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Geox ora respira a malapena . Polegato "distratto" sull'e-commerce

Geox prova a lasciarsi il 2019, un anno che il presidente e fondatore Mario Moretti Polegato ha definito “caratterizzato da un contesto particolarmente complesso”, in cui ha cambiato i vertici, nominando Livio Libralesso, dal 2001 già direttore amministrazione finanza e controllo del gruppo e dal 2016 anche Cfo e corporate manager director, quale nuovo amministratore delegato al posto di Matteo Mascazzini, ex direttore operativo di Gucci America catapultato ai vertici di Geox nel febbraio 2018 in sostituzione di Gregorio Borgo. Un manager (ex direttore generale operations di Pirelli, rientrato poi ai vertici di Proteon, ossia l’ex Pirelli Industrial) anche quest'ultimo che sulla poltrona di amministratore delegato del gruppo di Moretti Polegato era durato appena un anno.

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L'andamento a Piazza Affari del titolo Geox in calo negli ultimi 5 anni

Oltre alla girandola di capi azienda, Geox annuncia l’ennesima ristrutturazione della propria rete distributiva, ma Piazza Affari non sembra molto impressionata, tanto che il titolo torna a perdere quota scivolando a metà giornata a 1,17 euro per azione dopo aver toccato un minimo in avvio di seduta a 1,158 euro. Un prezzo ben lontano dagli oltre 16 euro che l'azione quotava a novembre del 2007. 

La società delle “scarpe che respirano”, che a Piazza Affari ormai capitalizza meno di 310 milioni di euro, ha preannunciato per l’esercizio appena concluso ricavi in calo a 805,9 milioni di euro (-2,6% a cambi correnti, ovvero -3,3% a cambi costanti) e l’ulteriore ristrutturazione della propria rete con chiusura di circa altri 80 negozi nei prossimi tre anni. 

Una scelta dolorosa ma, ha spiegato Moretti Polegato, inevitabile a causa della “sensibile riduzione di traffico nei negozi fisici, soprattutto in quelli situati in posizioni minori e non strategiche o in Paesi caratterizzati da tensioni socio-politiche”. Per la verità che il settore abbigliamento-moda sia da anni in piena “disruption”, con sempre più consumatori che nei negozi fisici entrano solo se il marchio riesce a far vivere loro una “brand experience” significativa, altrimenti limitandosi ad occhieggiare i modelli e i prezzi per confrontarli con le offerte disponibili online di prodotti dello stesso marchio, è noto anche alle mosche sulla carta moschicida da alcuni anni. Nel caso di Geox da almeno un quadriennio a giudicare dai bilanci.

Si guardi all’andamento dei ricavi: nel 2009, l’anno dei postumi della crisi economico-finanziaria mondiale, Geox registrò vendite per 865 milioni, una sessantina in più di quelli che dovrebbe aver registrato dieci anni dopo (-7% circa), nonostante che all’epoca vi fossero in tutto 1.008 Geox shop di cui 244 a conduzione diretta, mentre a fine 2018 ve n’erano 1.015 di cui 444 a conduzione diretta (+82% nel raffronto decennale). 

Puntare su un forte incremento dei negozi a conduzione diretta (peraltro in questi ultimi anni già in calo dopo aver toccato un picco di 476 unità nel 2015) se inizialmente ha consentito di recuperare terreno in termini di fatturato ed Ebitda adjusted (che sempre nel 2015 toccarono rispettivamente gli 874,3 milioni e i 61,8 milioni), ormai non sembra più costituire una scelta al passo coi tempi.

Ora da chiusure e ristrutturazioni dei punti vendita Geox si attende, entro il 2022, un ulteriore calo dei ricavi di 35-40 milioni che però dovrebbe comportare un miglioramento del risultato operativo di circa 5 milioni, una volta spesati 10-15 milioni di costi “una tantum” legati alla ristrutturazione e da contabilizzare già nel 2019.

Considerato peraltro che in questi anni il risultato netto del gruppo di Moretti Polegato è andato via via calando, dai 10 milioni di fine 2015 ai soli 2 milioni del 2018, è prevedibile che ciò comporterà una chiusura in rosso e dunque, ancora una volta, uno stop alla distribuzione di dividendi, del resto già ridottisi al lumicino negli ultimi esercizi. Dai 20 centesimi per azione distribuiti nel 2010 a valere sui risultati 2009 (quando l’esercizio chiuse con un utile netto di 66,7 milioni), il dividendo era infatti già calato a 6 centesimi nel 2016 sugli utili 2015 per poi ridursi a soli 2,5 centesimi lo scorso anno (sui risultati 2018).

Non solo: toccare la rete di negozi fisici costa, sia quando la si espande sia quando si procede a ristrutturarla. Nel 2013 ad esempio, a fronte di una rete salita fino a 1.299 negozi di cui 450 a conduzione diretta, il free cash flow risultò negativo per 61,2 milioni. Nel 2018, quando già si registrarono 18 chiusure nette rispetto all’anno prima e il totale dei negozi calò come detto a 1.015 (erano 1.161 ancora tre anni prima) di cui però quasi il 44% a conduzione diretta (contro il 24% di dieci anni prima), il free cash flow tornò ad essere negativo, per 5,7 milioni.

E’ pur vero che in questi anni Geox ha mostrato una invidiabile tenuta in termini di posizione finanziaria netta (negativa per 28,3 milioni nel 2013, ma nuovamente positiva per 20,8 milioni nel 2015 e ancora per 2,3 milioni a fine 2018), ma le ristrutturazioni bruciano cassa, almeno quanto gli investimenti che saranno presumibilmente necessari per puntare sui canali online, tra i pochi, insieme ad alcuni mercati “fisici” come la Russia e l’Europa dell’Est, a registrare una “crescita molto sostenuta” come ha sottolineato Moretti Polegato. Crescita che comunque non è finora stata sufficiente a far inserire il dettaglio di quanto il gruppo venda attraverso questo canale nelle presentazioni ufficiali, segno che nonostante i segnali positivi l’impatto dell’e-commerce per Geox è ancora marginale.

Ultimo ma non meno importante “peccato originale” di Geox sembra essere rimasto relativamente troppo concentrato sul proprio mercato domestico, l’Italia, il cui peso sul totale delle vendite è sì calato dal 37,7% del 2009 al 29% di fine 2018, ma è rimasto pressoché costante nell’ultimo quinquennio (nel 2013 l’Italia rappresentava il 32% delle vendite totali), finendo col subire la “non crescita infelice” registrata dal nostro Paese in questi anni.

Luca Spoldi

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