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Politica
Di Maio, l'anguilla a Cinque Stelle

Lo ammetto, la considerazione di Luigi Di Maio non è mai arrivata a soffocarmi. Ma forse lo dico perché siamo in concorrenza. Anch’io sono candidato premier. Basta che Mattarella si convinca a darmi l’incarico. Inoltre il giovanotto Di Maio ha il torto di confondermi le idee, e questo non è piacevole per nessuno. Per esempio, insieme con i suoi amici, mi ha insegnato per mesi e per anni che il Movimento – non lo chiamate partito, per favore, diversamente qualcuno potrebbe prenderlo per ciò che è – che il Movimento, dicevo, non può allearsi con gli altri partiti, essendo qualcosa di assolutamente diverso. Le leghe si possono fare fra metalli, ma come fare una lega fra legno e rame? Ecco, il Movimento è di legno. E infatti, per anni, ci è stato detto che esso mirava a prendere il potere ottenendo il cinquantuno per cento dei voti degli elettori. Da solo.

Ho fatto una faticaccia bestiale, per assimilare questi concetti. Da quel balordo che sono, mi accorgevo continuamente che stavo trattando il Movimento come un partito e dovevo ricominciare il ragionamento da capo. Inoltre, malgrado ogni sforzo, mi ritrovavo a pensare che raggiungere il 51% in Italia è pura mitologia, ed ero costretto a dirmi che persone come Di Battista, Grillo, Di Maio, Toninelli ed altri luminari della politica non potevano sbagliarsi.

Recentemente stavo finalmente riuscendo a completare questa rieducazione culturale quand’ecco Di Maio mi spiega che non ho capito niente, del suo partito. Pardon, Movimento. Leggo infatti, in un comunicato Ansa, queste sue parole: “Se avremo l'incarico, valuteremo le forze politiche che possano darci la disponibilità a fare il governo, lo vedremo all'indomani del voto”. Come, “le forze”? Al plurale? Ma quel monolite non era inassimilabile? La sua natura non era di opposizione totale a tutti gli altri? Possibile che io sia talmente tonto da non capire né una tesi né il suo contrario?

Inoltre, perché “all’indomani del voto”? Sappiamo tutti che il programma del M5s è chiarissimo (non a me, ma io non conto) e che mai quel partito si piegherà a negoziarlo con qualcun altro. Allora, perché esprimersi come se potesse vendere la primogenitura per un piatto di lenticchie, da mangiare a Palazzo Chigi?

Dice ancora Di Maio: “Faremo un appello pubblico ai gruppi parlamentari. Attenderemo le risposte e faremo incontri”. Ed io, che sono rimasto all’Ancien Régime, traduco: il nostro partito entrerà in trattative con gli altri partiti, per concordare un programma comune e presentarci alle Camere per la fiducia. Ma naturalmente devo aver capito male. Perché “risposte” ed “incontri” significano trattative, quelle stesse trattative che il partito, pardon, Movimento, sdegnosamente rifiutò in un famoso colloquio in diretta televisiva con Bersani.

Al riguardo si deve anche ricordare che a Bersani non furono mosse obiezioni politiche, non gli fu contrapposto un programma, gli si disse soltanto di no. In base all’inassimilabilità di quel nuovo fenomeno storico-politico. Ma forse ricordo male. Oggi invece secondo l’Ansa - anch’essa talmente stupida da tradurre questo linguaggio esoterico in terminologia corrente - “Di Maio in un'intervista alla Stampa non esclude intese con la Lega e con Liberi e uguali”. All’anima del programma, se può essere discusso con l’estrema destra e con l’estrema sinistra. Questa sì si chiama flessibilità. Insomma il partito che mai e poi mai si sarebbe alleato con nessuno, oggi dichiara che domani potrebbe allearsi con chiunque, anche con un eventuale “Partito degli amici degli amici”.

Accidenti, nella frase precedente ho ancora una volta chiamato il Movimento “partito”. Chiedo umilmente scusa, soprattutto dal momento che Di Maio, ancora in questa intervista, ci spiega che il suo partito non è un partito, “siamo un movimento semplicemente perché non abbiamo una struttura, perché non ci sono persone che decidono per le altre o dicono chi si deve candidare”. Chissà di quale Movimento parla. E comunque, se voi avete mai pensato che Beppe Grillo possa decidere per altri, per esempio escludere dalle candidature una signora che a Genova aveva ricevuto la maggioranza dei voti della sacrosanta Rete (quella in cui uno vale uno) ebbene, ricordate male. Di Maio e noi abbiamo visto film diversi.

E così siamo venuti ad un altro dei principi sacramentali. Il principio secondo cui uno vale uno, sostiene Gigino, “è un concetto del quale si è abusato. Sicuramente uno vale uno - perché ci si può candidare (salvo che a Genova, se Grillo non è d’accordo, nota di G,P.) e votare - ma uno non vale l'altro”. Per esempio io devo assumere tre operai, ma al terzo candidato dico: “Uno vale uno, lo so, ma uno non vale l’altro, e dal momento che lei è nero non vale quanto i candidati bianchi. È un principio del nostro partito”. Pardon, Movimento.

giannipardo@libero.it

Tags:
di maio cinque stelle elezioni





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