 79,7 miliardi di capitalizzazione la settima maggiore banca quotata a Wall Street), che dai 21 milioni guadagnati nel 2015 si è visto attribuire per il 2016 un compenso complessivo di 22,5 milioni.
Per tutti gli altri si vedrà nelle prossime settimane, ma la sensazione è che molti numeri uno potranno quanto meno recuperare i tagli dei compensi visti nel 2015, come nel caso di Richard Davis, numero uno di Us Bancorp (sesta maggiore banca quotata con una capitalizzazione di 86,9 miliardi di dollari) che il prossimo aprile uscirà di scena e che nel 2015 aveva visto calare da 19,4 a 11,6 milioni il proprio compenso, piuttosto che Lloyd Blankfein, numero uno di Goldman Sachs, che lo scorso anno aveva dovuto "accontentarsi" di 22,5 milioni di dollari, 7,5 milioni meno dell'anno precedente.
Chi ha deciso di cambiare strada è stata Wells Fargo: dopo lo scandalo di alcuni mesi fa legato all'emersione di pratiche di vendita illegali a danno della clientela (che sono costate alla banca anche una multa da 185 milioni) il Ceo John Stumpf ha dovuto restituire 41 milioni di dollari di stock option, mentre l'ex direttore operativo Carrie Tolsted ha dovuto a sua volta restituire bonus in azioni non ancora maturati per 19 milioni. Difficile pensare che Strumpf possa ora ricevere un "premio" per un 2016 da dimenticare quanto più in fretta possibile.
Numeri, comunque, che i banchieri italiani possono solo guardare con invidia. Il più pagato, per l'esercizio 2015, è stato l'ex numero uno di Unicredit, Federico Ghizzoni, che tra retribuzione fissa (2 milioni di euro), bonus, incentivi e benefit vari e stock option ha portato a casa, prima di uscire di scena, circa 5,15 milioni, staccando nettamente Carlo Messina, numero uno di Intesa Sanpaolo (che ha guadagnato in tutto 3,57 milioni) e Alberto Nagel, di Mediobanca, poco sopra i 3,25 milioni. Compensi che ricordano più quelli di calciatori di Seria A come Marchisio, Chiellini, Bonucci o Berzagli (che si portano a casa tra i 2,5 e i 3,5 milioni a stagione) che non quelli dei colleghi d'oltre Atlantico.
Ancora più staccati Renato Pagliaro (presidente di Mediobanca), Pierfrancesco Saviotti (numero uno di Banco Popolare prima e Banco Bpm ora) e Fabrizio Viola (ex amministratore delegato di Mps), con compensi tra i 2 e i 2,5 milioni di euro. C'è da dire che la crisi bancari in Italia ha inciso in modo pesante sia sulle quotazioni delle banche quotate sia sulla redditività di tutto il settore ed era difficile che anche ai vertici non iniziasse a sentirsi qualche spiffero.
In casa Mps, ad esempio, l'attuale numero uno Marco Morelli ha accettato un compenso attorno a 1,4 milioni e qualche giorno fa parlando davanti alla commissione Finanza di Camera e Senato ha dichiarato di essere preferire "che mi venga ridotto in maniera molto pesante" lo stipendio, ma "vengano tutelate figure di management che per la banca sono importanti" e la cui perdita potrebbe creare ulteriori danni alla banca e ai suoi azionisti. La differenza tra Italia e Usa sta nella differente capacità di creare valore da parte dei manager: chissà se ora che la crisi è manifesta si riuscirà a vedere ridotto il gap? I primi a sperarlo sembrano proprio i banchieri italiani.
 

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