Bersani e la nostalgia del PCI
“La ditta”, “la mia casa”, “di qui mi può cacciare soltanto l’esercito”: Pierluigi Bersani non risparmia enfasi e toni sentimentali quando parla della sua “appartenenza”. E’ uno dei tratti che lo rendono simpatico anche al di là dei suoi sostenitori.
E proprio loro dovrebbero meditare sul senso profondo di quest’anima bersaniana, perché il suo cuore parla non del PD, ma del PCI.
Prima con Occhetto fu il PDS, poi i DS. Il PD nacque soltanto 9 anni fa (2007), al tempo di Prodi premier (che non veniva dal PCI), mettendo insieme varie famiglie partitiche: il PCI meno la sinistra che finì in Rifondazione; la DC meno l’area doroteo-moderata; alcuni liberaldemocratici che avevano partecipato alla Margherita, più qualche elemento di ex PSI ed ex PRI favorevole ad un raggruppamento di centrosinistra (o sinistra-centro). Tutti confederati per fare diga contro gli “alieni” Berlusconi e Bossi, quelli che contro tutte le previsioni degli esperti erano riusciti a salire fino a Palazzo Chigi.
Quel PD era già un abbozzo di “partito della nazione”, e Renzi un giovane quasi sconosciuto, che però – non per caso – non veniva dal PCI. Invece Bersani, erede del comunismo pragmatico e di potere che ha prosperato per 50 anni in Emilia, quando pensa alla “casa” rievoca – cosciente o no – quel partito comunista che nel PD si è sciolto, mescolandosi con anime diverse.
Dunque finisce per portare acqua, anche fuori tempo massimo, al mulino di Berlusconi, quando diceva e dice che i suoi avversari di centrosinistra rimangono, comunque si chiamino, “comunisti”.