I Hate Milano

di Mister Milano

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I Hate Milano
La rovina di Milano parte in gelateria: da mondo dei bimbi ad atelier fighetti
Gelato

C’è stato un tempo in cui i prodotti avevano valore di per sé, e la gente viveva la dimensione del consumo in modo quasi razionale: il rapporto qualità-prezzo era il motore del mondo, un mondo spietato e pieno di ingiustizie, ma che aveva il vantaggio di essere basato su fatti più o meno misurabili.

Ma a un certo punto dell’evoluzione umana questo meccanismo si è inceppato. Il mondo come lo conoscevamo è finito e ne è cominciato uno nuovo dove tutto è sottomesso alla schiavitù di un mostro chiamato “marketing”. E’ un mondo dove i comportamenti e le opinioni non si basano su fatti verificabili ma su suggestioni opinabili, che a furia di essere gridate nell’orecchio dei consumatori, finiscono per essere riconosciute come vere.

Per capirlo, basta entrare in questi giorni in una qualsiasi gelateria milanese.

Una volta, farsi un gelato era un piacere senza pretese. La gelateria era un negozio colorato, e il gelataio un signore sorridente, vestito di bianco, amato dai bambini del quartiere. Limone, pistacchio, fior di latte, i gusti erano una dozzina in tutto, e ognuno aveva quei tre o quattro preferiti che prendeva sempre.

Ma il settore dei gelati come lo conoscevamo è andato distrutto e sostituito da un qualcosa a metà tra un incubo e una parodia, che dopo aver inghiottito le gelaterie milanesi minaccia di mangiarsi quelle di tutta Italia (del resto, Milano è sempre all’avanguardia in questo genere di follie).

Le prime vittime sono state i gelatai stessi. Quegli uomini e quelle donne gioiosamente in carne sono stati rapiti, sbattuti in qualche centro benessere e costretti a dimagrire a suon di tisane lassative. Al loro posto, ecco un esercito di individui androgini, spesso ipertiroidei, sicuramente stitici, che riempiono meccanicamente coni e coppette senza alcuna traccia della golosa passione che animava i loro predecessori, avendo cura di non superare i rigidi quantitativi di prodotto indicati nelle linee guida della policy aziendale.

Cose del genere non sarebbero mai accadute nelle gelaterie di una volta, che a partire dai nomi – “Mirtilla”, “Arcobaleno”, “Amico gelato” – tradivano la loro natura di spensierate cattedrali dell’infanzia. E infatti, con i gelatai dietro le sbarre e gli androgini dietro al bancone, gli usurpatori hanno provveduto a stravolgere l’immagine stessa che della gelateria conservavamo nel nostro immaginario.

Nel nome prima di tutto:  “Passione Gelata”, “il Massimo del Gelato”, addirittura “Gelato Giusto”. Ma soprattutto nel design interno del negozio, che ormai più che ad una gelateria fa pensare ad una via di mezzo tra un’atelier di moda e la stanza di un obitorio. Pareti immacolate, pavimenti intonsi, ambienti asettici: tutto è essenziale, spigoloso, a misura di adulto e non di bambino. 

E infatti alle pareti non troviamo cartoncini con scritte a pennarello  tipo “nuovo gusto puffo” ma tabelle numeriche con valori nutrizionali.

Anni fa, presentare il gelato come prodotto ipocalorico sarebbe stato un modo sicuro per farsi mandare al diavolo, giacché parte del suo fascino stava proprio nel carattere peccaminoso del prodotto: ci si “concedeva” un gelato, come con i vizi. Ma per i guru del marketing questo era intollerabile: il consumo oggi deve essere “responsabile”, tutto deve piegarsi al diktat salutista in modo da giustificare il sovrapprezzo.

Così, quella mappazza di latte e uova, ha cominciato ad essere contrabbandata come un toccasana tramite ricerche farlocche, buone per i creduloni in bermuda, che così possono mangiare tranquilli, sentendosi giusti nel Giusto.

Ma “il massimo” lo si raggiunge osservando ciò che questi mostri hanno avuto il coraggio di fare con il prodotto preferito della nostra infanzia.

Per decenni, bambini e adulti di ogni ceto sociale hanno mangiato coni e coppette al pistacchio, al limone o alla vaniglia senza desiderare altro. Ma ai milanesi di oggi, geneticamente modificati dal marketing, la semplicità non basta, e nemmeno il gusto ed il risparmio: ci vuole il brand.

Quindi il pistacchio deve essere di Bronte, il limone di Sorrento, mentre per la vaniglia è di rigore il Madagascar. Sul cioccolato ci si sbizzarrisce: alcuni  si affidano all’esperienza centenaria del popolo fiammingo (“cioccolato belga”), altri pongono l’accento sull’esotica provenienza dell’arbusto (“cioccolato dell’Amazzonia”), altri ancora si tuffano in avventurosi viaggi nel tempo, alla ricerca di civiltà perdute (“cioccolato Maya”).

Fa nulla che il cioccolato Maya abbia esattamente lo stesso gusto del cioccolato, e che lo stesso valga per tutti gli altri gusti. Tale è stato il bombardamento quotidiano operato dai guru del marketing che da qualche anno - grosso modo da Expo in poi - il cibo è stato trasformato in una merce dove la differenza la fa soltanto l’etichetta.

Provate a rapire un avventore di una gelateria fighetta del centro e, dopo averlo bendato, portatelo in una delle ultime oasi che ancora, in periferia, si oppongono alla brandizzazione del gelato: vedrete che non sarà in grado di cogliere la minima differenza.  Ma se ripetete l’esperimento senza bendarlo, ecco che il poveretto, ridotto dal marketing alla semi-infermità mentale, inizierà a sbraitare – “esigo che il pistacchio sia di Bronte!” - e ad accusare i presenti di essere nemici giurati del “made in Italy”.

E non è finita, perché esiste perfino un livello superiore. Sono quelle  gelaterie che, navigando oltre la stratosfera di ogni buon senso, propongono gusti tipo “Inno di Mango”, “Brivido di Frutti di Bosco”, “Oro Nero” (che è di nuovo semplice cioccolato). In un mondo normale la gente chiamerebbe un’ambulanza e i titolari sarebbero costretti in camicie di forza; ma nel mondo del marketing, la gente fa la fila fuori, sgomita per pagare cinque euro per uno scaracchio di gelato in un bicchierino da caffè.

Chissà come questa recita ridicola che ci ha privato per sempre del diritto alla normalità - obbligandoci a una vita costantemente sopra le righe - debba apparire ai bambini di oggi.

Chissà se anche loro ordinano un “Delizia di Maracuja” con “Ricotta con gocce dorate” solo per postarne la foto su Instagram o se invece – almeno loro - sono riusciti a conservare un brandello di umanità.

Chissà se – almeno loro – riescono ancora ad essere felici con un semplice cono limone e fragola, in un pomeriggio d’estate.

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