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Capitolo 9
Berlusconi, Renzi, e il bisogno di un'alternativa


Qual è stato il suo rapporto con la politica, prima che decidesse di viverla in prima persona?
In certe posizioni, penso per esempio alle Poste, interagire con la politica è stato parte essenziale del lavoro. In quel caso, soprattutto all'inizio, l'esperienza fu positiva e costruttiva. Purtroppo negli anni successivi le cose cambiarono, tanto che lasciai Poste nel 2002, una volta raggiunto il pareggio, proprio perché non mi trovavo più nella stessa sintonia con chi era al governo: avere a che fare con Gasparri al posto di Maccanico, e con Tremonti al posto di Ciampi, non era certo la stessa cosa.

Si trattava del secondo governo Berlusconi, il più durevole del Cavaliere. Lo aveva già conosciuto durante la battaglia di Segrate per il controllo della Mondadori. Ricorda la prima volta che vi siete parlati di persona?
Fu un incontro abbastanza surreale che mi colpì molto. Io lavoravo in Mondadori come direttore generale, lui, in
piena guerra legale per prendere il controllo del gruppo, soprattutto nelle fasi in cui sembrava poter vincere, iniziò a farsi vedere in azienda. Un giorno chiese di incontrarmi, mettendo in pratica le sue indubbie doti di motivatore. Mi offrì di passare nella sua squadra e mi parlò della grande visione che aveva per il futuro del nostro Paese. Oltre all'energia vitale che trasmetteva mi colpì molto una sua frase che ancora ricordo distintamente. Per convincermi che il suo progetto avrebbe prevalso, parlò con grande entusiasmo delle sue televisioni descrivendole come dei pacifici transatlantici che però, alla bisogna, sarebbero potute diventate delle potenti corazzate. Eravamo tra la fine del 1990 e l'inizio del '91, ben prima, cioè, della sua celebre discesa in campo.

Quale fu la sua impressione dell'uomo?

Potere, forza, disinvoltura: questo era ciò che comunicava. E una determinazione senza limiti che faceva quasi impressione. Trovavo condivisibili gli obiettivi di liberare le energie del nostro Paese, così come mi colpì il rancore sincero che mostrava per «i comunisti», sentimento che gli fu poi nel tempo contraccambiato da una larga parte della sinistra militante: odi reciproci che — non dimentichiamolo — hanno fatto perdere tanti anni preziosi all'Italia. Per il resto era una persona più che affabile, intelligente, brillante. Per gli italiani ha rappresentato a lungo il sogno da realizzare, anche se erano in pochi a sapere all'epoca che una motivazione
forte della sua discesa in campo era la difesa dei suoi interessi imprenditoriali.

Diceva che più volte Berlusconi le ha proposto di lavorare per lui. In quali occasioni?

Mi offrì la carica di ministro del Tesoro quando era presidente del Consiglio e doveva sostituire Tremonti nel 2004. Mí chiese di gestire altre grandi aziende pubbliche quando gli comunicai che intendevo lasciare le Poste; precedentemente, in altre occasioni, mi aveva proposto anche di dirigere le sue holding. Le ho sempre considerate offerte molto interessanti, ma la risposta è stata inevitabilmente negativa: da molti anni non ero più disponibile a lavorare in organizzazioni padronali, indipendentemente dalla posizione o dallo stipendio. E questo valeva per chiunque, non solo per Berlusconi. Altra cosa è stata dargli dei consigli, quando richiesti, o collaborare con lui quando era capo del governo su singole operazioni che ritenevo utili per il Paese.

Se avesse accettato di fare il ministro del Tesoro nel governo Berlusconi le cose per l'Italia sarebbero potute andare in un altro modo?

Sarebbero andate sicuramente in un altro modo, ma la storia, come sappiamo, non si fa con i «se». Ringraziai per la proposta, che sicuramente mi onorava, ma era impensabile per me lasciare incompiuto il progetto bancario a cui stavo lavorando all'epoca. Inoltre consideravo del tutto sbagliata la politica economica, incentrata su tagli degli investimenti e aumento della spesa pubblica e delle tasse, portata avanti sino a quel momento dal suo governo attraverso Tremonti; era chiaro che le divergenze sarebbero state inevitabili.

Lui come la prese?

Stiamo parlando di una persona abituata a vincere e a ottenere ciò che si prefissa, ma è anche un uomo di mondo e ha sempre reagito con grande stile. Ricordo che un giorno accompagnai Tremonti, che me lo aveva chiesto, a Palazzo Grazioli, a casa sua, per dargli una pessima notizia: la vecchia Alitalia — quella posseduta dal ministero dell'Economia e delle finanze — secondo me, non poteva che fallire. Tremonti, nella sua veste di ministro, mi aveva chiesto inizialmente di garantire un aumento di capitale per la compagnia di bandiera, ma dopo aver fatto le opportune verifiche, gli avevo detto che l'azienda era stata talmente malgestita e rovinata da sprechi e rapporti sindacali insensati che era inutile metterci soldi: doveva chiudere. Tremonti insistette parecchio per trovare altre soluzioni, anche perché Berlusconi si era molto esposto nel dire pubblicamente che avrebbe salvato l'Alitalia, dopo essersi peraltro opposto all'entrata di Air France. Quando mi trovai faccia a faccia con Berlusconi, gli dissi che il fallimento di Alitalia, secondo me non si poteva evitare, ma forse era possibile trovare qualcuno — italiano o straniero che rilevasse rotte e aerei per costruire una compagnia sostenibile, salvando almeno una parte dei lavoratori diretti e indiretti. Si decise di prendere la strada da me suggerita. Berlusconi mi accompagnò all'ascensore e salutandomi con calore mi confessò: «E poi, te lo devo proprio dire, nessuno mi ha detto tanti no come te».

Ci fu chi l'accusò di aver aiutato Berlusconi sia nell'operazione Alitalia, sia come capo di Banca Intesa, finanziando i cinquecento e oltre milioni di euro che nel 2013 lui fu condannato a risarcire a De Benedetti, dopo il ribaltamento della sentenza sulla Mondadori.

Distinguiamo i ruoli, perché altrimenti facciamo il tipico pasticcio all'italiana in cui si mischiano rapporti personali e istituzionali, valutazioni soggettive e fatti reali. Sul tema Mondadori, con Berlusconi ci eravamo trovati su fronti fieramente opposti e io certamente contribuii alla battaglia legale per far valere le ragioni della Cir. Ma quando Fininvest chiese una linea di credito per garan-, tire il pagamento della penale richiesta dal tribunale, la banca che dirigevo prese una decisione razionale e ben valutata che non doveva certo essere condizionata da posizioni personali. Per quanto riguarda Alitalia: anche se al Berlusconi politico che mi aveva fatto varie offerte avevo detto di no, al Berlusconi presidente del Consiglio che chiedeva un parere per salvare trentamila posti di
lavoro, tra azienda e indotto, non potevo che dare con convinzione la mia collaborazione.

Qual è il suo giudizio su Berlusconi capo del governo?

Gli anni Duemila, che sono stati sostanzialmente governati dal Popolo della Libertà e dalla Lega, sono stati purtroppo anni persi per il nostro Paese. La politica economica di Tremonti, come ho già detto, è stata completamente sbagliata e ha dato come risultato crescita economica nulla e grande aumento del debito pubblico. È stato un decennio in cui la fiducia nelle istituzioni è molto calata come pure la credibilità internazionale del nostro Paese. La nostra scuola ha perso terreno e la situazione della giustizia è diventata insostenibile. La sfida di un federalismo maturo è stata persa e l'organizzazione della nostra pubblica amministrazione è rimasta assediata da modelli di inefficienza e corruzione che non hanno permesso una crescita sana e neppure maggiore competitività e migliori servizi ai cittadini. In generale ritengo tra i maggiori errori di Berlusconi quello di non essersi dotato di una squadra di governo e di amministratori di qualità, rinunciando a quella rivoluzione liberale e popolare che aveva evocato nel '94, ma che non si è ancora realizzata.

Come sono oggi i suoi rapporti con Berlusconi?

Non lo sento dalla fine del 2011: all'inizio del mio incarico ministeriale ricordo telefonate di grande supporto da parte sua, ma poi si sono interrotte. Sicuramente non ha gradito che da ministro gli abbia bloccato l'approvazione di una legge proposta e sostenuta dal governo precedente, il suo, che concedeva alle televisioni private e pubbliche un certo numero di frequenze. L'ho fatto perché, anche se apparivano come televisive, in realtà si trattava di frequenze necessarie per il Gsm di prossima generazione, quindi rappresentavano potenzialmente miliardi di entrate per le casse dello Stato negli anni a venire. E io non consideravo accettabile, mentre si chiedevano sacrifici così forti agli italiani, contemporaneamente far perdere allo Stato opportunità di futuri introiti così significativi.

Parliamo invece dei suoi rapporti con Matteo Renzi. Vi conoscete personalmente?

Recentemente mi sono trovato a dire una cosa che, qualche anno fa, non avrei mai pensato di pronunciare: «Renzi è stato una vera delusione». Non era quello che pensavo nel 2010 dopo averlo incontrato nel suo studio di sindaco di Firenze per parlare di un'Italia che doveva tornare a essere dinamica e meritocratica.

Scattò il feeling tra voi?

Era chiaramente un politico puro e non aveva avuto alcuna esperienza fuori dalla dimensione locale, ma sembrava volersi circondare di persone capaci e pareva disponibile a ricevere consigli. E io ero sinceramente ottimista che volesse portare — prima di tutto nel suo partito — quel cambiamento di cui il nostro Paese ha un bisogno incredibile: competenza, innovazione, internazionalità. Giorno dopo giorno, nei due anni successivi, mi sono accorto che avevo preso un abbaglio, e che quelle che per me sono delle priorità, non lo erano per lui e che nemmeno lo interessavano così tanto. Renzi rappresenta una faccia giovane della vecchia politica: non ha visione di dove va il mondo e nemmeno il coraggio di affrontare sul serio e alla radice í problemi italiani. La sua è mera comunicazione, confonde il dire con il fare. In materia economica, in particolare, sta riproponendo la stessa ricetta che negli ultimi vent'anni ha portato alla rovina l'Italia.

Quale ricetta?

Se guardiamo agli obiettivi che questo governo si pone per il medio periodo, ritroviamo decine e decine di miliardi di pressione fiscale e di spesa pubblica in più, mentre gli investimenti continuano a calare: nel 2014 siamo ai livelli dell'anno 2000! Tutto questo in un periodo irripetibile per quanto riguarda tassi di interesse, cambi e costo dell'energia: una situazione in cui nessun governo precedente avrebbe osato sperare. In compenso sono
stati sprecati venti miliardi per i cosiddetti ottanta euro che, se concentrati sui veri poveri e sulle famiglie con figli, avrebbero potuto ridare speranza a milioni di italiani. Altri venti miliardi sono andati agli incentivi del Jobs Act, che non sono serviti a creare nuova occupazione: 120.000 nuovi posti di lavoro non sono nulla rispetto ai 10 milioni di italiani senza lavoro o senza un lavoro sufficiente. Queste mi sembrano operazioni meramente elettorali, per conquistare un po' di consenso a breve termine.

Renzi le ha mai chiesto di collaborare?

All'inizio ci sentivamo con una certa frequenza, poi chiaramente ci siamo ritrovati su posizioni diverse e i rapporti si sono interrotti. A giudicare dal livello di competenza di alcune delle persone di cui si circonda, il suo silenzio non mi stupisce: la meritocrazia non è evidentemente una sua priorità.

Lei vede in Renzi una politica di mera comunicazione, ma non pensa che oggi un politico debba anche saper comunicare?

Certamente, ma se la comunicazione e la ricerca del consenso immediato prevalgono sui contenuti e sulla serietà, alla fine chi paga sono i cittadini. Siamo in una fase di populismo esasperato che sta facendo perdere
anni preziosi e questo riguarda molti dei leader che dominano la scena politica in Italia. Evidentemente a Renzi non interessa mettere mano a quelle che sono le priorità del Paese: sicurezza e lavoro, in modo serio, con progetti di medio e lungo termine. Riforme come quella elettorale e del Senato, della Rai o della scuola, infatti, non solo non permettono all'Italia di entrare da protagonista nel XXI secolo, ma servono solo a concentrare un potere enorme in pochissime mani.

Per protestare contro la legge elettorale del governo Renzi, il cosiddetto Italicum, lei si è addirittura imbavagliato davanti a Montecitorio. Molti l'hanno trovata una mossa eccessiva e teatrale, non da lei. Se ne è mai pentito?
No. Dal febbraio 2014, con Italia Unica, ci battiamo contro una riforma del Senato che consideriamo sbagliata e molto pericolosa, soprattutto se abbinata con l'Italicum. Per molto tempo siamo stati i soli a denunciare questa situazione anche se oggi sono in tanti ad aver capito che avevamo ragione noi. Prima del voto su questa pessima legge ho voluto fare un ultimo disperato tentativo per attirare l'attenzione del Parlamento e dei media su una legge importantissima e sbagliatissima. Suonare l'inno nazionale e farsi fotografare con il bavaglio voleva essere una mossa teatrale e ha raggiunto il suo obiettivo. Se credo in qualcosa, vado fino in fondo.

Eppure molte personalità di rilievo nel mondo degli affari sostengono Renzi. Perché secondo lei?

De Benedetti, Marchionne e altri avranno le loro buone ragioni per sostenerlo, ma tanti italiani si trovano «costretti» a prendere le parti di Renzi e del suo partito per mancanza di alternative. Oggi l'offerta politica è fatta sostanzialmente dal Pd di Renzi e da due raggruppamenti «estremi»: i Cinque Stelle di Grillo e la Lega di Salvini. Non a caso il cinquanta per cento degli italiani alle regionali del maggio 2015 non è più nemmeno andato a votare. La nostra classe dirigente ha una grande responsabilità: non aver saputo costruire fino a oggi un'alternativa liberaldemocratica e popolare capace di modernizzare il Paese, ma sul serio.

Lei per chi ha votato in passato?

Per anni ho votato repubblicano, poi mi è capitato di votare scheda bianca per protesta. Alle ultime elezioni ho votato per Fare per Fermare il Declino: non mi riconoscevo nei partiti tradizionali e neanche in Scelta Civica di Monti..

Dice di voler aggregare, ma non lesina critiche a tutti i partiti che hanno governato l'Italia negli ultimi decenni.
Se vogliamo rimettere in moto l'Italia dobbiamo prenderci tutti le nostre responsabilità per non esserci finora
riusciti. Alle critiche però aggiungo un programma ambizioso intorno al quale ritrovarci partendo dai valori liberali e popolari e da proposte concrete in alternativa a quelle del Renzismo.

Che cosa intende nello specifico per valori liberali e popolari?

Intendo valori che sappiano combinare obiettivi di competitività — libertà d'impresa, prima di tutto — con obiettivi di coesione sociale: politiche per la famiglia, integrazione, assistenza ai più deboli, welfare, in una parola. Responsabilità personale e cultura della legalità sono valori di riferimento per la società a cui penso, società che si deve reggere su tre gambe di uguale importanza: il pubblico, il privato profit e il non profit. Questi tre mondi devono lavorare insieme e in questo senso va rafforzato il non profit perché è fondamentale per agire nel campo dei beni comuni: non solo lotta alla povertà ma anche, per esempio, istruzione, sanità e beni culturali.

Si propone quindi come alternativa politica per chi si riconosce in questi valori?

Mi ci sto impegnando. Chi oggi rifiuta la politica è un irresponsabile perché leggi ben fatte fanno la differenza, lo Stato ben gestito fa la differenza, il bene comune non è una teoria. Non è nemmeno pensabile che ogni Paese agisca solo per conto proprio, perché oggi contano soltanto le grandi aree economiche e politiche, quindi bisogna ragionare in termini di Europa per gestire la crisi e promuovere sviluppo. Va costruita una casa politica per i tanti italiani che credono nel merito e nella serietà, che rispettano lo Stato ma lo vogliono meno invadente, che chiedono più libertà d'impresa e la garanzia di una buona educazione scolastica. Forse non esiste una definizione per questo grande popolo: liberaldemocratici? Popolari? Moderati? A me piace più vederli come persone che lavorano, genitori o nonni preoccupati per il domani dei loro figli e nipoti. Io stesso ho deciso che dovevo fare qualcosa pensando soprattutto al futuro dei miei figli, che hanno rispettivamente ventinove, ventotto, cinque e quattro anni, ma anche della quinta, la più piccola, che non è ancora venuta al mondo.

Come pensa di riuscirci?

Una volta conclusa l'esperienza di governo con Monti con l'infelice epilogo di Scelta Civica, ho deciso di viaggiare per un anno attraverso l'Italia. Volevo capire se c'era lo spazio per creare quest'alternativa e quale programma rispondesse meglio alla visione che mi ero fatto del Paese. Ho tenuto centinaia di incontri nelle aziende, nelle università, nelle carceri, nelle cooperative e, ovunque andassi, la gente rispondeva con grande interesse alle mie proposte.

Che cosa pensa la classe dirigente economica di questo suo progetto? Si sarà confrontato con qualcuno, per esempio con Bazoli, con cui ha lavorato dieci anni.

Bazoli è per certi versi ammirato, per altri spaventato. «Certo che per fare una cosa del genere ci vuole tutto il tuo coraggio...» mi dice ogni volta che ne parliamo. Lo prendo come un complimento: sono abituato alle missioni considerate impossibili e chi ha lavorato con me sa che do il meglio proprio in questi frangenti. Molte delle persone importanti con cui mi sono confrontato pensano che il mio progetto sia troppo ambizioso per essere realizzabile, perché non ho dietro un partito già esistente e strutturato. Ma negli ultimi vent'anni questo Paese ha già ampiamente dimostrato di essere mobile e che si possono creare partiti o movimenti da zero, vedi la Lega o i Cinque Stelle. Anche Forza Italia era nuovo, ma indubbiamente lì Berlusconi ha potuto contare su una potenza di fuoco già esistente non indifferente. Certo in tutti questi casi c'è stato un lavoro di semina precedente molto lungo; noi, in un solo anno, abbiamo ottenuto risultati al di là delle nostre aspettative.

È così che nasce Italia Unica?

Nel febbraio del 2014, all'Aranciera di San Sisto a Roma ho detto che, forte dell'esperienza accumulata nel giro attraverso l'Italia, avrei aperto un cammino e un cantiere per fondare un movimento politico che rispondesse alle
esigenze che erano emerse. Ho messo nero su bianco le proposte per rilanciare l'Italia nel libro Io siamo. In pochi mesi abbiamo aperto più di centocinquanta «Porte», le nostre sedi territoriali, in tutte le regioni e praticamente in tutte le province; il 31 gennaio 2015 con i primi cinquemila iscritti abbiamo lanciato Italia Unica. A quel punto, per preparare gli appuntamenti politici del 2018, abbiamo ritenuto fondamentale investire nel radicamento sul territorio e sulle figure di quegli amministratori locali che condividono questa visione. Il modo migliore per dimostrare che stiamo facendo sul serio è proprio cominciare dalla politica più vicina alla gente, ovvero nei comuni, presentando nostri candidati e nostre proposte in tante città. E qual è il comune che oggi meglio rappresenta la voglia di rilancio e rinascita dell'Italia? Milano.

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