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Milano
Il Governo e la prescrizione: note sulla giustizia mai riformata (davvero)

Di Guido Camera, avvocato per Affaritaliani.it Milano
E’ stato praticamente un plebiscito in favore del Governo Conte bis, per quanto ora si colori di giallorosso, lasciandosi alle spalle il gialloverde che fino al mese scorso lo tingeva. L’esito della consultazione sulla piattaforma Rousseau, infatti, non lascia spazio ad altri commenti, visto che per il “sì” ha votato il 79,3% degli iscritti al Movimento 5 Stelle. 

Il cammino parlamentare verso la fiducia al Governo Conte bis, a questo punto, dovrebbe essere breve e privo di ostacoli, salvo colpi di scena ad oggi veramente impensabili. Anche se il torrido agosto appena concluso dovrebbe averci insegnato che in politica le certezze non esistono. Dunque, pronti al via: giusto il tempo di limare la squadra di Governo, e nel giro di qualche giorno inizierà una nuova pagina della (ancor giovane) legislatura.Per capire i termini dell’azione politica del Governo, al momento, però, c’è solo il programma che è stato diffuso nella giornata di ieri: per chi come me è avvocato (e non solo per noi, perché il tema interessa, o dovrebbe interessare, all’intero Paese), il punto numero 12 dedicato alla Giustizia è quello nodale. E’ proprio un punto, nel senso che è talmente stringato da poter essere copincollato senza annoiare: “Occorre ridurre drasticamente i tempi della giustizia civile, penale e tributaria, e riformare il metodo di elezione del Consiglio superiore della Magistratura”.

Si tratta di un proclama che può essere interpretato in molti modi, tra loro diametralmente opposti: come si pensa di intervenire per ridurre i tempi della giustizia penale? Se la soluzione è sospendere il corso della prescrizione di un reato dopo la sentenza di condanna di primo grado, cioè la modifica fortemente voluta dal Ministro Bonafede all’interno della Legge Anticorruzione – che sarà efficace a partire dal mese di gennaio – partiamo molto male. Pensare di risolvere così i problemi della giustizia penale dimostra che non si conoscono le statistiche ufficiali e le leggi vigenti.

I dati diffusi dal Ministero della Giustizia rispetto al 2015, infatti, dimostrano che la prescrizione ha riguardato solamente il 4% dei procedimenti penali. Per abbattere questo dato (di per sé già confortante), è stata poi introdotto, con la legge Orlando della scorsa legislatura, un blocco della prescrizione di 18 mesi dopo ogni sentenza di condanna. Chi conosce il sistema giudiziario, peraltro, sa bene che i reati che si prescrivono non sono quelli più gravi, che già oggi nella maggior parte dei casi sono praticamente imprescrittibili (l’omicidio è imprescrittibile, i reati sessuali arrivano a prescriversi in oltre 40 anni, i reati associativi in materia di criminalità organizzata, stupefacenti e terrorismo in oltre 30 anni, quelli di corruzione in poco meno di 20), ma quelli di minore allarme sociale (legati a banali conflittualità molto frequenti nella vita quotidiana, ma prive di reale disvalore criminale), che non sono una priorità per la magistratura penale (anche a ragione, talvolta), che li lascia spesso prescrivere relegandoli nel limbo delle indagini preliminari (cioè all’interno di un armadio sito in un ufficio della Procura) per diversi anni senza svolgere alcuna attività investigativa. Il congelamento della prescrizione, di conseguenza, non avrà alcun effetto concreto sulla punibilità dei reati più gravi, ma, nel contempo, non contribuirà a snellire i numerosi carichi giudiziari, che tolgono alla magistratura tempo e forze per dedicarsi all’accertamento dei reati più gravi.

Dunque, uno dei primi provvedimenti che deve adottare il nuovo Governo, se veramente ha a cuore gli interessi del sistema giudiziario, è abrogare la norma che introduce il congelamento della prescrizione, prima che diventi efficace con l’inizio del nuovo anno.

Se, al contrario, il metodo di intervenire per la riduzione dei tempi della giustizia è quello di incentivare il ricorso a forme alternative al processo penale – in cui la valorizzazione della rieducazione anche attraverso la mediazione con la vittima rivestano un ruolo centrale – allora si imbocca la strada giusta, perché si responsabilizza il diretto interessato diminuendo la necessità di celebrare un processo, che impegna risorse umane ed economiche dello Stato: però è un cambio culturale radicale, rispetto al recente passato, il cui logico corollario è quello di intervenire anche sull’ordinamento penitenziario eliminando ogni forma di automatismo che precluda al giudice la possibilità di premiare l’effettiva resipiscenza del condannato (sono molti quelli introdotti nella vigente legislatura, purtroppo) così precludendo al reo, ingiustamente, benefici penitenziari e aumentando il rischio di recidiva che, come dimostrano studi criminologici, deriva da una pena priva di alcuna componente rieducativa. Ma di questo approccio, purtroppo, non sembra esserci traccia nel programma di Governo.Non è tutto.

Il programma prevede anche la riforma del metodo di elezione del Consiglio Superiore della Magistratura. Di più non si dice, ma soprattutto l’approccio al problema delle nomine dei vertici delle Procure più importanti (spesso effettuate secondo logiche spartitorie tra le diverse correnti dell’Associazione Nazionale Magistrati impensabili per la maggior parte dei non addetti ai lavori) non può essere ridotto a uno slogan: non dimentichiamo che le Procure, nella vita del Paese, spesso contano più dei Ministri e dei Capi di Stato, visto l’effetto destabilizzante sulle istituzioni che può avere un avviso di garanzia, oppure la decisione di perseguire certi reati piuttosto di altri. Il tema, agli occhi dell’opinione pubblica, è emerso in risalto pochi mesi fa, con l’inchiesta della Procura di Perugia che ha fatto tremare il CSM, ma è un problema che, per chi si occupa abitualmente di Giustizia, è noto da tempo. Io credo che la ricetta per risolvere i problemi non sia, in prima battuta, quella di modificare il metodo di elezione del CSM: prima, infatti, bisogna intervenire alla fonte, rendendo il potere giudiziario realmente indipendente da quello politico.

Come si può fare? Prima di tutto diminuendo il numero dei magistrati che svolgono funzioni amministrative nei ministeri (oltre duecento), e poi separando le carriere dei pubblici ministeri da quelli dei giudici, in modo che l’imparzialità e l’indipendenza di questi ultimi non possa essere minata dal sospetto che certe sentenze possano essere influenzate da logiche politiche o di corrente all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati.

Senza separazione delle carriere, infatti, il CSM (da cui dipendono promozioni, trasferimenti e procedimenti disciplinari) rimarrà unico per tutti i magistrati, indifferentemente dalla funzione - giudicante o inquirente – esercitata. Che non sia questo il modo migliore di dare attuazione alla Costituzione, lo ha detto anche un magistrato come Giovanni Falcone, esattamente 30 anni fa: “Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriere dei magistrati del pubblico ministero non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice”. Buon lavoro al Governo Conte Bis. E buona fortuna.

Guido CameraAvvocato

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