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Roma, 16 gen. (Labitalia) - La sentenza della Corte di Cassazione (n. 25201 del 7 dicembre scorso) che ha definito legittimo il licenziamento di un lavoratore, motivato con l'intento di realizzare 'una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto', "non fa una grinza e non ha nulla da spartire con le modifiche introdotte nella disciplina del recesso dal rapporto di lavoro sia dalla riforma Fornero del mercato del lavoro, sia dal dlgs n.23/2015 che ha introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti". Così Giuliano Cazzola, docente di Diritto del lavoro UniECampus e membro del Comitato scientifico Adapt."Il profitto in Italia -commenta Cazzola- è lo 'sterco del diavolo'. La possibilità di licenziare, come prevede la legge, per 'ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa', può valere soltanto - sostengano infuriate le 'anime belle'- se l’azienda è in crisi. Ma il profitto non è il fine di quell’attività economica organizzata che si chiama impresa?", chiede Cazzola."Se andiamo un po’ più indietro nel tempo -ricorda Cazzola- è scoppiato lo scandalo dell’incremento dei licenziamenti disciplinari, di cui si sono subito incolpati il Jobs Act e la nuova disciplina del recesso. La vera spiegazione è un’altra. I licenziamenti per giustificato motivo e per giusta causa sono aumentati per colpa di una norma cretina sulle cosiddette dimissioni in bianco". "Sia chiaro: quella di far firmare ai lavoratori (e in particolare alle lavoratrici) una lettera -premette il giuslavorista- che il datore potrà usare, a sua discrezione, come atto di dimissioni (evitando così le procedure del recesso) è una prassi disonesta, infame e meritevole di essere contrastata in ogni modo. Con buon senso, però; come aveva provveduto a fare la legge n.92/2012 (la riforma Fornero del mercato del lavoro)". "Perché avessero effetto le dimissioni -ricorda Cazzola- dovevano essere date in una sede protetta (sindacale, amministrativa, giudiziaria), con modalità trasparenti e come espressione della libera volontà del lavoratore. In caso contrario (ovvero in mancanza degli adempimenti previsti) il rapporto di lavoro continuava a sussistere"."Veniva, tuttavia, tutelato - precisa - anche il datore di lavoro per i casi nei quali il dipendente (capitava con molti stranieri) non seguisse le procedure stabilite o non si presentasse più in azienda. Il datore poteva 'metterlo in mora' invitandolo a rientrare al lavoro entro un certo periodo, trascorso inutilmente il quale il rapporto si intendeva risolto". Ma, avverte Cazzola, "in questa legislatura le Erinni del Parlamento, come se non esistesse già una normativa vigente, hanno preteso di ripristinare una disciplina, abrogata, a suo tempo, del ministro Maurizio Sacconi, perché si era rivelata funesta"."Per dare le dimissioni il lavoratore doveva scaricare e compilare un apposito modulo dal sito del dicastero del Lavoro. Senza neppure prendersi la briga di monitorare gli effetti delle norme della legge n.92, si è voluto tornare a quella impostazione", sottolinea. Con la conseguenza, dice Cazzola, che se uno non segue la procedura informatica "il rapporto non si scioglie e che il datore deve licenziare il soggetto per assenza continuativa e ingiustificata". In pratica, ricorre al licenziamento disciplinare con tutti i rischi che questo comporta: "Impugnazione, esame del giudice, risarcimento", conclude Cazzola.





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