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Economia
Valtur, ecco cosa non ha funzionato: il flop del Re Mida Bonomi

L’Italia deve vivere di turismo”. Quante volte abbiamo sentito ripetere questa frase come formula risolutiva per ridare slancio all’economia dell’Italia? Questa volta a dirlo non è uno dei tanti conduttori televisivi che ci propina l’ennesimo scorcio mozzafiato della nostra incantevole penisola, a dirlo in occasione del TTG Incontri di Rimini (Ottobre 2017) è Bernabò Bocca presidente di Federalberghi, che definì come trionfante il bilancio della stagione che andava a chiudersi, solo l’inizio di qualcosa di più sfolgorante, il trampolino di lancio per il turismo, uno dei protagonisti della prossima ripresa. Un numero su tutti: il turismo italiano vanta 176.000 occupati in modo stabile (250.000 ad Agosto).

La "T" di turismo, che insieme alle quattro A (Automazione, Abbigliamento, Arredocasa e Alimentari) compongono le lettere dell’alfabeto dell’economia italiana, le 5 gambe capaci di sostenere con grande dignità e stile il tavolo del Made in Italy.

Eppure, nonostante tutte le premesse nei numeri, cifre importanti del Pil, e nei contenuti, , uno dei marchi storici del made in Italy, quarto gruppo alberghiero in Italia, l’Italia è definito da tutti il Paese più bello del mondo, fare turismo non è poi così semplice se anche Valtur sembra ormai vicino a chiudere l’attività, ma non per condizioni meteo sfavorevoli, bensì perché sommerso dai debiti, 70 milioni a fine 2017.

E’ vero, fare turismo non è semplice come sembra, o almeno com’era fino a qualche anno fa, prima dell’avvento dei “last minute”, dei “low cost” e dello “sharing holiday” con colossi come Airbnb, non è facile competere, però è altrettanto vero che la domanda rimane sostenuta, anche sotto la minaccia terroristica globale, alla vacanza comoda e all-inclusive non si rinuncia.

Sfide e incognite che devono essere pesate su Valtur, che negli ultimi anni ha dovuto affrontare un percorso aziendale fatto di stenti, già nel 2011 sotto la gestione della famiglia Patti il gruppo era finito in amministrazione straordinaria, nel 2012, ceduta a Orovacanze di proprietà dell’imprenditore Franjo Ljuljuray (tutt’ora in possesso del 10%), niente di eccezionale, nemmeno nel Paese delle meraviglie che viveva una strutturale ripresa.

Per risollevare le sorti del gruppo ci sarebbe voluto un personaggio con lo stile di Enrico Borghini (impersonato da Jerry Calà), che nel telefilm “professione vacanze”, da direttore, riesce a risollevare un villaggio turistico in crisi. Ma anche per Valtur non andò così male perché nel 2016 arrivò con soldi (100 milioni per il 90%), carisma e fiuto per gli affari un personaggio brillante come Andrea Bonomi, seguito dalla sua aurea di risanatore e riesumatore di marchi di prestigio, che dopo il colpo mancato al Club Med, decise di dedicarsi al progetto vacanze italiano.

Una partenza che, almeno a parole, prometteva bene: “L’acquisizione Valtur rappresenta il primo passo di un progetto finalizzato alla creazione di un polo turistico, attivo nella gestione di resort leader nell’area del Mediterraneo”. Dichiarazioni in pompa magna, di guerra, evidentemente lo smacco al Club Med era ancora vivo nell’orgoglio, ma tanto meglio per l’Italia si era pensato.

Parole a cui seguirono i fatti, oltre all’investimento iniziale, ci fu l’accordo con Prelios per acquisire la proprietà di 3 resort: Ostuni, Pila e Marilleva. Da aggiungersi all’accordo stipulato da Investindustrial per la gestione del Tanka Village, in Sardegna, quale punta di diamante del turismo, tanto che, parole di Bonomi quest’ultima sarebbe dovuta divenire la meta prestigiosa, e “grazie anche a queste acquisizioni il gruppo Valtur supererà un milione e mezzo di pernottamenti annui”.

Grandi ambizioni che prima nei fatti, con il grande apporto di capitali, poi a parole con le dichiarazioni di rilancio e con l’obiettivo non solo di diventare leader in Italia, ma nel Mediterraneo, si sono aggiunti il restyling di slogan, logo, e personale con un imprinting tutto italiano.

Valtur volta pagina” fu lo spot di un anno fa, nuova vita e non si può dire che Andrea Bonomi non ci abbia messo energie, buona volontà e impegno. Come nuovo amministratore delegato fu chiamata Elena David (da Una Hotel), che sembrava la persona giusta al posto giusto, carica per affrontare la nuova avventura, tanto che il giorno della presentazione del restyling e del catalogo Estate 2017 dichiarò: “Valtur viene da un periodo complicato, non lo nascondo, ma non parliamo del passato, guardiamo avanti, vorremmo che del passato rimanesse quel dna positivo che ha accomunato Valtur agli italiani, l’idea di una vacanza protetta, sicura, di buona qualità, dove la famiglia era molto centrale, ma dove si potevano divertire tutti”.

Un’ottima premessa, ma solo un anno dopo, a divertirsi non c’è riuscito nessuno: non i 1.200 stagionali che lavorano nei villaggi, non i 100 tour operator, tutti rischiano il posto, non Elena David forse pentita di aver lasciato Una Hotel e non certo Bonomi che non solo ha perso il capitale investito, ha perso una sfida che per un imprenditore è motivo d’orgoglio, ma l’ha persa soprattutto con i francesi che non l’hanno voluto al Club Med e che dall’Italia contro di loro pensava di rivalersi.

Una doppia beffa, ha subito pensato qualche malalingua, se avesse comprato il Club Med, almeno avrebbe affondato un concorrente antipatico dell’Italia. Forse l’unico a divertirsi, o a perderci meno, è stato Franjo Ljuljuray che dopo aver passato a Bonomi il 90% di Valtur, e rimanendo solo con il 10%, ha almeno limitato i danni.

Eppure Andrea Bonomi rimane un cavallo di razza nell’imprenditoria italiana, un golden boy (a qualcuno ricorda il Jody Vender degli anni ’80), definito da molti anche un cavaliere bianco, strattonato e chiamato in causa in molte battaglie, che in anni passati furono vinte, e furono battaglie di grande prestigio e di enorme rilancio: da Permasteelisa, alle calzature Sergio Rossi che riportò in Italia, fino al grande colpo della Ducati che raccolse in stato pre-fallimentare e poi rivenduta per 800 milioni ai tedeschi della Audi. Operazioni che danno lustro al nome di Bonomi (un cognome altisonante a Milano, la nonna Anna Bonomi – Bolchini è stata una delle regine di Piazza Affari), operazioni che elettrizzano gli investitori che sono disposti a riversare tanto denaro nella sua creatura Investindustrial, un gruppo con 75 dipendenti sparsi negli uffici di Londra, Lugano, New York, Madrid e Shanghai.

Va tutto bene finchè si orienta sul campo industriale, ma quando decide di cedere alle tentazioni della finanza, puntando nel 2016 a conquistare Piazza Meda con l’attacco alla Bpm, ecco che arriva il primo passo falso. Una passo falso che è al tempo stesso una conferma della sua vocazione più per l’industria che per la finanza, una volontà già espressa in passato quando dichiarò che il private equity finanziario non è la soluzione migliore, la leva eccessiva è un freno per l’imprenditorialità e gli investimenti, può portare grandi guadagni, ma se qualcosa va male, salta tutto. E si sa quanto leva ci sia oggi nella finanza e soprattutto nelle banche, italiane comprese. Perché allora puntare su una banca, tra l’altro difficile come BPM? Il primo indizio che se ne deduce è che quando Bonomi va contro le sue idee la partita viene persa.

Contro le idee e contro gli ideali di famiglia. Perché la seconda sconfitta arriva quando si fa portavoce e portabandiera di Mediobanca nella conquista di Rcs, partita contro Cairo che sembra vinta, almeno dai presupposti delle due offerte, e che invece, a colpi di Opa e contro opa (un duello che a Piazza Affari non si vedeva da anni), viene vinta da Cairo. Un’altra sconfitta annunciata, perché come scritto sopra, questa volta Bonomi è andato contro la sua famiglia, visto che la nonna era acerrima rivale di Cuccia che di Mediobanca è stato il deus ex machina.

Oggi Bonomi si trova ad affrontare una situazione diversa, non una sconfitta per non aver rispettato i suoi ideali, e nemmeno per non aver rispettato l'orgoglio di famiglia, ma semplicemente un fallimento in un settore traino dell’Italia, che gli costerà denaro e prestigio e prossimamente una lotta sindacale per non fare definitivamente morire un marchio e posti di lavoro.

Anche se, secondo Investindustrial, che lo scorso dicembre ha ceduto tre villaggi alla Cdp per oltre 43 milioni, quella del concordato preventivo, è l’unica strada percorribile per tentare un’ipotesi di ristrutturazione e rimettere in piedi Valtur. Non tutto è perduto?

Ma se in Italia c’è un marchio del turismo che tramonta, dall’altra ce n’è uno come Alpitour che rinasce. Forte dell’investimento della Tamburi Inv tramite la newco “Asset Italia”, 120 milioni di nuovi mezzi freschi attraverso un aumento di capitale riservato (il più grande aumento per un’azienda privata italiana), che Gabriele Burgio, oggi a guida del numero uno dei viaggi in Italia (fattura oltre 1 miliardo) avrà a disposizione per rilanciare il marchio. Una delle prime mosse è il progressivo rinnovo della flotta aerea (3 Boeing 787), ma nelle intenzioni del giorno del grande annuncio, c’erano anche le mire espansionistiche, per un Alpitour ora iper capitalizzata, si prospettava una grande campagna acquisti.

In origine, un anno fa, le mire erano verso la Spagna, ma oggi, con Valtur in difficoltà e alla disperata ricerca di un cavaliere bianco, l’occasione potrebbe essere in casa.

A volte, le vacanze “last minute”, si rivelano le occasioni di divertimento migliori, più di quelle programmate per tempo.

@paninoelistino

Tags:
crisi valturandrea bonomi





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