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Accesso informatico nei profili altrui: è reato. Parla l'avvocato

Le cronache giudiziarie sono sempre più spesso chiamate a occuparsi di vicende in cui una persona denuncia l’intrusione da parte di un familiare, il più delle volte un ex partner, nei profili personali di social network o di altri siti. Si tratta di condotte in cui più delle volte si sottovalutano i profili penali e che al contrario sono state giudicate con estrema severità dal giudice penale. Per essere penalmente rilevante l’indebita intromissione o permanenza deve innanzitutto riguardare un sistema informatico o telematico che sia protetto da misure di sicurezza e per accedere al quale occorre quindi utilizzare una password che consente l’ingresso nell’account dell’utente in modo da consentire la visualizzazione delle conversazioni effettuate o dei dati immessi.

A nulla rileva il fatto che il computer di casa sia in concreto condiviso e che il titolare del profilo possa aver scelto di “salvare” la password per i successivi accessi e che dunque l’intrusione sia avvenuta senza la necessità di reimmettere manualmente la chiave d’accesso, ma che sia avvenuta mediante la mera conferma dei dati o che la password sia conosciuta, conoscibile o anche facilmente intuibile da parte del terzo. Configura illecito penale reato anche la condotta di chi, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso.

Recentemente la Suprema Corte nel pronunciatasi in un caso di accesso al profilo Facebook dell’ex moglie, che in costanza di relazione aveva spontaneamente comunicato le proprie credenziali di accesso, configura il reato di accesso abusivo al sistema informatico, stante la diversa situazione sentimentale che deve far presumere una revoca delle autorizzazioni già date. Secondo i Giudici, la condivisione di username e password con il partner non costituisce di per sé consenso all’accesso informatico sul social dell’altro e la circostanza che il ricorrente fosse a conoscenza delle chiavi di accesso della moglie al sistema informatico quand’anche fosse stata quest’ultima a renderle note e a fornire, così, in passato, un’implicita autorizzazione all’accesso, non escluderebbe comunque il carattere abusivo degli accessi. Mediante questi ultimi, infatti, si è ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona titolare, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate.

Per quanto riguarda la presa di cognizione dei messaggi lasciati nelle chat tra il titolare del profilo e i terzi, risulta possibile in astratto ravvisare la sussistenza del reato di violazione di corrispondenza, condotta punita fino alla reclusione di un anno. La pena è aumentata fino a tre anni se chi, dopo aver letto abusivamente la corrispondenza, senza giusta causa ne riveli il contenuto in tutto o in parte, e se dal fatto deriva nocumento.

Particolarmente interessante questo aspetto con riferimento alle vicende di separazione, nelle quali il coniuge riversa in atti conversazioni ottenute mediante l’accesso non autorizzato per sostenere un addebito per colpa, ad esempio fornendo prove di infedeltà coniugale, o per provare il tenore di vita della controparte ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento. Si è molto dibattuto se la produzione in giudizio possa integrare quella “giusta causa” prevista dalla norma che renderebbe non punibile la condotta di rivelazione di corrispondenza, spesso invocata dalle parti nei processi.

La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi in ordine a vicenda in cui l’imputato, presa cognizione della corrispondenza bancaria indirizzata alla moglie, aveva utilizzato tale documentazione producendola nel giudizio di separazione personale pendente con la suddetta quale mezzo di prova per contrastare la richiesta di assegno di mantenimento, ha chiarito che la portata della nozione di “giusta causa”, è affidata al concetto generico di giustizia che il giudice deve pertanto determinare nel caso concreto dovendosi fare un bilanciamento tra l’esercizio del diritto di difesa di un soggetto e il diritto alla riservatezza della sua controparte. Va da sé che se l’informazione era comunque reperibile altrimenti si configura l’illecito ma la questione è tutt’altro che chiusa.

 

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