Elezioni 2018, la sinistra harakiri insegue il miraggio del “partito unico”
I rapporti tra il Pd di Renzi e LeU di Grasso a una settimana dal voto
La sinistra si ripete nel suo monotono autolesionismo, prima dilaniandosi al proprio interno e poi, ridimensionata politicamente ed elettoralmente, rilanciando appelli all’unità, con il miraggio del “partito unico”. Stavolta, a una settimana dal voto, è il leader di Leu Pietro Grasso a dar voce al solito refrain per “iniziare il 5 marzo a costruire la sinistra ripartendo dai suoi valori”, riunificandola in un nuovo “partito unico”. Grasso insiste nel “valore dell’unità” come se Liberi e Uguali fosse nato per volontà dello Spirito santo e non frutto di una velenosa scissione dopo una acerrima lotta interna nel Partito democratico in cui si sono mischiate differenti analisi e scelte politiche con questioni personali e beghe di potere. L’uscita di Grasso appare fuorviante quanto velleitaria, la classica mossa di chi – così in politica come nello sport e nella vita – sapendo di perdere la sfida che ha davanti prova ad alzare il tiro rilanciandola a un successivo indeterminato appuntamento, a un dopo che nessuno sa quando e come verrà. A quali “valori” della sinistra si riferisce Grasso? A quali partiti alleati e a quali italiani è rivolto l’appello? Da dove ripartire? Fuori dai due pilastri contrapposti del centrodestra demagogico (possibile coalizione di maggioranza) e del M5S populista (probabile primo partito), la medaglia della politica italiana ha due facce: da una parte il ridimensionato Pd renziano ex perno della sinistra riformista, sempre più moderato e neo centrista; dall’altra la sinistra di Leu, un indistinto amarcord mini Pci nato in provetta e alla rinfusa con molti generali e pochi soldati e la sinistra del Sol dell’avvenire dell’inedito Pap, un mix confuso e pasticciato che riporta ai rancorosi e inconcludenti gruppi extraparlamentari con il tocco della ciliegina bacata di Rifondazione comunista. Questi partiti, in modi quantitativamente e qualitativamente diversi, usciranno perdenti e sconfitti dal voto del 4 marzo.
Le urne sanciranno la fine del centrosinistra quale baricentro di governo del Paese, renderanno ardua la soluzione per una solida governabilità segnando un dato politico di rilievo: in Italia c’è un 40% di voti di centrodestra (più moderati che di destra), c’è un 30% di voti dati al M5S (più di protesta e per dire NO a tutti gli altri partiti che per convinzione), c’è una sinistra all’angolo, divisa e minoritaria. Il tutto in una crisi economica che accentua disuguaglianze e ingiustizie e di nodi sempre più stringenti come quelli dell’immigrazione. Da ciò il rinfocolarsi di tensioni sociali con contrapposte spinte di rabbia, violenza, intolleranze di varia natura e colore. Così si allargano gli estremismi e non è certo la sinistra in crisi a guadagnare in credibilità e consensi. Una storia già vista, dal finale scontato. Il “nuovo” annunciato da Grasso non attecchisce, privo di ancoraggio sociale e politico. A metà degli anni ’60, fu il carismatico leader della “destra” Pci Giorgio Amendola – il padre politico di Giorgio Napolitano - a rilanciare l’unità delle sinistre con l’obiettivo del “partito unico”, per andare oltre i fallimenti della socialdemocrazia e del comunismo. Fu un flop per l’intransigenza e l’ottusità reciproca di Psi e Pci chiusi nelle proprie casematte, per nulla disposti al “mea culpa” ideologico e politico. Così andarono ognuno per la propria strada colpendosi vicendevolmente, lasciando il potere alla Dc e l’Italia nel pantano finendo nel caos opposti estremismi e nel buio del terrorismo. Oggi, in una situazione assai diversa ma con preoccupanti analogie, non servono sermoni dal pulpito né alchimie di potere. Serve almeno il buon senso capace di comprendere e governare la realtà, con la partecipazione dei cittadini. Dopo il 4 marzo, l’eventuale governo di “scopo” o “governissimo” non scioglierà i nodi dell’Italia, tanto meno quelli di una sinistra costretta a un lungo cammino nel deserto.