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Politica
Berlusconi, candidati di “qualità”. Riscossa del Centrodestra?

 

Il segnale di vitalità dato dal Pd con le primarie a Milano ha spinto il centrodestra ad uscire dal letargo in cui era sprofondato dopo la debacle delle elezioni europee del 2014 riagganciandosi al risultato delle regionali del 2015, base di ripartenza per Berlusconi&C in vista delle prossime elezioni comunali di primavera. Piccole cose, si dirà, di una politica nostrana dal fiato corto e di corta visione e di un Paese a volo radente in un mondo scosso da nuovi venti di crisi che spazzano via chi non sta al passo e non rinnova visioni, metodi e sostanza.

L’appuntamento elettorale di giugno ha un significato politico che travalica i confini dei singoli comuni, un passaggio dai risvolti nazionali, colto – al di là dei soliti tatticismi – da tutti i partiti e da tutti i leader, a cominciare da Matteo Renzi, la cui premiership apparentemente inattaccabile verrebbe scossa da un ko del Pd e dei suoi candidati, in primis a Roma e a Milano. Ciò vale anche per il M5S deciso ad issare il proprio vessillo sul Campidoglio e vale per il centrodestra, male in arnese, in cerca del “solito” colpo d’ala affidato al “solito” Berlusconi, per altro non nuovo ad acclamati “ritorni in campo” e a sonanti rivincite, come lo storico exploit alle politiche del maggio 2001. In condizioni molto diverse da 15 anni fa l’ex premier intende dimostrare che ha attraversato il deserto dell’opposizione e l’ottovolante  delle beghe personali con dignità e costrutto, che è fattibile la riedizione di una nuova Casa delle Libertà (Partito del Cav, Lega di Salvini, destra di Meloni ecc.), che lui e solo lui resta leader unico del campo moderato e dintorni in qualità di “special trainer” e che senza di lui il centrodestra non esiste.

Nel 1994, con la sua “discesa in campo”, Berlusconi fece saltare la “gioiosa macchina da guerra” post comunista di Achille Occhetto; nel 2001 riuscì a scalzare la “sinistra” (l’Ulivo depotenziato dall’irresponsabilità suicida di Bertinotti-Rifondazione) spinto da quell’Italia del voler “fare da sé” e dell’”ognuno per sé”: senza politica, senza Stato, senza regole. Il padre-padrone di quel che resta dell’armata azzurra, alquanto logorato, con poca autocritica e con nessun senso di colpa rispetto ai non esaltanti frutti del “berlusconismo”, rivendica il proprio passato ruolo di baluardo dell’anticomunismo riproponendosi oggi come argine contro il renzismo e il grillismo ben sapendo che c’è mezza Italia che non vuole né Renzi né Grillo. Proprio ieri l’ex premier ha tuonato contro il governo: “Siamo in una situazione di sospensione della democrazia. Il nostro popolo è la maggioranza del Paese e non può accettare una situazione in cui c’è il terzo governo non eletto ed è tenuto in piedi da 50 senatori che hanno tradito il voto degli elettori del centrodestra e che sono diventati il sostegno ineludibile dell’esecutivo. C’è un governo illegittimo e abusivo che si regge contro la volontà del popolo”.

Nel mirino c’è soprattutto Renzi, ieri partner stimato e affidabile fino al controverso Patto del Nazareno, oggi bollato dall’ex premier come “inadeguato e arrogante, un bluff che si sta sgonfiando da solo”.

Ad Arcore c’è la convinzione che chi ha da perdere alle urne è Renzi, non Berlusconi, che dà il benvenuto alle elezioni comunali considerate come test, un banco di prova per misurarsi e procedere al recupero degli astensionisti con un nuovo schieramento di centrodestra “plurale”, con innesti provenienti dalla galassia centrista (non scontata perché nella “terra di mezzo” si rivendica una orgogliosa autolesionistica autonomia: né con Renzi né con Grillo né col Cav”), sfidando alle prossime politiche sia Renzi (con il Pd sempre in balia del suo istinto fratricida) sia Grillo (con il M5S nella cappa dell’inquisizione interna, in preda a furori giustizialisti e con programmi di stampo leninista).

Per questo tentativo di rilancio Berlusconi si arma di tenacia e pazienza, con una marcia a zig-zag, non annuncia il “libro dei sogni”, non promette un “miracolo” ma lavora sulla “politica delle cose”, su candidati “del fare” scelti fuori dai partiti, punta sul “colpaccio” delle urne nelle grandi città in grado di lanciare un forte segnale politico e stordire gli avversari.

Prendere Palazzo Marino significa vittoria, prendere anche il Campidoglio significa trionfo: così si dimostra che la nuova coalizione unita e con i candidati giusti è vincente, che il partito renziano è un gigante dai piedi d’argilla, che il M5S grillino riempie i social network ma non le urne. Silvio illuso? Tant’è. Ogni città avrà un solo nuovo sindaco e stavolta o Renzi o Grillo o Berlusconi uscirà sconfitto. Per chi suona la campana?

In queste ore il progetto di Berlusconi prende forma partendo dai candidati per passare poi ai programmi e alle alleanze. Da Milano arriva la prima risposta con un candidato che rinvigorisce il disilluso popolo “moderato” e fa vacillare la baldanza del Pd. Il centrodestra del “tridente” (Berlusconi-Salvini-Meloni) si salda nella candidatura a sindaco di Stefano Parisi, considerato un asso in grado di giocarsela con il candidato del centrosinistra Giuseppe Sala, altrettanto valido ma non privo di debolezze, date le divergenze nel Pd e nella sinistra. Con Parisi in corsa l’obiettivo è Palazzo Marino ma si guarda – forse con eccessivo ottimismo - già oltre perché Milano diventi il primo passo di un lungo percorso fino alla capitale, il volano capace di mettere in moto un progetto politico nazionale alternativo al renzismo e al grillismo, aggregando – come già detto - al soggetto promotore di questo centrodestra la galassia dei moderati aperta anche alle aree riformiste, federaliste e liberal. Utopia? Forse, ma non è la prima volta che dalla Madunina parte un’idea che sfocia in progetto politico che poi diventa valido e vincente anche a livello nazionale. Rinfrancato da Milano, sulla stessa lunghezza d’onda, Berlusconi tenta il bis a Roma con l’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso – manager con luci e ombre alle prese con due processi - e anche in altre città si cercano nuovi nomi e nuove facce forzando le resistenze dei vecchi cacicchi e di vecchie e nuove consorterie per nulla decise a smobilitare. Insomma, nello stagno della politica italiana, qualcosa si muove, anche se le primarie del Pd spesso farlocche e senza regole, le decisioni del centrodestra prese a tre nel caminetto di Arcore e la scelta dei candidati fatta dai 4 gatti del M5S su internet,  dimostrano che la democrazia è solo apparente. La partecipazione democratica nel processo di selezione della classe dirigente resta un miraggio. Non ci si può poi lamentare se la gente diserta le urne e se la qualità della politica è quella che è. L’eccezione conferma la regola. Ma, si sa, una rondine non fa primavera.  

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