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Milano
Il (non) senso di Zinga per Milano: fuori dal giro che conta

di MaTS

Un sabato in cui Milano era centro d’Europa. Sicuramente era centro della politica italiana: il 18 maggio.

Bisogna dirlo, a parte Marin Le Pen, i sovranisti chiamati a raccolta dal ministro dell’Interno Matteo Salvini erano la serie D della politica nazionalista europea: nomi per lo più sconosciuti, in una piazza che non ha registrato il pienone sperato.

Qualche ora prima però a dettare l’agenda della giornata politica c’era l’assemblea nazionale di Confagricoltura a Palazzo Mezzanotte. I due vicepremier, Salvini e Di Maio, non si sono (volutamente, forse) incrociati: l’auto del secondo arrivato ha stazionato per qualche minuto davanti al palazzo in attesa dell’uscita dell’altro (raccontano alcuni testimoni) proprio per evitare un incontro non desiderato. Tuttavia i Dioscuri della politica italiana si mandano a distanza qualche frecciata, accompagnandola - per dare un colpo al cerchio e uno alla botte - da messaggi distensivi: “Ci vuole una pace politica”, dice il pentastellato; mentre Salvini si descrive come un “marito” che attende che passi l’arrabbiatura alla moglie. Non stiamo parlando di politica vera, quella fatta di numeri e leggi, piuttosto di battibecchi mediatici che servono a tenere alta l’attenzione mediatica in vista delle Europee di domenica. Tuttavia sabato 18 maggio la politica italiana era tutta qui a Milano, nella sede della Borsa italiana. Silvio Berlusconi, impossibilitato a partecipare per questioni di salute che non sono ormai più un mistero, ha comunque inviato all’assemblea dei grossi produttori agricoli un messaggio accorato, cercando di convincerli a votarlo, se non altro per la comune storia imprenditoriale. Giorgia Meloni, annunciata fino all’ultimo minuto, ha dato forfait ma si è fermata in autostrada a registrare un videomessaggio, pur di fare in modo che il suo volto parlasse direttamente a quella platea, che muove oltre il 15% del Pil italiano.

La scelta del Partito Democratico, invece è stata diversa. Quello che rimane, o dovrebbe essere, il principale partito di opposizione italiana viene invitato nel suo massimo rappresentante, il segretario Nicola Zingaretti, che però non partecipa. La dirigenza decide invece di inviare Paola De Micheli, vicesegretaria e imprenditrice agricola. Una scelta per competenza ma che equivale di fatto ad un abbandono del campo di gioco. Quando De Micheli arriva e si inserisce nella “tonnara” dei cronisti, è talmente consapevole di valere, in quel contesto, come il due di coppe quando la briscola è bastoni, che la prende con ironia: “Qualcuno si chiede ‘chi è questa qui?’”, ride, parlando con i cameramen. Per lei non ci sono domande, il rito dei 15 secondi per i tg viene officiato in fretta. Se andrà in onda poi, chissà.

Zingaretti nel frattempo è impegnato in un altro appuntamento elettorale nella provincia emiliana e da così lontano le sue dichiarazioni contro la piazza sovranista di Salvini risuonano come l’eco lontana e debole della voce del grillo parlante.

Nel frattempo un rappresentante solo del Pd decide di buttarsi nella fossa del leone, comprendendo - come avrebbe dovuto essere evidente a tutti - che la notizia quel giorno è a Milano e che, banalmente, se vuoi esistere devi parlare da lì: Carlo Calenda dà appuntamento ai giornalisti in via Torino, ad un tiro di schioppo dalle transenne di piazza Duomo. E’ l’unico modo per farsi sentire almeno dalla comunicazione, per far sì che nei pezzi dei giornali l’indomani non campeggi soltanto la Lega. E’ un tentativo debole ma apprezzabile e anche, per certi versi, riuscito.

Peccato che nella fossa dei leoni avrebbe dovuto andarci lui, il segretario. Responsabile del partito, responsabile dell’opposizione, responsabile di quel risultato alle elezioni europee che appare tutto in salita.

Zingaretti invece a Milano il 18 maggio decide di non esserci. Da questa piazza così particolare il numero uno Dem non si fa scaldare e non scalda. Appena due giorni prima il presidente della Regione Lazio si era fatto vedere per un appuntamento elettorale nella sede Acli di via della Signora. Ad una platea di un centinaio di iscritti e simpatizzanti (voti sicuri), un discorso lungo circa 40 minuti, però non riesce a strappare un applauso se non quello di circostanza della conclusione. Persino il non retoricamente brillantissimo Enrico Letta - tornato ‘a casa’ Pd - si fa interrompere almeno tre o quattro volte, con una battuta che spezza il ritmo. Il discorso del segretario è invece monocorde, monocolore, in una parola monotono.

Al termine la sala si svuota in men che non si dica. Quello che è mancato non è solo il feeling con la platea ma anche quello con il suo principale uomo a Milano, ovvero Pierfrancesco Majorino. L’assessore alle politiche sociali, nell’occasione, fatica a tirare fuori la sua solita e raffinata arte oratoria. C’è la stanchezza dell’ultima settimana di campagna, sicuramente, ma anche la difficoltà di trovare in quel contesto gli argomenti forti di cui di solito è capace.

Con gli appuntamenti elettorali fissati quasi sempre dopo le 21, e quasi sempre concepiti come un manifesto ad un’assemblea di partito, la strategia comunicativa del segretario dem, almeno nella Milano abituata agli eventi “smart”, sembra davvero difficile da comprendere.

Il lavoro più complicato sembra essere invece proprio quello di Majorino, uomo di Zinga a Milano. Il personaggio è forte e alle spalle ha una rete fitta, consolidata in anni di esperienza politica, ma non beneficerà della posizione favorevole in lista come l’ex sindaco Giuliano Pisapia. E anche se contano le preferenze, la questione non è poi così secondaria. La forza di Majo sta nei suoi anni governo e di lotta a Palazzo Marino e nella sua capacità di unire. Quello che è mancato, forse, fino a questo momento, è ancora una volta l’appoggio da Roma. Che forse non ha ancora realizzato quanto la maggioranza dem dentro la cerchia dei bastioni non sia affatto scontata, se non altro perché fuori l’assedio dei leghisti è già cominciato da un pezzo.

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