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Economia
Ue, i timori del Fondo monetario. Perchè l'Ue non reggerebbe a una crisi
LaPresse

Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, non ha dubbi: “l’eurozona non è pronta a reggere a un’altra crisi e proprio ora, col rallentamento dell’economia, è arrivato il momento di dare una scossa e creare un sistema bancario europeo che sì possa reggere alle intemperie economiche”. L’euro, ha ricordato la Lagarde, ha avviato l’integrazione delle economie dei singoli paesi membri e migliorato il livello di vita nel vecchio continente, con un “Pil reale pro capite aumentato di oltre il 60% nel corso degli ultimi due decenni”.

Ciò nonostante avere ancora un sistema bancario e finanziario frammentato è una debolezza intrinseca che rischia di essere pagata a caro prezzo nel caso di una nuova crisi che dovesse esplodere a seguito di un rallentamento economico più accentuato o prolungato delle attese. Certo, oggi rispetto a 20 o anche solo 10 anni fa il sistema bancario europeo nel suo complesso appare più solido, “ma non è abbastanza” per dormire sereni di fronte alla prospettiva di una nuova crisi.

Anche perché molte se non tutte le grandi banche europee sono ancora alle prese con gli effetti di “ferite economiche dolorose” subite negli anni passati da tante famiglie e aziende che hanno sparso “i semi della disparità economica” e peggiorato la qualità del credito, in Italia ma non solo (basti pensare alle difficoltà affrontate in questi anni anche da Commerzbank o Deutsche Bank).

A fronte di questo scenario una eventuale recessione italiana potrebbe far saltare il banco, sembra temere la Lagarde, che sprona i politici europei e del Nord Europa in particolare a completare l’unione bancaria dando finalmente via libera ad un fondo di garanzia unico sui depositi, superando “legittime preoccupazioni nazionali” su come saranno ripartiti i costi (e i rischi, per le banche e i paesi “virtuosi” di dover pagare per i debiti accumulati da imprese e famiglie del Sud Europa).

Cosa succederebbe se, magari a causa delle tensioni commerciali tra Usa e Cina, l’export, sinora tra le poche valvole di sfogo dell’economia italiana (ma non solo) dovesse entrare in crisi? Che molte aziende avrebbero difficoltà a rimborsare i prestiti, ci sarebbe nuova pressione per cercare di limitare il più possibile i costi dunque riducendo la domanda di prodotti e servizi per le imprese, probabilmente si procederebbe a nuovi licenziamenti indebolendo il mercato del lavoro. In questo scenario le banche vedrebbero aumentare nuovamente i crediti deteriorati, avrebbero necessità di raccogliere nuovi capitali, stringerebbero il credito e il sistema potrebbe avvitarsi in una crisi che rischia di essere peggiore di quelle precedenti.

Questo perché a differenza di 10 o 20 anni fa la Bce ha già portato i tassi a zero, ha già acquistato sul mercato 2.600 miliardi di euro di titoli di stato e bond, le banche hanno già ridotto il personale e chiuso le filiali in perdita, le aziende hanno già tagliato i costi. Tutto è perfettibile e sicuramente si potrebbero mettere in campo ulteriori misure più o meno “straordinarie”, ma nonostante i miglioramenti visti in questi ultimi trimestri il quadro resta più fragile di quanto sarebbe opportuno, dunque serve trovare nuovi strumenti che consentano all’Eurozona di fare realmente fronte comune evitando che un paese del peso dell’Italia possa un domani rischiare una sorte simile a quella della Grecia.

Il fantasma che aleggia sull’Eurozona ormai dal 2012, ossia quando Atene dovette ristrutturare il debito pubblico riuscendo in due successive operazioni a cancellare 137 miliardi di debito su circa 400 miliardi esistenti. Un “haircut” di quasi il 35% che scongiurò il default ma che se applicato al caso italiano vorrebbe dire cancellare 650-700 miliardi di euro di bond, con conseguenze pesantissime per il sistema bancario e per le famiglie italiane (cui fanno capo oltre i due terzi dei titoli di stato in circolazione) oltre che per l’Eurozona tutta.

Insomma: una crisi ora, con un debito/Pil che resta sopra il 132%, banche in via di ripresa ma ancora in pieno “derisking” e con una redditività gracile, aziende che faticano a innovare, una domanda interna che resta debole non solo in Italia e tensioni geopolitiche in crescita in aree limitrofe a quella europea è davvero un evento che nessuno si può permettere. Questo potrebbe significare, nel concreto, una maggiore disponibilità di paesi come Germania e Olanda ad accettare un compromesso sullo schema di assicurazione unica dei depositi bancari europei, ma anche la necessità per il successore di Mario Draghi alla guida della Bce di andare oltre la semplice fornitura di liquidità e mantenimento dei tassi a zero e, per i governi, una nuova fase di stimolo dell’economia, sia pure nell’ambito di un’attenta valutazione di dove valga la pena fare investimenti e dove sia invece il caso di tagliare la spesa improduttiva.

Come ripete il ministro dell’Economia e finanze, Giovanni Tria, serve dunque adottare misure che favoriscano realmente la crescita e convincano i mercati, così da scongiurare la “crescita zero” che farebbe ulteriormente lievitare il rapporto debito/Pil (se non altro perché emettere debito continua a costare: nel solo primo trimestre di quest’anno il tasso medio ponderato dei nuovi titoli in emissione è stato pari al 2,27%, quasi un punto in più rispetto all’1,35% di un anno fa). Un’impresa per nulla semplice in un paese abituato da decenni a politiche “tassa e spendi” quando non al finanziamento in deficit di ogni misura espansiva, il tutto a fronte di una produttività che resta inferiore a quella dei partner europei, in particolare ma non solo in vaste aree del settore pubblico.

 

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