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Esteri
Iran, manifesti pro-Shah affissi clandestinamente. Incognita Usa e Russia

Di Mariofilippo Brambilla di Carpiano

 

La tentazione di un cambiamento di regime in Iran sta nuovamente agitando la Casa Bianca, alcuni consiglieri intorno al Presidente degli Stati Uniti sognano da tempo di rovesciare la Repubblica islamica.

Da quando, nel maggio scorso, Donald Trump ha deciso l’uscita dall’accordo internazionale sul nucleare iraniano, annunciando forti sanzioni contro Teheran, molti oppositori al potere degli ayatollah intravedono un’opportunità politica da non lasciarsi sfuggire. Potrebbe essere arrivata l’ora di provare a cancellare la pesante eredità della rivoluzione, che nel 1979 rovesciò dal trono lo Shah Mohammad Reza Pahlavi, segnando l’irruzione dell’Islam politico in Medio Oriente e l’avvento della teoria dell’esportabilità della teocrazia islamica in tutti i paesi arabi abitati da minoranze sciite.

E’ un dato di fatto che dallo scorso dicembre le strade delle principali città iraniane sono scosse a più riprese da proteste popolari. Al principio il malcontento si era levato a causa dell’impennata dei prezzi dei principali beni di consumo, effetto della profonda crisi economica in cui versa il paese (la compagnia petrolifera Total che se ne va e la moneta nazionale che affonda), aggravata dalle enormi spese militari che il regime sostiene caparbiamente per mantenere i suoi interessi egemonici in Siria, Libano, Iraq, Yemen e Bahrein. Oltre alle pesanti conseguenze dovute alla siccità, catastrofe ambientale di fronte alla quale il governo di Teheran sembra non saper far fronte.

Come tutti i regimi autoritari anche la teocrazia iraniana non si fida del suo popolo; durante gli ultimi moti di protesta essa ha reagito imprigionando, torturando e uccidendo dei cittadini innocenti, ha sospeso o interrotto i servizi telefonici e internet a Teheran, Karaj, Qom nel tentativo di impedire il coordinamento dell’opposizione interna, tagliandole i collegamenti con il resto del mondo. Ma la contestazione al sistema guadagna consensi persino nelle classi popolari ultraconservatrici a cui il regime deve la sua stessa esistenza.

Di recente il governo di Teheran ha annunciato l’arresto di alcuni ufficiali delle forze armate sospettati di voler fomentare un golpe. L’ esercito, da sempre in aspra rivalità con la milizia dei Guardiani della rivoluzione, tenenti dell’ortodossia religiosa, inizia a mostrare alcune crepe al suo interno (soprattutto tra gli ufficiali dell’aviazione). Il luogotenente Ourang Poor è stato denunciato per sedizione dopo aver parlato “delle misere condizioni in cui versano i soldati” nel momento in cui il regime acquistava nuovi aerei da combattimento in risposta alla crescente pressione internazionale. Davanti a questa situazione in movimento, con le incombenti sanzioni americane che pendono come spada di Damocle sui turbanti degli ayatollah, molti scenari possono diventare possibili in un paese che si presta a tutto meno che alle semplificazioni.

 Lo scorso 15 agosto il Wall Street Journal apre le sue colonne al Principe ereditario Reza Pahlavi che da trentanove guida dall’esilio l’opposizione laica e moderata alla Repubblica islamica. Il figlio dell’ultimo Shah, seguito da milioni di iraniani della diaspora, sia monarchici che repubblicani, sostenuto da una potente macchina di comunicazione si presenta ormai come l’alternativa possibile alla teocrazia fondata da Khomeini. Mentre il presidente americano potrebbe concedergli il ruolo di interlocutore che il suo predecessore Obama gli aveva sempre negato.

“We will reclaim our country!” Il nuovo slogan, preceduto dall’abituale hastag, campeggia sui social media utilizzati dall’opposizione iraniana. Reza Pahalvi lancia così il suo messaggio dalla prima linea della sua tribuna internazionale: “gli Iraniani vogliono la libertà, la giustizia e la possibilità di un avvenire migliore ma vogliono anche che il loro paese goda nuovamente della sua dignità, della sua fierezza e del rispetto di tutti. Vogliono riprendere il loro posto nella comunità delle nazioni, vogliono essere conosciuti e ammirati per il grande contributo culturale e scientifico venuto dalla nostra antica civiltà. Loro vorrebbero essere riconosciuti dagli altri stati come amici e partner leali nel momento in cui prenderanno in mano le redini del proprio paese e lo condurranno verso un nuovo capitolo della sua storia. In breve i miei compatrioti vogliono recuperare il loro Iran sbarazzandosi della Repubblica islamica.”

Reza Pahlavi auspica un rovesciamento del regime, opzione che per lui deve essere gestita solamente dal popolo iraniano senza l’intervento armato delle potenze straniere. “La Repubblica islamica costituisce una minaccia esistenziale per l’Iran e per il suo popolo”, dichiara il Principe in esilio, “la via d’uscita consiste nella disobbedienza civile, nelle manifestazioni pubbliche, nello sciopero generale, con l’obbiettivo finale di far sprofondare il regime, di farlo implodere dall’interno”. Martella dalle pagine del Wall Street Journal, appellandosi a libere elezioni e rassicurando sulle sue intenzioni personali: ottenuta la libertà gli iraniani avranno la possibilità di scegliere la nuova forma di governo attraverso un referendum nazionale. “Una volta superata la tappa importante del referendum, una volta che i miei compatrioti avranno la possibilità di scegliere liberamente i propri dirigenti, la mia missione sarà compiuta”.

Nelle ultime settimane migliaia di manifesti pro-Shah sono stati affissi clandestinamente in alcune città del paese: Shiraz, Ispahan, Arak, Mashad e Najafabad. La foto del Principe ereditario compare sui muri dei principali capoluoghi di provincia mentre lo scorso 10 agosto ventimila persone scandiscono il suo nome e quello di suo padre durante una partita allo stadio Naghshe-Jahan, la scena ripresa dagli smartphone dei presenti fa il giro dei social media.

Di fronte agli scricchiolii del regime di Teheran resta aperto l’interrogativo sulla posizione che prenderanno gli Stati Uniti di Trump e la Russia di Putin, in questo caso entrambi partners di un Europa che fatica sempre di più a orientarsi dentro le crisi mediorientali.   

Nel gennaio del 1979 l’ultimo Shah partiva tra le lacrime per un esilio senza ritorno, lasciando campo libero all’unica rivoluzione del ‘900 che ha riportato indietro le lancette della storia.

Quarant’anni dopo il ritorno dei Pahlavi in Iran è un’eventualità che non si può più escludere.

Manifesti
 

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