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Politica
11 giugno, il voto amministrativo messaggio politico. Per Renzi ultimo treno?

Dopo che i franchi tiratori e i malpancisti hanno fatto saltare alla Camera la nuova legge elettorale “alla tedesca” stoppando così le elezioni anticipate e lo sbocco del governissimo a trazione Pd-Forza Italia sarà il voto dell’11 giugno a chiudere definitivamente la partita o a riaprire i giochi. La manovra ispirata dai soliti noti “burattinai” (in primis Napolitano, Prodi e l’allegra brigata degli ulivisti in servizio permanente collegati trasversalmente con il “partito del non voto”) ha fatto scattare la trappola dove a perdere molte penne è stato per primo il sempre troppo sicuro Matteo Renzi ma dove anche Silvio Berlusconi da una parte e Beppe Grillo dall’altra ne sono usciti, pur se in modo diverso, per lo meno ammaccati.

Più che una tragedia, la riproposizione della stantia farsa all’italiana, con il gioco dell’oca che riparte subito da dove sembrava essere definitivamente terminato. Così le elezioni dell’11 giugno considerate prima solo un passaggio “amministrativo” assumono una valenza politica nazionale e i 9 milioni di votanti diventano l’iceberg dell’intero corpo elettorale, l’avanguardia che, ben più dei sondaggi, fa capire realmente l’aria che tira. A Renzi serve almeno una tenuta del Pd e contestualmente uno stop all’espansione del M5S. La perdita di Genova e lo smottamento elettorale in altri comuni significativi sarebbe una iattura per il segretario del pidì, costretto a quel punto al ridimensionamento e al ripensamento della sua strategia da “ corsaro”.

Così come una emorragia di voti indurrebbe Grillo, ob torto collo, a rimettere cerotti al “tedeschellum”, riaprire il dialogo con gli altri partiti bruscamente interrotto, ridando fiato e speranze allo stesso Renzi che potrebbe così rimodellare nella facciata la legge elettorale appena bocciata, e tentare l’ultima sfida con chi già ricarica le trappole. Non gode neppure Berlusconi appostato lungo la sponda del fiume, pronto alla festa anche per un voto in più del centrodestra e al pianto del coccodrillo per il funerale di qualche suo nemico, ma già di nuovo sotto tiro per la storiaccia di Graviano che attribuisce al rais di Arcore il ruolo di mandante delle stragi mafiose. Una scheggia (pilotata?) capace di infilarsi nelle deboli fondamenta della abbozzata alleanza post elettorale Renzi-Berlusconi, facendola abortire prima di nascere.

Qui siamo. Insomma, il voto dell’11 giugno può essere per Renzi l’ultimo treno. In caso di debacle del Pd si entra nel “vuoto”, con un Parlamento “fuori servizio”, con un governo Gentiloni in letargo anticipato, con un Pd smarrito e in cerca d’autore, idem il centrodestra, con il M5S a soffiare sul moncone della candela-Italia, in via di spegnimento. Nessuna via d’uscita? La via d’uscita sta nel realismo politico e nella mediazione politica, rigenerandone contenuti, alleanze, leadership. Non c’è alternativa fra immobilismo e compromesso, fra riformismo e inciucio? Aldo Moro escogitò le “convergenze parallele”, un ossimoro che nasceva dal timore delle difficoltà da affrontare perché fosse accettata la soluzione vera della crisi di allora, che dava anche la misura del tunnel in cui stavano precipitando il Paese e le istituzioni per l’incapacità dei partiti di governare il processo di trasformazione della società italiana. Salvaguardando la “tutela democristiana” Moro intendeva avviare la “rivoluzione” politica e sociale dell’Italia prima con il governo di centro-sinistra col Psi e poi, 10 anni dopo, con l’incompiuta del “compromesso storico” fra Dc e Pci: processi culturali e politici capaci di spezzare le resistenze del blocco conservatore anti democratico di destra e quello insofferente, parolaio e anti sistema fino all’aberrazione terroristica dell’estrema sinistra.

Quel tentativo di “rivoluzione italiana” che poi fu Berlinguer dopo la tragedia cilena del 1973 a proporre alla Dc con le “larghe intese” fallì con l’assassinio di Moro da parte delle Br. Anche allora furono elezioni regionali e amministrative – quelle del giugno 1975  con il Pci al 33,4% - che avviarono la svolta decretando la fine del centrosinistra (Dc-Psi e laici) e aprendo poi (elezioni politiche 1976 col Pci al 34,4%)  quel capitolo del nuovo rapporto fra Dc e Pci, la formazione del governo Andreotti della “non sfiducia”, “un esperimento politico – avvertì Moro – ad altissimo rischio” rivendicando la caratterizzazione della Dc e del Pci “come partiti idealmente alternativi”. Anche allora Moro e Berlinguer – dentro e fuori i rispettivi partiti – furono accusati di tradimento e di volere l’inciucio. Altri tempi, altri partiti, altre leadership. Oggi serve una alta mediazione politica alla luce del sole, basata su programmi di governo, facendo decidere prima possibile agli italiani, nelle urne. Ma con questi partiti e con queste leadership è possibile? La frittata si fa con le uova che passa il convento.

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