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Milano
USA e CINA: vera guerra commerciale o aggiustamenti a valore aggiunto?
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USA e CINA: vera guerra commerciale o aggiustamenti a valore aggiunto?

di Danilo Broggi

La decisione di Trump di mettere Huawei in black list e la conseguente decisione di Google di sospendere la licenza Android, richiede una lettura più ampia e articolata delle questioni di natura geopolitica e di natura economica che legano i due paesi. Ai giganti americani, più conosciuti dalle nostre parti, quali Facebook, Amazon, Google, Apple, Microsoft i cinesi contrappongo Alibaba, Tencent, Baidu, Xiaomi, Huawei che investono in ricerca e in acquisizioni di start up, decine di miliardi di dollari anche investendo massicciamente fuori dal loro paese come dimostrano i due centri di ricerca impiantati in Italia, il più importante dei quali proprio a Milano. In zona Lorenteggio sorge infatti il nuovo “Innovation, experience and competence center (Iecc)”, quartier generale italiano in cui si sperimentano e mettono in mostra le soluzioni pensate per le smart city del futuro. Dopo aver aperto il primo ufficio proprio qui nel 2004 con 10 persone, ora in Italia i dipendenti sono circa 850 e i nuovi uffici milanesi sono a disposizione di aziende e operatori di scala nazionale interessati alle ultime novità nell’Ict. Milano, non scelta a caso, è per il gigante Huawei la combinazione perfetta tra new-economy, high-tech, fashion, design e manifattura 4.0; cuore dell’Europa che guarda al 5G per diventare un esempio di Smart City all’avanguardia nel mondo.

Una “sfida globale” che ha un fronte quindi anche in Lombardia e la cui eco degli “attacchi” da parte dell’Amministrazione Trump e in seguito del gigante statunitense Google, ha occupato le prime pagine dei media locali e nazionali. In premessa permettetemi di ricordare che proprio Google è stata messa sul banco degli imputati da una ricerca dell’anno scorso guidata dal professor Douglas C. Schmidt, titolare della cattedra di Computer Science presso la Vanderbilt University in Tennessee, che ha analizzato la catalogazione della quantità di dati che Google raccoglie sui consumatori e le loro abitudini più personali. Non solo emerge che i dati raccolti sono molti di più che quelli che l’ignaro utente possa pensare ma che un telefono Android dormiente, con Chrome attivo in background, ha comunicato informazioni sulla localizzazione della persona a Google 340 volte nell’arco di 24 ore, con una media di 14 dati all’ora e che le informazioni sulla posizione costituivano il 35% di tutti i campioni di dati inviati a Google. Ovviamente Google ha risposto sostenendo che le informazioni contenute nello studio erano fuorvianti (The Washington Post 21 Agosto 2018). E come se non bastasse, di recente l’Annenberg School for Communication dell’Università di Pennsylvania ha scoperto, monitorando un milione di siti web, che quasi 9 su 10 fanno trapelare dati utente a vantaggio di qualcuno; più di 6 siti su 10 diffondono cookies non loro e più di 8 su 10 caricano codice Javascript per conto di terzi, nella maggior parte dei casi senza alcuna consapevolezza dell’ignaro utente. Peraltro nessuno, che io sappia sino a oggi, ha potuto dimostrare (e molti ci hanno provato anche con sponde tra Paesi come in UK) la presenza di “back-door” nei dispositivi Huawei. Ma lasciando da parte il tema di chi vuole più infiltrarsi nella vita delle persone, di cui ho già scritto, e la cui sintesi è ben rappresentata da quanto Scott McNealy, co-fondatore e Chairman di Sun Microsystem disse ben 20 anni fa: “You have zero privacy anyway. Get over it”, vorrei concentrare la vostra attenzione sul grado di interdipendenza e sulla vera “battaglia” in atto tra le due potenze. Le due economie - americana e cinese - sono estremamente correlate, più di quanto si pensi. Non solo per la quota (5% circa) del debito pubblico americano in pancia al Celeste Impero che però al momento non ha interesse a “monetizzare” per mantenere la stabilità valutaria ma soprattutto per le interdipendenze di tipo industriale, una per tutti, i metalli strategici e le cosiddette terre rare.

L’Indio (In), ad esempio, un elemento presente in natura in piccolissime quantità, è indispensabile per la produzione di schermi ad alta definizione e touch-screen. Secondo i dati del US Geological Survey (USGS), gli Stati Uniti dipendono dalle importazioni di 64 metalli strategici e minerali, in quantità tale da soddisfare più del 25% della domanda statunitense a partire dal 2017. Dei 64, circa 35 sono per lo più importati dalla Cina. Questo è il motivo per il quale tre senatori americani J. Manchin, S. M. Capito e L. Murkowski hanno reintrodotto il “Rare Earth Element Advanced Coal Technologies Act” il 5 aprile scorso (il disegno di legge non era stato approvato in una precedente sessione del Congresso) con lo scopo di fornire finanziamenti federali allo sviluppo di nuove tecnologie statunitensi per estrarre le “terre rare” dai sottoprodotti del carbone. Altro tema caldo è il 5G. Huawei detiene una parte non indifferente dei brevetti utili a far funzionare il 5G che inevitabilmente e indiscutibilmente sarà la rete di connettività del prossimo futuro, non solo per le smart city ma più semplicemente per permetterci di scaricare sempre più video ma anche di controllare veicoli “driver-less” e dispositivi robotizzati a distanza. Tema rilevante sia per lo sviluppo applicativo delle tante innovazioni industriali in atto e sia, ovviamente, per la sicurezza nazionale. A questo si aggiunge la competizione sull’Intelligenza Artificiale (IA) dove Trump nello scorso febbraio ha firmato un “Executive Order” (“American AI Initiative: on Maintaining American Leadership in Artificial Intelligence) con il quale ha fornito linee di indirizzo che determinano come “prioritari” gli investimenti in applicazioni di IA da parte delle Agenzie federali. La Cina, dal canto suo, con il progetto “Made in China 2025” (2015) con l’aggiunta del “Piano di sviluppo per una nuova generazione d’intelligenza artificiale” del 2017 ha chiaramente definito lo sviluppo dell’IA come una priorità strategica, stanziando a questo fine miliardi di dollari a favore delle imprese e dei laboratori di ricerca cinesi (parchi); nel 2017, il 48% degli investimenti di Venture Capital globali in IA erano cinesi e le start-up cinesi hanno raccolto $ 4.9 miliardi nel 2017, mentre le loro controparti statunitensi hanno raccolto “solo” $ 4,4 miliardi.

La Cina ha smesso da molto di copiare: 8 milioni di laureati ogni anno (il doppio degli americani), il paese con il maggior numero incrementale di brevetti presentati (+21,5% dato 2016), grandi risorse finanziarie investite in avanzamento tecnologico ed in particolare sulla Intelligenza Artificiale (sono leader nei sistemi di riconoscimento facciale), il primo satellite quantistico in orbita e l’allunaggio di una loro sonda sulla faccia scura della nostra Luna, sono solo alcuni degli elementi che possono darvi un’idea della reale capacità tecnologica cinese. Insomma, il progresso tecnologico cinese ha preso un abbrivio che non era stato previsto o ben calcolato; e questa spinta è in accelerazione. In buona sostanza nessuno dei due ha un reale interesse in una guerra commerciale che porterebbe a vittorie di Pirro e a risultati a somma zero; alle questioni politiche interne americane care a Trump (American First) si contrappone, come qualche osservatore ha commentato, l’esigenza del Governo Cinese di un “refresh” dell’economia interna che succhia molti soldi alla banca centrale cinese (Pboc) che per sorreggere quella parte (in crescita) dell’industria cinese in grande e/o grandissima difficoltà; solo fra gennaio e marzo di quest’anno, ha iniettato nel sistema oltre un trilione di dollari di nuovi prestiti. Rimane in concreto fra le due potenze la corsa e la lotta al primato della tecnologia legata all’IA (e relativi corredi) che disegnerà il futuro del nostro pianeta. Come spesso accade la realtà non è quella che appare.

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