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Politica
Autonomia differenziata, così è un pasticcio: Italia spaccata e non efficiente

Autonomia differenziata, infiamma la protesta: la riforma è un pasticcio, e rischia di spaccare il Paese. Analisi

La protesta dei sindaci e degli amministratori locali avvenuta in questi giorni a Roma, capeggiata dal Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, apre ad una riflessione politica che non può non tenere conto degli aspetti costituzionali e del clima istituzionale che si sta vivendo. Sul primo piano, l’autonomia differenziata in quanto tale non è una novità: è da vent’anni che in base alla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, effettuata con la modifica del famoso Titolo V della Costituzione, spetta al potere centrale la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117).

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Quindi il punto non è la costituzionalità o meno della iniziativa politica del D.d.l. Calderoli (salvo quella sostanziale della legge ordinaria che potrebbe portare con sé illegittimità); bensì si tratta della credibilità del fatto che ad attuare la disposizione costituzionale di cui sopra sia un Governo nel quale la forza nata dal sentimento secessionista (che poi ha inteso sposare federalismo e iper-autonomismo) si intesti la paternità dell’opera così intascando in anticipo l’assegno politico di Giorgia Meloni che, da parte sua, in cambio attende la fiducia e il sostegno, senza condizioni, alla riforma sul Premierato. Ma cosa c’è di fondo? Che la Lega ha una strategia ben congegnata dalla sua nascita e si adatta ai cicli politici nonché alle finestre sfruttabili: una di queste è l’iniziativa politica sull’autonomia differenziata, costituzionalmente ammessa, per lanciare un messaggio chiaro al Paese (ma soprattutto al Meridione) ovvero che con i LEP si stabilisce un minimo comune denominatore, ma per tutto il resto ognuno faccia da sé se ha le capacità per farlo.

Qui c’è una falla argomentativa però. Perché questo disegno sta a tradire la prima parte della Costituzione; ed è il motivo principale per cui quel Titolo V è stato modificato malissimo. Creare la concorrenza tra Regioni rispetto a ciò che non è LEP sta a determinare un cambio di paradigma e di struttura repubblicana: da un regionalismo cooperativo si va verso un regionalismo competitivo. Non ci si fraintenda: se la cosa ha una base democraticamente accettata è un conto; diversamente si spacca il Paese. E spaccare il Paese su questo piano significa portarlo a consumarsi spiritualmente in termini di tenuta unitaria.

La ragione di ciò è che per affermare un sistema con regionalismo competitivo occorre che tutte le Regioni abbiano la stessa partenza (ad esempio risorse umane, economiche di territorio, infrastrutturali, ecc. in proporzione a densità, tradizioni, peculiarità, ecc.); solo a conclusione del periodo di competizione creare, così facendo, compensazioni materiali di spesa o di altro genere concordate dalla Conferenza Stato - Regioni (sempre a titolo di esempio). Tuttavia per affermare questo tipo di sistema c’è a monte un altro ragionamento da fare: generare un Repubblica federale che esprima la classe dirigente del potere centrale con forma a cancellierato (tipo alla tedesca) oppure a presidenzialismo puro che rispecchi le aree federate (all’americana in sostanza). Il che significa cambiare radicalmente la Costituzione anche perché il premierato non risponderebbe a tali esigenze (in quanto il presidente del consiglio avrebbe un mandato scorporato dai territori); inoltre la ripartizione dei seggi alla Camera dei Deputati, ad oggi, avvenendo su base nazionale e non regionale (nel caso qualcuno pensasse che cambiando la legge elettorale si fosse risolto il problema alla radice) contrasterebbe con tutta l’idea competitiva e di “rappresentanza invertita”.

È qui che subentra il fattore “clima istituzionale” perché se il quadro costituzionale è quello delineato, allora, l’autonomia differenziata (per come partorita dal D.d.l. Calderoli) diventa un palliativo ed al tempo stesso un cavallo di troia.

È un palliativo perché non risolve alcunché rispetto a quanto già oggi si fa e si continua a fare sul piano regionalistico atteso che i LEP sono, comunque, assicurati in via implicita essendoci la prima parte della Costituzione che obbliga lo Stato e gli Enti da esso dipendenti o con esso collaboranti ad assicurare i livelli essenziali di prestazioni in forza dell’art. 3 della Costituzione: parità ed eguaglianza. Anzi, prevedere con legge ordinaria LEP significherebbe marcare le distanze tra chi esplicitamente non ce la fa e chi invece può spendere senza pensare al domani grazie al virtuosismo economico territoriale. Da qui rivendicando anche il trattenimento fiscale. Pertanto, la protesta capeggiata da De Luca prende linfa (non si sa fino a che punto consapevolmente). Proprio da questa ultima evidenza. Ed è ciò che, sottotraccia, la Lega sperava di ottenere e che voleva da anni: un Meridione in subbuglio politico e disarcionato.

Chi ne paga le conseguenze sul piano politico oggi? Sicuramente Giorgia Meloni anzitutto: rischiando un ipotetico cul de sacc da parte di Salvini sull’accordo autonomia-premierato. Mentre De Luca tenta di accreditarsi come attivista anti Lega, Salvini tocca tutti i nervi scoperti del Paese. Ma con l’iper autonomismo non si potranno curare le ferite che si stanno aprendo. Eppure a quelle ben più grosse ci pensarono i Costituenti dopo anni bui. Unendo il Paese. Chissà che non serva recupere qualche verbale dell’Assemblea Costituente. Un suggerimento? Seduta del 24 luglio 1946.

* avvocato pugliese, ex vice Presidente coord. della Commissione Giustizia del Ministero dello Sviluppo Economico. Direttore del dipartimento di Studi politici, costituzionali e tributari della Federiciana Università per la quale è, altresì, docente nell’ambito del dipartimento Studi di criminologia finanziaria, vittimologia e sicurezza.






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