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Politica
Carlo Azeglio Ciampi, intervento del VDG Luigi Federico Signorini

Premessa

1. Nel giorno in cui Carlo Azeglio Ciampi nasceva a Livorno, il 9 dicembre del 1920, il Corriere della Sera riportava, tra l’altro, una tormentata vicenda politico- istituzionale e due importanti questioni economiche. La prima riguardava “la ferma decisione del Governo di applicare il Trattato di Rapallo”. Quest’ultimo, come si sa, prevedeva che la città di Fiume, contesa tra Italia e Jugoslavia nel convulso contrapporsi di nazionalismi seguiti alla fine della guerra europea e alla dissoluzione dell’impero asburgico, si costituisse in Stato libero; vi si opponeva l’autoproclamata Reggenza del Carnaro di Gabriele d’Annunzio, che ne chiedeva l’annessione all’Italia. Poche settimane più tardi, il “Natale di sangue” segnò la fine della Reggenza sotto i colpi della marina e dell’esercito italiani, inviati dall’ultimo governo Giolitti. Delle due questioni economiche, una riguardava il “prezzo politico del pane”: stabilito durante la guerra e ormai irrealistico per effetto dell’inflazione bellica, esso comportava forti sussidi, che stavano aprendo una voragine nei conti pubblici. La sua abolizione fu affidata da Giolitti a Marcello Soleri, sottosegretario agli approvvigionamenti e ai consumi alimentari, e approvata nel febbraio del 1921; pur fieramente avversata all’epoca da varie parti politiche (se ne ha un’eco negli articoli del Corriere), contribuì in modo sostanziale a un riequilibrio del bilancio. L’altra era oggetto di un articolo di Luigi Luzzatti in seconda pagina, intitolato “Nuova carta moneta?”, che dava occasione al giornale di sottolineare la “grande preoccupazione che desta l’aumento della circolazione il quale si ripercuote visibilmente sui prezzi e sui cambi”. “Se i prezzi salgono e il cambio aumenta, è il torchio dei biglietti il responsabile”, diceva l’editorialista.

2. Questi temi ricorrevano allora con tale frequenza che forse se ne sarebbe trovata comunque traccia, in una data scelta a caso. Le cito ugualmente perché può suscitare un sorriso il fatto che, se si prende in mano il Corriere del suo giorno di nascita, si trovano riferimenti alle tre stelle polari (se così posso chiamarle) della vita personale, professionale e istituzionale di Carlo Azeglio Ciampi, dagli inizi fino ai più alti ruoli che ricoprì: la stabilità della moneta, l’equilibrio della finanza pubblica, l’ideale di un’Europa unita. Non da contrapporre, quest’ultimo, all’amore per le patrie più piccole, anzi da fondare su un patriottismo rettamente inteso; da erigere a baluardo contro le ripetute devastazioni fratricide della storia. Nei due volumi che raccolgono i suoi interventi sulla Nuova Antologia tutte e tre sono visibilissime.

L’Europa

3. Comincerò dalla terza “stella”, dall’ideale europeo, il cui fitto ricorrere in queste pagine di Ciampi mi ha colpito forse più di ogni altra cosa.

4. Nel 1996, ricordando i giorni trascorsi a Scanno, in Abruzzo, fra il 1943 e il 1944, nell’attesa di tentare di raggiungere al di là del fronte le forze cobelligeranti, Ciampi scriveva: “Da lì è nata la convinzione che tuttora ci anima e ci dà forza che l’Unione Europea debba essere fatta per motivi che vanno ben al di là delle motivazioni economiche. Deve restare ben viva in noi la consapevolezza delle tragedie che può provocare il rinfocolarsi dei nazionalismi, un rischio di involuzione morale e politica che non è certo cancellato dal nostro presente, come ci denuncia la tragedia dell’ex Jugoslavia. L’Europa o va avanti verso una Unione ben salda su istituzioni comuni, oppure corre il rischio di regressi. Non dobbiamo dimenticare i drammi che abbiamo vissuto nel nostro passato, affinché essi siano sicuramente risparmiati ai nostri figli, ai nostri nipoti”

5. Tuttavia, per il successo del progetto europeo, la consapevolezza che “per la civiltà di cui siamo parte, [l’unione politica sia] l’unica via per non smarrire il filo spezzato in due guerre mondiali, riannodato da chi seppe intuire l’Europa comunitaria”2 è solo una condizione necessaria, non sufficiente. Occorre anche “dare forma a istituzioni appropriate alle nuove dimensioni dell’Unione Europea, che ci consentano di far fronte alle nostre responsabilità nei confronti dei cittadini europei” .

6. Consentitemi di sottolineare queste ultime parole, pronunciate da Ciampi nel 2002, quando fu chiamato a svolgere la laudatio in occasione del conferimento all’euro del Premio Internazionale “Carlo Magno”. Esse restano attuali. Rispetto a una generazione fa, l’Europa dei nostri giorni ha “nuove dimensioni” non solo perché è aumentato il numero dei paesi membri, ma anche, direi anzi soprattutto, perché si sono molto accresciute le materie per le quali si è messa in comune la sovranità. Negli ultimi vent’anni il trasferimento è stato formidabile in campo

economico, monetario e finanziario. Di questo passaggio Ciampi è stato tra gli artefici. Le istituzioni europee si sono in parte adeguate, con balzi anche inattesi, eppure non sempre hanno tenuto il passo. Oggi, mentre resta vivissimo il dibattito sul completamento dell’unione economica, altre materie tornano a premere, e sono di nuovo tra quelle che più si avvicinano al cuore della sovranità: sicurezza, controllo delle frontiere; terreni di sfide intrinsecamente comuni, che mal si affrontano a livello nazionale; che non si potranno tuttavia gestire insieme adeguatamente senza “istituzioni appropriate”.

7. Dalle vicende delle istituzioni economiche si può trarre qualche lezione. L’incompletezza dell’Unione economica e monetaria, come si sa, venne drammaticamente alla ribalta sotto la spinta della doppia crisi, finanziaria prima, dei debiti sovrani poi. Nel 2012 fu pubblicato il “Rapporto dei Quattro Presidenti”4 che proponeva di muovere, nell’arco di un decennio, passi concreti verso un’unione bancaria e di bilancio, affiancando o sostituendo gli strumenti di intervento nazionali con analoghi istituti sovranazionali. Il Rapporto suggeriva anche di accompagnare questa graduale cessione di sovranità con un rafforzamento della legittimazione democratica delle istituzioni comuni.

8. Gran parte delle proposte del Rapporto sono state riprese in documenti successivi più dettagliati. Non sono rimaste tutte sulla carta. I passi in avanti mossi negli ultimi anni sono stati anzi per certi versi straordinari: in un contesto economico particolarmente difficile il panorama istituzionale e regolamentare dell’Unione e dell’area dell’euro è stato largamente ridisegnato, colmando evidenti lacune. E tuttavia, i progressi compiuti sono disomogenei. Tra l’altro, mentre sono state rapidamente messe in atto limitazioni all’uso di leve nazionali, hanno segnato il passo l’introduzione e la piena condivisione di strumenti sovranazionali.

9. Non è questa l’occasione per soffermarsi su questioni che il Governatore Visco e altri di noi abbiamo trattato tante volte: l’incompiutezza dell’unione bancaria, lo stato ancora embrionale dell’unione del mercato dei capitali, l’evidente asimmetria – la “zoppìa”, avrebbe detto Ciampi5 – di un’architettura istituzionale che prevede, a fronte di un’unica politica monetaria, una politica di bilancio tuttora in larga misura frammentata a livello nazionale, seppure entro una rete sempre più intricata

di regole. Vorrei invece fare una considerazione più generale, a cui molte altre possono essere direttamente o indirettamente ricondotte.

10. L’Unione europea, pur con tutte le sue differenze rispetto al modello tradizionale dello stato sovrano, possiede un assetto che, per il ramo legislativo e per quello giudiziario, assomiglia a molte normali costituzioni democratiche. Oggi l’Unione ha un Parlamento che, in base ai Trattati, ha status, composizione e poteri paragonabili a quelli di un parlamento nazionale; ha un sistema di corti di giustizia che assicura, per vie del tutto convenzionali, l’applicazione uniforme della legge europea. Il potere esecutivo funziona invece in un modo assai peculiare. Vi sono infatti due rami istituzionali che condividono la responsabilità dell’indirizzo politico, il Consiglio e la Commissione, con una ripartizione di ruoli di cui non credo vi siano altri esempi al mondo, e con composizioni e fonti di legittimità diverse. Entrambi7 , inoltre, esercitano anche funzioni estranee a quelle di governo: il Consiglio condivide col Parlamento la funzione legislativa; la Commissione ha alcuni compiti tipici delle autorità indipendenti, che mal si conciliano con il suo ruolo politico—e il connubio è infatti perenne motivo di polemiche.

11. Questa peculiarità dell’assetto istituzionale dell’Unione non è senza conseguenze. All’inesistenza di un organo unitario di direzione politica consegue la mancanza di quegli strumenti di intervento che di solito lo caratterizzano, cosa che di fatto limita fortemente l’azione discrezionale del “governo” europeo. La governance economica dell’Unione si basa quindi essenzialmente sulla definizione di regole e sul controllo del loro rispetto da parte dei governi nazionali. È questo squilibrio tra regole e azione discrezionale di governo, assai più che la carenza di rappresentatività democratica di cui talvolta si parla, la caratteristica più insolita dell’assetto costituzionale europeo. Questa situazione non è casuale: nasce dalla riluttanza degli Stati membri a conferire a un governo centrale poteri che si temono eccessivi. Ma ciò che a volte sfugge è che, dato che una notevole fetta di sovranità è già stata messa in comune a livello europeo (e per buone ragioni), questo assetto ha

un esito paradossale: con poca discrezionalità a livello nazionale e poca a livello europeo, tutto il sistema risulta ingessato.

12. Per risolvere il paradosso occorrerebbe saper guardare lontano. Non sappiamo se oggi sia possibile; non sarà in ogni caso possibile senza ricreare un clima di fiducia tra paese e paese, tra cittadini e istituzioni europee, che negli ultimi tempi è sembrato mancare. Nelle Considerazioni finali del 1988 Ciampi rammentava i progressi compiuti nell’edificare una “comunità autentica, solidale, polo di riferimento, con gli Stati Uniti e il Giappone, dell’economia mondiale”, e concludeva: “Le grandi dispute su piccole questioni sembrano essersi placate: è ora dischiuso il pur arduo percorso verso il completamento dell’unione economica, che prepara e richiederà l’unione politica”. È da augurarsi che anche il dibattito europeo attuale si liberi dalle “piccole questioni” e ritrovi quel senso di direzione che solo ci può consentire – per citare un successore di Ciampi alla Banca d’Italia, Mario Draghi – di “evitare di restare prigionieri di progetti incompleti” . Non è, o almeno non è solo, questione di visioni ideali: l’incompletezza del progetto ne può minare in concreto l’efficacia pratica e l’accettabilità sociale. Gli esempi li abbiamo davanti tutti i giorni.

13. Ciampi apparteneva a quella generazione e a quella scuola di pensiero che, nello spirito di Jean Monnet, vedeva ogni passo della costruzione europea come il prodromo di inevitabili passi successivi. Nel 1998, alla vigilia della nascita dell’euro, egli si dichiarava convinto che “quando undici paesi cominceranno a gestire insieme quel bene comune che è la moneta, si accorgeranno [...] che occorrerà gestire in comune anche altre cose [...] Questo è il piano inclinato lungo il quale si muove la moneta unica [...] un piano inclinato che, con la stessa inesorabilità della forza di gravità costringerà entro il perimetro della collaborazione i grandi comparti della politica, e non solo di quella economica”. Tuttavia, pur descrivendo l’euro come “esempio di ‘immaginazione al potere’”, pur dicendo che “mettere il carro della moneta unica davanti ai buoi dell’unione politica [aveva] rappresentato una iniziativa unica della storia”, Ciampi ci ammoniva anche della necessità di un impegno costante: “Di ancora più ‘immaginazione’, di fantasia creativa, vi è bisogno adesso, per combinare in un assetto istituzionale efficiente elementi di sovranità e di sovranazionalità, di Stati e di federazione, di unità e di diversità”

La moneta

14. “L’indipendenza della Banca Centrale Europea, il suo obiettivo fondamentale di salvaguardare la stabilità dei prezzi, sono solennemente sanciti nel Trattato di Maastricht: non vi possono essere divergenze, dubbi di interpretazione”10. Ma l’autonomia delle banche centrali, come ci ricordano gli articoli del Corriere della Sera del 9 dicembre del 1920, non è una condizione di natura, anzi.

15. La questione di quanto potere o arbitrio il Principe possa esercitare nel battere moneta è antichissima. L’idea che i sovrani non potessero esercitare tale prerogativa in modo discrezionale senza mettere a rischio il benessere dei sudditi e perfino il loro proprio risale, in Occidente, almeno a Nicola d’Oresme e al suo Trattato sulle Monete, vecchio di sei secoli e mezzo. Ma la traduzione di questi principi in regole istituzionali che sancissero la separazione tra il Tesoro dello Stato e il "torchio monetario" richiese un tempo lungo e variabile tra i diversi paesi. In Italia la questione venne risolta tra il 1981 e il 1993; Ciampi fu indiscusso protagonista di quel processo.

16. In uno degli scritti pubblicati nell’Antologia, Ciampi ne ricorda il primo, decisivo passaggio, maturato durante un colloquio con Giovanni Spadolini, che il 15 giugno 1981 – appena nominato Presidente del Consiglio – invitò il Governatore “a rappresentargli la situazione economica con tutta chiarezza”. “Lo feci – ricorda Ciampi – lungo le linee che due settimane prima, il 30 maggio, avevo presentato all’assemblea della Banca d’Italia, nelle tradizionali ‘Considerazioni finali’. La situazione era difficile. Sulla spinta del secondo shock petrolifero, l’inflazione aveva superato il tasso del 20 per cento annuo [...] Per sconfiggere l’inflazione, avevo auspicato una serie di mutamenti di struttura, di comportamenti, una sorta di ‘costituzione monetaria’, indicando tre pilastri”. I primi due erano la politica dei redditi e nuove regole e vincoli stringenti per il bilancio pubblico; il terzo era l’“autonomia piena della Banca d'Italia in modo da evitare influenze sulla creazione di moneta da parte dei centri di decisione della spesa”.

17. Nelle dichiarazioni programmatiche del 7 luglio del 1981, Spadolini non disse nulla sul terzo pilastro, ma “di fatto approvò la nuova impostazione dei rapporti finanziari fra il Tesoro e la Banca d'Italia, che Andreatta, ministro del Tesoro già nel Governo precedente, aveva con me concordato nell’aprile del 1981 e che divenne

operativa dal luglio dello stesso anno, Presidente Spadolini. Si trattava dello scioglimento dell’impegno che la Banca d’Italia aveva di acquistare i buoni del tesoro ordinari, eventualmente invenduti alle aste”.

18. Quel “divorzio” segnò l’inizio di un processo che, attraverso varie tappe, avrebbe portato nel 1992 ad attribuire al Governatore della Banca d'Italia la competenza della variazione dei tassi ufficiali di interesse e nel 1993 a far cessare la facoltà del Tesoro di indebitarsi con la Banca d'Italia fino al 14 per cento delle spese di bilancio, a un tasso di interesse quasi figurativo. Con ciò, ricorda ancora Ciampi, “l’autonomia della Banca d’Italia ha ottenuto pieno riconoscimento”.

19. A chi allora credeva eccessiva l’attenzione per la stabilità dei prezzi, Ciampi rispondeva, nelle Considerazioni finali del 1981, che l’inflazione elevata in passato “ha provocato non solo ingenti e ciechi trasferimenti di ricchezza e le inefficienze dovute all'incertezza e alla volatilità dei prezzi relativi; essa ha alterato l'essenza stessa della moneta, svuotandola in gran parte della sua funzione di riserva di valore, per lasciarle solo un'umiliata funzione di numerario e di mezzo di pagamento. Una complessa economia di scambio non può vivere senza una misura di valore attendibile nel presente e per il futuro”.

20. La stabilizzazione monetaria ebbe successo. L’inflazione, che aveva toccato il 21 per cento nel 1980, scese al 6 per cento nel 1986 e al 3 alla metà degli anni Novanta. Però, mentre il “pilastro” monetario fu costruito senza esitazioni, la realizzazione degli altri due, politica dei redditi e alla finanza pubblica, fu solo parziale; e questo, scriveva Ciampi, “ha avuto pesanti costi per il Paese. Ha rallentato lo sviluppo economico; ha indebolito la moneta”.

21. Lasciato l’incarico di Governatore, fu poi ancora Ciampi, da Ministro del Tesoro del governo Prodi, a condurre l’Italia a partecipare alla moneta unica europea fin dal suo avvio. Il coronamento della lunga rincorsa alla “riconquista della stabilità”, iniziata nel 1981 e proseguita con perseveranza negli anni successivi, coincise emblematicamente con il completamento di una tappa fondamentale nella costruzione europea. Nel pensiero di Ciampi i due aspetti erano inscindibili: “Se [...] riguardiamo la filigrana delle alterne vicende della nostra economia negli anni

Ottanta e Novanta vi leggiamo come motivo conduttore un binomio: la riconquista della stabilità, e la creazione dell’Europa. La stabilità, che fino alla metà degli anni Sessanta il nostro Paese era stato capace di realizzare e coniugare con un elevato sviluppo. L’Europa, che dominò nella nostra mente e nei nostri cuori sin dal dopoguerra”.

22. Forse vale la pena di menzionare a margine il piccolo fatto, forse poco noto, che Ciampi ricorda in un altro passaggio: “Come ministro del Tesoro volli l’immagine di Castel del Monte [sulla moneta da un centesimo] in omaggio a Federico II, imperatore al tempo stesso tedesco e romano, che incarnò un ideale di sovranazionalità.

La finanza pubblica

23. Per parlare dell’ultima “stella polare” di Ciampi, la finanza pubblica, dobbiamo tornare ai “tre pilastri” della stabilità, e in particolare ai primi due, non monetari. Nel ripercorrere, anni dopo, le vicende del Governo Spadolini, Ciampi ne sottolineava l’importanza: “Le dichiarazioni programmatiche che il Presidente del Consiglio [...] presentò al Parlamento indicarono nel freno della spesa pubblica, insieme con il costo del lavoro, l’altro fondamentale momento della lotta all’inflazione”. Si rammaricava del fatto che “purtroppo nella definizione della manovra di bilancio i contenuti risentirono, prima, dei contrasti che emersero all’interno del Governo e fra gli stessi titolari dei Ministeri economici, poi, delle modifiche, prevalentemente in direzione di un minor rigore, apportate nel corso della discussione parlamentare” e che “lo scarto finale fra risultati e obiettivi fu particolarmente ampio. Il rapporto fra fabbisogno e prodotto interno lordo, già salito fra il 1980 e il 1981 dal 9,3 al 10,7 per cento, balzò nel 1982, oltre il 13 per cento”. Concludeva: “alla fine del maggio 1982 [...] ritenni di dover pubblicamente constatare il divario fra la consapevolezza dei problemi e l’insufficienza delle azioni; espressi con tutta chiarezza i pericoli e le preoccupazioni che ne discendevano”.

24. In Ciampi la preoccupazione che “lo sviluppo [potesse essere] interrotto dal disordine nei conti pubblici”19 era una costante. Quasi quindici anni più tardi, alla fine del 1995, lamentava ancora, in una prospettiva di medio periodo, “la prolungata mancanza di coerenza fra gli obiettivi di risanamento e di convergenza che il Parlamento e il Governo si erano posti con l’aderire al processo di integrazione europea e i comportamenti effettivi nella gestione del bilancio pubblico e nella contrattazione salariale”.

25. Poco dopo, però, sarebbe toccato allo stesso Ciampi il compito di risanare i conti, opera necessaria per consentire all’Italia di entrare a far parte dell’Unione monetaria. Il successo di quell’operazione si fondò su tratti che hanno distinto tutta la sua carriera: diagnosi accurata dei problemi; chiarezza degli obiettivi; senso della propria responsabilità, indispensabile a mobilitare le energie di tutti.

26. Nel testo preparato per la presentazione alla Camera del Documento di Programmazione economico-finanziaria per il triennio 1997-1999, Ciampi illustra chiaramente diagnosi, obiettivi e responsabilità. La prima è netta: “Il nuovo Governo ha dovuto prendere atto del mutamento intervenuto [...] nel quadro di riferimento macroeconomico. Inoltre un accurato esame dell’andamento dei conti pubblici ha messo in evidenza [...] un peggioramento rispetto alle previsioni”. L’obiettivo però resta imprescindibile: è “l’adesione del nostro Paese fin dal 1° gennaio 1999 alla terza fase dell’Unione economica e monetaria”. Quanto infine alle responsabilità, egli fa un’affermazione enfatica e chiara: nel documento di programmazione vi è il tracciato del futuro della nostra economia e della nostra finanza pubblica e “questo futuro è ancora largamente nelle nostre mani. Non vi è nulla di inevitabile, di predeterminato, nulla di fatalistico”.

27. L’importanza attribuita alla diagnosi tecnica pone Ciampi in sintonia con la tradizione della Banca d’Italia, dove fece – come ebbe a dire egli stesso – il suo “corso di Master of Economics” 22. In uno scritto dedicato a Einaudi, Ciampi ricorda le origini di quella tradizione, nel lavoro di analisi compiuto da Menichella e dalla Banca che contribuì al successo della manovra di stabilizzazione del 1947. Ma egli ebbe modo di sottolineare icasticamente l’importanza di una diagnosi spassionata

nell’incontro, già ricordato, con il Presidente Spadolini del 1981. Rammenta infatti che, dopo averlo “invitato a rappresentare la situazione economica con tutta chiarezza [...] Spadolini ascoltò con grande attenzione; riempì con la sua calligrafia numerosi fogli di appunti; al termine, commentò che il quadro che gli avevo rappresentato era ancor più ‘nero’ di quanto ritenesse. Convenimmo – dice Ciampi – che sulle preoccupazioni si può costruire qualcosa, sulle illusioni no”.

28. Che egli avesse chiari gli obiettivi della sua azione, nelle vesti successivamente indossate di Governatore, Presidente del Consiglio, Ministro, Capo dello Stato, credo appaia con chiarezza sufficiente in ciò che ho detto finora. Quel che mi preme ancora sottolineare è l’abitudine di Ciampi di farsi interamente carico delle responsabilità di volta in volta assunte, e al tempo stesso di coinvolgere gli altri, spingendoli ad assumere le proprie. È quell’etica dello “sta in noi” – frase del suo predecessore Donato Menichella – che traspare in tutti i suoi scritti e, prima ancora, nelle sue azioni. Ancora presentando il Documento di programmazione per il 1997- 99, Ciampi diceva: “l’Italia in quattro anni si è allontanata da un baratro, ha dimezzato il disavanzo dello Stato, ha quasi annullato il suo debito con l’estero. Un Paese così non merita di essere escluso dal passaggio fondamentale verso il nuovo assetto politico ed economico del continente”. E ammoniva: “Un insuccesso sarebbe colpa esclusiva di una scarsa fiducia in noi stessi, di un dubitare delle nostre forze nell’ultimo tratto del cammino [...] Abbiamo venti mesi davanti a noi. Non una settimana deve essere perduta”.

29. Oggi non c’è davanti a noi una scadenza temporale così precisa, ma la sfida è analoga a quella che abbiamo affrontato negli anni Novanta. Si tratta di rimettere mano a quel risanamento della finanza pubblica che fu ottenuto allora con decisione, piegando con misure strutturali la tendenza esplosiva del rapporto tra debito pubblico e prodotto, avviandone un rapido calo. Lo scorso anno, chiamati in audizione dal Parlamento durante la discussione sulla Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza del 2017, sottolineavamo la necessità di “trarre vantaggio dalle condizioni contingenti in cui ci troviamo per irrobustire la finanza pubblica, per ridurre visibilmente il debito, nostro perenne fattore di debolezza; per porre le basi di uno sviluppo duraturo”. Ribadivamo che “la credibilità dell’impegno

ad assicurare finanze pubbliche in ordine è condizione necessaria affinché un graduale ritorno alla normalità delle condizioni monetarie e finanziarie nell’area dell’euro non implichi un aumento del differenziale tra costo del debito e crescita dell’economia, che a sua volta si tradurrebbe – come un circolo vizioso – in un peggioramento della dinamica del debito”. Come avrebbe detto Ciampi, come in effetti egli disse nel 1996, “si tratta di riconquistare un grado di libertà nella adozione delle politiche di bilancio, andato perduto, o quantomeno fortemente indebolitosi, in ragione degli squilibri strutturali della finanza pubblica. E questo grado di libertà è particolarmente necessario in un sistema come il nostro che deve riorientare profondamente la politica economica verso lo sviluppo e l’occupazione” 

Conclusione

30. La personalità di Carlo Azeglio Ciampi non si può apprezzare appieno senza un riferimento alle sue radici culturali. Negli scritti raccolti in questi due volumi si intravede una genealogia intellettuale ben delineata, mai chiamata per nome, ma è evidente nell’accumulo delle citazioni: Mazzini, Cavour, Einaudi, De Gasperi, e poi avanti fino a Giovanni Spadolini, Paolo Baffi, Tommaso Padoa Schioppa. In uno scritto del 2009, questa genealogia diventa più esplicita e più precisa: “La condizione anagrafica – scrisse allora Ciampi – mi porta sempre più spesso a ricercare voci e presenze del passato, non saprei dire se per ritrovare lo spirito degli anni giovanili o per contrastare la pesantezza di un presente asfittico. Senza sistematicità, molto casualmente, mi capita di riprendere in mano qualche vecchio scritto: frequentazioni letterarie, storiche, politiche di anni lontani. Molte di queste sono le voci di coloro che anch’io posso dire di considerare tra ‘i miei maggiori’: da Ruffini a Calogero, da Salvatorelli a De Ruggiero, da Omodeo a Calamandrei, fino al quasi coetaneo Galante Garrone. Quale che sia l’argomento da essi specificamente affrontato, mi scopro sempre a sorprendermi nel rintracciare quell’unico solido filo

che costituisce la trama della nostra storia, dal Risorgimento alla Costituzione repubblicana, passando per la lotta di liberazione”.

31. È ben nota la passione di Ciampi per il Risorgimento. Passione che, agli antipodi della deriva sciovinistica degli anni del fascismo, lo portava a vedere nell’Unione europea, non un pericolo per le identità e le culture nazionali, ma anzi lo strumento per garantirne la sopravvivenza e lo sviluppo nel quadro mondiale, perché – sosteneva – “nessuno da solo potrebbe far fiorire la propria preziosa eredità culturale, civile, religiosa, che è parte integrante dell’identità europea”.

32. Dalle stesse radici culturali viene la vocazione di Ciampi a “servire l’interesse generale”. Perché i patrioti italiani non furono soltanto combattenti: “Essi furono una classe dirigente onesta, disinteressata, diffusa in ogni paese, in ogni Regione d’Italia”. Servire l’interesse generale, “per usare le sue parole, [...] ‘non richiede – non dovrebbe richiedere – di essere persone eccezionali, santi, eroi, anacoreti’. Ma ‘è necessario credere fermamente nei valori portanti della democrazia; è importante porsi obiettivi realisticamente perseguibili per lo sviluppo della società; è sufficiente essere uomini e donne probi, competenti, coerenti nel predicare valori e convinzioni professati a parole e ... sentire l’incarico assunto prima di tutto come dovere civico’” Per questo, nell’assunzione di responsabilità, negli impegni che gli venivano attribuiti in momenti difficili, “impegni (sto citando un altro suo successore, Ignazio Visco) che a volte pensava che fossero, come diceva, al di là delle sue forze” seppe mettere al bando ogni incertezza e timidezza. 

33. È stato detto che dobbiamo a Ciampi qualcosa che va oltre l’economia: “una grande, indistruttibile, fiducia nelle possibilità degli italiani”. Nella vicenda della genesi dell’euro, diceva Ciampi alla Camera dei Deputati nel maggio del 1998, “l’Italia ha dato all’Europa quello di cui l’Unione Europea ha maggiormente bisogno: la dimostrazione di quanto un Paese, un popolo può fare quando si dà un grande

obiettivo e verso questo obiettivo impegna le sue energie migliori”. Oggi che siamo usciti da una crisi economica devastante; che ci troviamo a mezza strada in un percorso di riforme che ha già tanto cambiato, e tanto dovrà ancora cambiare, il funzionamento della nostra economia; che siamo chiamati a far sentire di nuovo una voce chiara nel dialogo europeo, Carlo Azeglio Ciampi ci esorterebbe a dimostrare di saper fare come in passato: quando, posti di fronte alle alternative decisive, abbiamo scelto sempre la strada difficile e giusta.

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