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Spettacoli
Tutto il nuovo cd di Zucchero D.O.C. brano per brano
Zucchero (foto di Robert Ascroft)

D.o.c. sta per “a denominazione di origine controllata”, una sorta di attaccamento alle proprie radici, che “diventano ogni anno più profonde”, ma insieme anche per “disturbo ossessivo compulsivo”, e “va bene lo stesso perché mi rappresenta”. Così Zucchero presenta il titolo del suo nuovissimo cd – in uscita domani su tutte le piattaforme e nei negozi – che ha faticosamente trovato all’ultimo momento, prima di andare in stampa. “Volevo”, dice ad affaritaliani, “chiamarlo Suspicious Times, perché viviamo tempi sospetti, sospesi, non c’è sostanza solo apparenza, ma era troppo anglofono e io ormai canto in italiano in tutto il mondo, perché la musica è emozione, sentimento, vibrazione, ed è meglio se è in originale”.

In realtà entrambi i titoli avrebbero funzionato per un album che propone Zucchero, a tre anni e mezzo di distanza dal precedente lavoro originale Black Cat, al vertice di un sound che scaturisce dalla musica nera e sviluppa una potenza espressiva immediata, pulsante, senza freni né mezze misure musicali. La scelta è chiara fin dai primi ascolti: “mettere insieme una parte “organica”, strumentisti top e coro gospel, affidata alla cure mie e del mio collaboratore storico Max Marcolini, insieme al super produttore Don Was, al quinto album con me, e una parte elettronica, che ho affidato a produttori giovani e fantasiosi, con il risultato di una fusione molto calda, piena, intensa”.

ZUCCHERO DOC Cover

L’attacco è fulminante. “Spirito nel buio” è un brano che trascina e porta via. Un errebì pulsante di voci gospel e di forza ritmica cui non si riesce a resistere. Quasi una nuova “Diavolo in me” con l’auspicio “vorrei vedere tutto il mondo in festa che accende spirito nel buio”. Segue “Soul Mama”, un altro brano tipicamente alla Zucchero, forte, ritmato, funkyssimo e incandescente, un nuovo “Diavolo in me”, dedicato alla mama (parola che in slang americano significa prostituta) e al gioco di parole “lei m’ama, anche se qui tutto frana”, a causa di quello che Zucchero chiama “il bigottismo da carità e il perbenismo noioso, che sono quasi un buco nell’anima e non fanno per me”.

Il terzo brano è “Cose che già sai”, versione in italiano di “Don’t Let It Be Gone” che chiude l’album in veste di bonus track. Una ballad che si apre a poco a poco, cantata in duetto con l’autrice Frida Sundemo, in un continuo incrocio di soluzioni ritmico-armoniche. “È una cantautrice svedese che mi ha indicato Corrado Rustici. La sua voce da usignolo qui è parte della mia voce, per questo l’abbiamo cantato unisono dall’inizio alla fine: una fusione emozionante.”

“Testa o croce”, con l’inedita collaborazione con Davide Van de Sfroos (“uno che in dialetto scrive sempre cose interessanti”), è un brano sulla memoria, sulla eradicazione di un bambino dai suoi luoghi, le sue amicizie, i suoi nonni, come è successo a Zucchero a dieci anni, che dall’Appennino emiliano si dovette trasferire in Versilia. Una ballata ritmica dai momenti corali che precede il singolo, già in preascolto da un mese, “Freedom”, composto a quattro mani con il cantautore britannico Rag’n’Bone Man, quello di Human”. Un inno alla “vera libertà”, con un incedere attualissimo eppure pieno di riachiami a un soul d’antan, in certi momenti persino elegante ma sempre capace di graffiare, perché “la vera libertà l’ho dimenticata, non siamo liberi, è una finta libertà: siamo guidati, controllati, condizionati, la libertà di oggi è apparente, anche per questo mi sono ritirato a vivere sui monti”. La riproposta del brano in inglese, “My Freedom”, un’altra bonus track, è ancora più bella ed emozionante, con un testo più ricco e suggestivo.

Il sesto brano è “Vittime del cool”, tutto contro la voglia diffusa di apparire, senza preoccuparsi di mostrare chi si è veramente. Contro l’essere cool che ognuno cerca oggi, Zucchero vorrebbe, quasi romanticamente, un mondo più genuino, e lo canta in maniera diretta, consapevole. Il doppio senso, che pure potrebbe banalmente essere trovato, non appartiene a questo album, perché, come afferma il cantautore emiliano, “viviamo tempi non così goliardici, nemmeno sereni”. Stavolta è la bonus track in inglese a essere meno interessante e a mostrare Zucchero in difficoltà più del solito con la lingua dei giovani autori inglesi Eg White e Jamil Adeniran.

Emozionante “Sarebbe questo il mondo”, in cui ricorda la differenza tra i sogni di un bambino e la realtà di oggi, con la voglia di tornare “in mezzo alla mia gente”, lontano dai pazzi e dai balordi, dallo sguardo dei codardi, quasi un electro-pop in crescendo, che sale e scende, con la chiusura di un coro intenso e un piano evocatore.

“La canzone che se ne va” è un bel brano all’italiana, un pop alla Zucchero, con il testo di Pasquale Panella (l’altro paroliere di Battisti) e un intermezzo corale anglo-italiano. È una canzone “che vola e se ne va da noi”, perché “fa luce, laggiù”. Una delle poche luci che si intravvedono ancora nel “Bel Paese”, sottotitolo della successiva “Badaboom”, un rock che pulsa di critiche alla realtà italiana. Una nuova “Pippo” - con qualche calembour tipo “tira dai che io non tiro” - in cui l’Italia appare quella che è, un “Bel Paese perché così lo hanno fatto molto prima di noi. Oggi non si possono chiudere gli occhi davanti alla corruzione, agli intrighi, alle coltellate alla schiena: la pentola sta bollendo, potrebbe anche scoppiare”. Sarebbe un badaboom.

Da una nuova collaborazione con Francesco De Gregori, dopo “Diamante”, “Tobia” e le altre, nasce la melodica “Tempo al tempo”, dedicata allo scorrere inflessibile dei giorni e delle stagioni della vita. La voce di Zucchero si abbarbica alla chitarra acustica prima, all’arpa poi, per chiudere con un ironico finale in emiliano, quasi nascosto dalla coda strumentale.

Chiude l’album ufficiale (seguono le tre bonus track in inglese di cui abbiamo detto) “Nella tempesta”, un’intensa ballata pianistica, intima e poetica, ambientata in un inverno natalizio con “la neve [che] scende per le vie del cuore” a dettare un nostalgico ricordo di lei.

Insomma D.O.C. è un gran bel lavoro, che dimostra come Zucchero sia ancora uno dei pochi che riescono, nel cacofonico e siderale appiattimento di criteri, di valori e di senso, in cui siamo immersi, ad afferrare una delle poche libertà concesse, quella di trovare il proprio linguaggio, e prima ancora il proprio ascoltare, il proprio guardare.

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