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Esteri
"L’Africa non ha bisogno di nessuno. Prendiamo in mano il nostro destino"

Di Ruggero Tantulli

“L’Africa non ha bisogno di nessuno, è ora di prendere in mano il nostro destino”. Ne è convinto Otto Bitjoka, presidente dell’associazione Ucai (Unione comunità africane d’Italia). “Non ci servono i finanziamenti del Fondo monetario internazionale né quelli della Banca mondiale, noi africani dobbiamo smetterla di piangerci addosso e chiedere l’elemosina col cappello in mano, per diventare protagonisti del nostro futuro”. Come? “Rivolgendoci al mercato di capitali con le nostre materie prime, stracciando gli accordi con il Fmi e ribellandoci all’imperialismo”.

Lo dice in una sala gremita del Centro culturale Candiani di Mestre, dove si è svolto il convegno “Movimento migratorio africano: idee, non ideologie”, organizzato da Ucai in collaborazione con il Movimento Cinque Stelle Venezia e con l’associazione Diritti in Movimento Toscana. “Da qui deve nascere un progetto per affrontare i problemi dell’Africa, assumendoci noi stessi la responsabilità di cambiare le cose”, afferma sicuro Bitjoka, orgoglioso della sua “negritudine” (“Basta con questo senso di inferiorità, bisogna rovesciare i paradigmi”).

Imprenditore afro-italiano, laureato alla Cattolica, Bitjoka vive da oltre 40 anni a Milano. In passato ha lavorato come amministratore delegato di una banca in Camerun - il suo Paese di origine - e ha fondato un istituto per stranieri in Italia. Non si schiera politicamente ma cerca sponde per diffondere il suo messaggio: prendere consapevolezza della realtà e ribaltare i luoghi comuni. L’obiettivo del convegno - per il M5s erano presenti la senatrice Orietta Vanin, membro delle Commissioni Istruzione pubblica e Cultura e Diritti umani, e la consigliera comunale Elena La Rocca - era proprio di affrontare i temi spinosi dell’immigrazione dal Continente Nero spogliandosi dei pregiudizi e superando gli slogan delle opposte visioni teoriche: un’accoglienza sbandierata ma nei fatti poco praticata e un’insicurezza paventata e conculcata.

“Occorre creare nuovi miti condivisi - concorda Gemma Brandi, coordinatrice di Diritti in Movimento Toscana -, l’Africa può farcela da sola, basta essere pietosi e compassionevoli”. Psichiatra fiorentina esperta di salute mentale applicata al diritto, nonché fondatrice e direttrice de Il reo e il folle, Brandi ha posto l’accento sul tema delle malattie mentali e dei suicidi in carcere - dei quali oggi un quarto è commesso da detenuti africani -, dialogando con il dirigente generale e provveditore regionale del Triveneto dell’amministrazione penitenziaria Enrico Sbriglia.  È proprio in galera, infatti, che si possono intravedere fenomeni che in futuro si presenteranno anche nella nostra società (“La caverna di Platone al contrario”): è successo dagli anni ’70 per la tossicodipendenza e l’Aids e negli ultimi anni per i suicidi e le migrazioni di massa. “Nel 2015 un 35enne eritreo si è impiccato in una doccia di un penitenziario italiano - continua la psichiatra -. Dopo otto anni in Italia sapeva ripetere solo cinque parole: ‘io’, ‘mamma’, ‘Eritrea’, ‘domani’, ‘acqua’. Voleva tornare a casa perché qui non aveva trovato quello che cercava”.

Il protagonismo africano, però, non può non tener conto delle ingerenze straniere, che sul continente diventano veri e propri arpioni predatori. “L’Africa, dopo il processo di decolonizzazione, è tornata di grande interesse per nuovi attori sulla scena geopolitica - osserva Veronica Ronchi, docente di Economia politica all’Università di Milano -. A far gola a Russia, Usa, Turchia ma soprattutto Cina sono le grandi possibilità di sviluppo dovute all’enorme espansione demografica - si stima che gli africani nel 2050 saranno oltre due miliardi - e l’incredibile ricchezza di materie prime”. Basti pensare che l’Africa detiene “non solo il 40% delle riserve mondiali di oro e il 15% delle riserve di petrolio, ma anche l’80% del platino mondiale e il 73% di cobalto”. Tra i maggiori investitori, la Cina resta imbattibile: “Solo l’anno scorso il governo di Pechino ha messo sul piatto 60 miliardi”, continua Ronchi. Il meccanismo è semplice: “Si fanno prestiti a lungo termine che difficilmente verranno ripagati. Così in Zambia la Cina si è presa la compagnia elettrica di Stato, per fare un esempio”.

Ma anche tra i vecchi attori, che corrispondono ai vecchi imperi coloniali, permangono Paesi che non mollano la presa, a partire dalla Francia. Sono di alcuni mesi fa gli scontri tra il governo gialloverde e quello di Emmanuel Macron - che aveva persino richiamato l’ambasciatore a Roma -sul franco CFA, la ‘moneta coloniale’ stampata in Francia e usata da 14 Stati africani (15 con le Comore) per circa 200 milioni di abitanti. “La Francia non ha un vantaggio economico diretto, ma un grande vantaggio politico, sottraendo ai Paesi legati al franco CFA il controllo della politica monetaria”.  È Massimo Amato, docente di Scienze sociali e politiche alla Bocconi, a fare il punto sulla tanto discussa valuta, oggi ancorata all’euro. “È una moneta forte per economie deboli: andrebbe cambiata, a meno che non si voglia mantenere l’Africa nella parte bassa della catena del valore”. Cosa che non può più funzionare: “Non è più un continente ricco di risorse ma povero di persone, visto l’incremento demografico vertiginoso”.

Economista keynesiano, Amato è tra i massimi esperti di monete e ha le idee chiare sul CFA: “È un regalo alle classi dirigenti africane, perché la metà delle riserve valutarie - che sono centralizzate - finisce su un conto corrente del ministero del Tesoro francese, che poi investe a vantaggio delle élites locali, con un tenore di vita maggiore rispetto a Mario Draghi”. Ma il vantaggio è anche dei creditori finanziari: “Con un’inflazione allo zero percento, la moneta è talmente stabile che si può prestare con la massima tranquillità”. “Il vero problema - continua Amato - è il tasso fisso: perché legare il franco CFA all’euro e non al dollaro o a un’altra moneta? Oppure perché non lasciarlo fluttuare?”. Riappropriarsi della sovranità monetaria sembra quindi necessario: “Il fatto che venga stampato fuori dal continente dove viene poi usato significa che, in caso di tensioni diplomatiche, verrebbero bloccati i pagamenti in contanti, che in Africa rappresentano il 90%”.

Ma il punto centrale, per il professore della Bocconi, è il cambiamento del modello di sviluppo. “Dopo la fine della Guerra Fredda, saltato il contraltare sovietico, è esploso il problema del debito africano. Negli anni ’90, quelli del Washington consensus, si è applicato all’Africa lo stesso metodo già sperimentato in America latina, consistente nelle politiche di aggiustamento strutturale, ovvero prestiti in cambio dell’imposizione delle condizioni di sviluppo economico: proprio così verranno poi trattati i greci!”. Il risultato? “Una radicale riduzione dei margini di manovra per gli Stati, con tagli a istruzione e sanità, che oggi in Africa sono peggio del 1990”. Lo stesso Fmi, secondo Amato, comincia a prendere le distanze da questo metodo: “Il Ghana cresce a una velocità superiore rispetto alla Cina, eppure se si continua a estrarre materie prime e ad esportarle i vantaggi saranno sempre per le classi dirigenti africane, mai per le masse”. Oggi, invece, l’Africa “può elaborare politiche endogene, perché ci sono persone e mercato: anche lavorare in loco le materie estratte è un cambiamento di modello”.

Il futuro? All’orizzonte si affaccia una nuova moneta, Eco, presentata ad Abuja (in Nigeria) la scorsa estate: una valuta “anglo-francofona”, perché unirà i Paesi della ‘zona franco’ a Gambia, Ghana e Nigeria (che nel 2050 avrà, da sola, gli stessi abitanti della Ue). “Un’occasione importante - conclude Amato - per rimpiazzare il CFA, se le nuove forze democratiche africane otterranno un’apertura sincera da parte delle forze ex coloniali”.

 

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