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Politica
Bersani e il M5S, la “questione grillina” spacca la sinistra harakiri

Di Massimo Falcioni

Il sasso nello stagno lanciato da Pierluigi Bersani per aprire una breccia nel rapporto della sinistra con il M5S appare come un atto masochistico o una furbata tattica. La seconda offerta di dialogo ai “pentastellati” (dopo il flop in diretta streaming del marzo 2013) ha già ricevuto il niet di Grillo&C e, in mancanza di una adeguata iniziativa politica, rischia di trasformarsi in boomerang personale per Bersani, per  “Articolo uno” (il nuovo movimento dei fuoriusciti dal Pd), per la sinistra tutta. Spingere al dialogo il M5S, partito dello squadrismo mediatico, che trova la sua forza e ragion d’essere nel farsi paladino “antisistema” chiuso al confronto, alle alleanze, ad accordi e mediazioni politiche, non è una questione di bon ton ma un atto di ingenuità tattica,  frutto di una analisi confusa sull’identità e sugli obiettivi strategici del movimento grillino. Definire poi il movimento grillino “forza di centro e argine alla deriva populista” induce all’abbaglio, come appare evidente dalla chiosa di Bersani: “Se vincono (i “5 stelle” ndr) e chiedono un incontro, io ci starei”. Realismo allarmante o autolesionistico atto di resa? “Pierluigi – ha commentato il sempreverde ex Pci Emanuele Macaluso – è una brava persona, un onesto militante della sinistra, ma l’analisi politica non è proprio il suo mestiere”. Già. Ma occorre andare oltre le apparenze, in questo caso, oltre le parole di una intervista. Dall’alto della sua esperienza di comunista emiliano pragmatico che “viene da lontano e va lontano” e non demorde, Bersani pensa di ripetere con Grillo la parabola del “figliol prodigo”. Ma Grillo, comico dall’ideologia bislacca e dalla linea politica inquietante (come l’idea del referendum sull’euro), populista a proprio uso e consumo e novello emulo di Lenin che con la ramazza pulisce il mondo dai capitalisti, ha un solo obiettivo: “Tutti a casa!”. Poco conta ricordare a Grillo che Lenin fu nemico dei “populisti” sprezzantemente definiti dei “soggettivisti” che costruiscono teorie astratte nelle quali la realtà è sostituita da idee consolatorie. E conta ancor meno ricordare a Bersani l’invettiva di Berlinguer contro populisti ed extraparlamentari (di sinistra e non): “Sciagurati con la loro strategia fatta di fumisterie, affetti da cretinismo antiparlamentare”. Bersani, quindi, con l’apertura-bis al M5S non c’azzecca ma ha il merito di richiamare alla realtà fatta dal peso elettorale dei singoli partiti, con i grillini oltre il 30% nei sondaggi, quindi davanti a tutti, candidati al governo del Paese. Al di là della questione di metodo c’è  un nodo di sostanza politica: lasciando inalterato il fossato che tiene relegato il M5S nel ghetto degli esclusi e delle forze antisistema, si dà a Grillo la garanzia per produrre consenso elettorale sgretolando gli avversari uno a uno come nella battaglia fra Orazi e Curiazi.

Aspettare inermi sulla riva del fiume in attesa del suo cadavere o – come fa Renzi - emularne i tratti populisti e demagogici, significa stendere un tappeto al Grillo “sultano”, lo sbocco del ko per il centrosinistra e per il centrodestra, un terremoto per le istituzioni, uno sconquasso per la democrazia. Il nodo resta.

C’è oggi in Italia una “questione grillina” da affrontare senza indulgenze e senza anatemi, sporcandosi le mani, “nudi e crudi”, nella realtà della crisi profonda nazionale e internazionale. La malapolitica ha creato l’antipolitica. Poi il berlusconismo e l’anti berlusconismo hanno fatto il resto. Il giocattolo si è rotto. Non servono sermoni né promesse. L’apatia, il malcontento e la protesta dilagano sostenendo forze come il M5S o la Lega o incrementando ancora il disimpegno politico e l’astensionismo elettorale. Senza segnali concreti di svolta generale, di modifica delle iniquità e delle inefficienze del sistema politico e della nostra democrazia, senza un ribaltamento dei guasti del liberalismo libero da contrappesi, senza una legge elettorale che pur in un sistema oggi tripartitico garantisca governabilità e governi capaci di fare riforme vere, il rischio di Weimar è dietro l’angolo. Nel vortice di ripetute elezioni, di fronte ai gravi problemi irrisolti, con l’onda montante dell’antipolitica e del disprezzo per le istituzioni, con la democrazia ritenuta inutile orpello, la piazza invocherebbe l’”uomo forte”. Di fronte a tale inquietante prospettiva forse Bersani ha cercato – pur con un approccio discutibile – di suonare un campanello d’allarme rispolverando la lezione togliattiana-berlingueriana della “democrazia progressiva”, dell’incontro e della collaborazione fra le grandi forze popolari – all’epoca definite “forze popolari” (comunisti, socialisti, cattolici), oggi quei tre blocchi composti dal centrosinistra, centrodestra (entrambi da ricomporre) e dal M5S. All’epoca Berlinguer, bollato come venduto a sinistra e criticato anche all’interno del Pci,  precisava: “ La nostra non è una apertura di credito alla Dc quale essa è oggi…La nostra è la sollecitazione continua a far sì che nella Dc vengano isolate e battute le tentazioni e le tendenze conservatrice reazionarie e si affermi sempre più il peso della sua componente popolare”. Con Ingrao che dissentiva: “Berlinguer non vuole un dialogo con i cattolici che privilegi i movimenti ma un accordo di governo con il partito della Democrazia Cristiana”. All’incontro con la Dc sul “Compromesso storico” il Pci berlingueriano andò solo, in una guerra sciagurata con Psi di Craxi, con la sinistra a pezzi. Si sa come finì. Sarà così anche oggi con la sinistra lacerata, il Pd in caduta libera, con sullo sfondo il ghigno sinistro di Grillo e l’ombra cupa di Berlusconi?

 

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