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Milano
Ladies with the lamp, ecco le immagini dal fronte del coronavirus

di Alessia Casiraghi

Indossano mascherine al posto di elmetti, le tracce di una battaglia si rivelano sul volto attraverso segni appena sotto gli zigomi, sulla fronte, attorno agli occhi. Segni che abbiamo imparato a conoscere per la prima volta grazie alla foto pubblicata su Instagram da Alessia Bonari, l’infermiera che lo scorso 9 marzo – quando ancora c’era chi affollava le piste da sci -si è scattata un selfie alla fine di un turno in un reparto Covid-19. La sua foto ha fatto il giro del mondo, insieme a quella di Elena Pagliarini, che sfinita, dopo 10 ore in reparto, si era addormentata appoggiata a una scrivania, con ancora indosso la tuta protettiva e la mascherina.

E se ieri l’Associated Press ha pubblicato una galleria di scatti che ritraggono volti di infermiere e infermieri immortalati a fine turno negli ospedali di Bergamo e Brescia, in quasi 10.000 hanno risposto all’appello del Protezione Civile per partire per quegli stessi ospedali, la linea di fuoco della battaglia al Covid-19 oggi in Italia. Una call for action senza precedenti nella storia recente, ma che ci spinge necessariamente a fare un salto indietro nel passato per scoprire che è proprio così che è nata la professione stessa di infermiere. O sarebbe più corretto dire di ‘infermiera’. Ovvero tramite l’arruolamento volontario di decine, e poi centinaia, di donne che decisero liberamente di abbandonare le proprie case e partire per il fronte.

1854, Guerra di Crimea. Florence Nightingale, figlia di una famiglia dell’élite britannica, parte per Scutari, un piccolo sobborgo di Istanbul duramente colpito dal conflitto. Con lei ci sono 38 giovani donne, da lei istruite per offrire un primo soccorso ai feriti di guerra. Per la prima volta nella storia, le donne, su base volontaria, vengono ammesse nella Croce Rossa e possono svolgere la professione di infermiere, prima appannaggio unicamente di uomini laici e donne appartenenti al corpo ecclesiastico. 

Italia, 1912. Si chiama Sita Camperio Mayer la donna che per prima ha dato vita in Italia a un ambulanza-scuola per infermiere, a Milano. Colta, sposata ma senza figli, la Mayer prese ispirazione dai racconti e dagli scatti del fratello, ufficiale in Manciura, che per primo aveva visto le donne all’opera al fronte di guerra. Nel 1912 Sita e il suo corpo di infermiere partono sulla nave-ospedale Menfi diretta in Libia, per prestare soccorso ai soldati italiani impegnati nella Guerra Italo-Turca. Qualche anno più tardi, nel 1917, andrà in prima linea su uno dei fronti più caldi della Prima Guerra Mondiale, quello dell’Isonzo, documentando nel suo diario ‘Luci e ombre di eroi’ i giorni cruciali della disfatta di Caporetto. Rileggere quelle pagine oggi sembra più attuale che mai.

Che cosa significava esattamente essere un’infermiera all’epoca? Potremmo sintetizzarlo nell’appellativo che venne affibbiato alla Nightingale in un articolo del Times: ‘The lady with the lamp’.  Significava portare luce, quando ormai l’intervento dei medici era finito. Significava prendersi cura dei pazienti, di quei soldati che feriti – spesso avevano perso gambe o braccia – si ritrovavano soli, di fianco ad altre decine di letti di uomini soli. Proprio come accade oggi a chi viene attaccato a un respiratore o, nei casi peggiori, finisce intubato in un reparto di terapia intensiva. 

Significava mettersi in contatto con le famiglie di quegli uomini, distanti centinaia di chilometri da casa, per dare loro notizie, spedire o ricevere lettere e fotografie che avevano il sapore di casa. Proprio come quella lettera d’amore e quelle foto di gioventù che un’anziana signora ha inviato, qualche giorno fa, al marito ricoverato all’ospedale di Piacenza. Un ultimo, di straziante bellezza, gesto d’amore. 

Significa esserci, dentro il dolore e dentro la speranza di ogni singolo paziente sdraiato in un letto anonimo, che non sappiamo se qualche ora dopo sarà destinato a qualcun altro. Significa ricordarsi il nome di ciascuno, chiamarli per nome e, per i più fortunati, dare loro la possibilità di fare una videochiamata a casa, forse l’ultima. Significa creare un ponte tra il dentro e il fuori, tra un modo immobile e silenzioso che attende di conoscere, e un ‘formicaio’ brulicante dove vita e morte si sfiorano e intrecciano di continuo, tra le pareti di un reparto.

Significa essere al fronte. E poco importa se in seconda linea, quella che viene dopo medici, rianimatori, intensivisti. Come quelle donne, angeli custodi inconsapevoli, che hanno offerto il loro ultimo sguardo a tanti uomini, morti lontano dal rumore del mondo.

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