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“Ho fatto la spia”: razzismo e società maschilista raccontati dalla Oates

Il titolo originale del nuovo romanzo firmato dalla prolifica scrittrice Joyce Carol Oates – ottantadue anni e oltre cento opere prodotte – è My life is a rat e gioca sul duplice significato della parola “rat”: ratto, ma anche spia, talpa. In Italia lo ha pubblicato la casa editrice La Nave di Teseo, traducendolo in Ho fatto la spia: difficile mantenere il doppio senso pensato dall’autrice, tuttavia resta chiaro l’intento di consegnarci un segreto, che è anche un rimorso, una rottura, una questione irrisolta. È proprio a partire da essa che si sviluppa l’intera trama del romanzo, incentrato sui temi del razzismo, della ferocia dei sentimenti umani, della degradazione della società americana e soprattutto del potere che gli uomini, da sempre, esercitano sulle donne. 

Violet Rue Kerrigan è la protagonista di questa storia delle tinte forti, talvolta crude sebbene mai estreme, che ha inizio quando la ragazzina, appena dodicenne, scopre cosa si nasconde dietro all’assassinio di Hadrian Johnson, un tranquillo adolescente di colore pestato a morte da teppisti bianchi nella sua stessa cittadina. Non è lei a voler trovare la verità, è la verità stessa che si svela ai suoi occhi di fanciulla ingenua in una notte insonne: i colpevoli dell’omicidio sono i fratelli maggiori, Jerome Jr. e Lionel. Impossibile crederci, eppure è così; impossibile restare coinvolta in un reato tanto grave, eppure è lei l’unica della famiglia a conoscere i fatti; impossibile fare la spia tradendo il suo stesso sangue, eppure accade anche questo, in un momento di debolezza, di paura. 

Da allora, la vita di Violet viene stravolta e diventa un turbinio di sentimenti contrastanti, tra i quali domina il rimorso, il senso di colpa. Abbandonata dai familiari, esiliata e mai più perdonata, Violet deve fare i conti non soltanto con sé stessa, ma anche con ciò che gli uomini si aspettano da lei. Così, se il tema del razzismo domina la prima parte del romanzo e continua poi a pervaderlo fino all’ultima pagina, è il complesso mondo del maschilismo che permea a poco a poco il cuore della narrazione. Poiché, in fondo, il razzismo è un fenomeno evidente, violento, riconosciuto al punto tale da suscitare a sua volta un controrazzismo nei confronti dei bianchi; il potere che gli uomini esercitano sulle donne, invece, è un qualcosa di subdolo e sotterraneo, che può acquisire mille forme e non uscire mai direttamente allo scoperto. 

Nel racconto talvolta angosciante e spesso malinconico della Oates, che sembra entrare nella mente della sua protagonista per tirarne fuori tutto ciò che la caratterizza (pensieri, fatti, timori, dubbi, illusioni), i personaggi maschili sono per lo più negativi, ognuno però a suo modo. C’è il padre Jerome, che incute un senso di protezione e al contempo di terrore, faro luminoso ma abbagliante nella vita dei sette figli; c’è il professore di matematica, persuasivo e rassicurante, capace di fare alle sue giovani vittime cose che loro stesse dimenticano per sempre, sotto gli effetti della droga; c’è lo zio represso e pervertito, per il quale Violet prova disgusto ma anche pietà; c’è, infine, il ricco cliente dell’agenzia di pulizie, che conquista le donne con i regali, le seduce attraverso il denaro e il lusso, per poi trascinarle insieme a lui nel vortice della sua aggressiva disperazione.  

Eppure Violet non scappa, non subito, per lo meno. Davanti ad ogni figura carismatica che incontra lei resta, sprezzante e affascinata; proprio come fa sua zia con il depravato marito, o sua madre con l’autoritario padre. Come lo si spiega? “Il punto debole della donna, l’amare a prescindere. L’amare senza dubbi. L’amore come ossigeno che aspireresti anche da una cannuccia sporca e rotta, per il quale ti metteresti in ginocchio nel fango, qualsiasi cosa pur di sopravvivere, perché senza di lui non puoi vivere”.

È un romanzo intenso e toccante, quello della Oates, da cui non escono vincitori: perdono le donne, vittime di un maschilismo che non è soltanto nella struttura sociale in cui viviamo, ma è intrinseco alla natura stessa degli esseri umani, a partire da quella forza fisica che il maschio esercita sulla femmina. Perdono, però, anche gli uomini, svuotati dalle loro stesse prepotenze, incapaci di resistere all’indole corrotta e pertanto destinati a fare i conti per sempre con la propria mediocrità. Un solo personaggio rompe questo ritratto a tinte drammatiche del genere maschile: un ragazzo di colore, una vittima a sua volta, uno che ha trovato la sua vendetta non già nella violenza, quanto nella conoscenza. 

In uno stile eclettico e convulso, dove dalla prima persona si passa alla terza e poi alla seconda, delineando dialoghi, fatti e pensieri attraverso il corsivo e le virgolette, Joyce Carol Oates scende fino all’abisso dei sentimenti umani, là dove ribollono gli istinti primitivi, per poi risalire verso una conclusione tanto semplice, quanto vera nella sua essenza: “Il mio desiderio è vivere una vita in cui le emozioni arrivino lentamente, come le nuvole in un giorno senza vento. Vedi la nuvola che si avvicina, contempli la sua bellezza, la guardi passare, la lasci andare. Non ti soffermi su quello che hai visto, non lo rimpiangi. Ti accontenti di sapere che una nuvola identica non arriverà più, a prescindere da quanto sarà bella, speciale. Non piangi la sua perdita”.   

Un libro consigliato per la vivida descrizione della società americana (sebbene forse sarebbe meglio evitare limitanti confini geografici), per la complessa analisi dei rapporti tra uomini e donne, tra maggioranze e minoranze, nonché per il profondo viaggio nell’interiorità di una donna, che in fondo rappresenta tutto il genere femminile.   

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