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Politica
Governo, la crisi è solo congelata. Per Salvini è l’ora della verità

Di Massimo Falcioni

A tre settimane dalle elezioni del 26 maggio il diktat di Conte su Siri è una “bomba” esplosa in un campo minato dagli stessi alleati di governo. Né Conte, né Di Maio, né Salvini hanno interesse a soffiare sul fuoco, anche se, per ora, è il capo della Lega a subire la fiocinata del premier e il pressing del “socio” pentastellato, perdendo, se non la faccia, molte penne. A parte gli sfoghi di propaganda contro il capo dell’esecutivo e contro i 5Stelle con minacce di “ricambiare la cortesia” quanto prima, a Salvini non resta che leccarsi le ferite facendo tesoro di questa ed altre sgradevoli vicende, inducendolo a cambiare passo e direzione. Al leader del Carroccio non bastano più né i roboanti annunci di successi pro-Italia ancora tutti da dimostrare, né imirabolanti sondaggi da tradursi in voti e seggi nel parlamento italiano: l’accetta in mano e i continui tre squilli di tromba per la guerra imminente vanno sostituiti con l’ago e il filo in una paziente e umile opera di rammendo e di tessitura di alleanze politiche e sociali senza le quali anche un 35% di consensi non garantisce l’ingresso a Palazzo Chigi, tanto meno ne consente il funzionamento e la durata. Per Salvini è giunta l’ora della verità: o rifugge dall’arroganza tipica dell’unto del Signore, cambia metodo e sostanza facendo quel salto di qualità che caratterizza il politico di governo non ancorato solo al messaggio sintonizzato con la pancia del Paese, o il rischio di implosione è tutt’altro che campato in aria. La campagna elettorale in corso riserverà altre sorprese in vista di un voto che può trasformarsi in un rischioso referendum sul governo e sui due partiti che lo sostengono. L’ombra lunga dell’astensionismo incombe: alle Europee del 2009 andarono alle urne il 65% degli italiani, precipitati al 58% nel 2014, contro il 73% delle ultime elezioni politiche. E’ un fatto che maggioranza e governo annaspano: la crisi c’è ed è solo congelata. Tuttavia, il brusco licenziamento del sottosegretario Siri (ma le indagini non sono condanne e vale sempre e per tutti la presunzione di innocenza) da parte del premier Conte sotto la spinta di Di Maio non fa cadere l’esecutivo alla vigilia del voto. Anzi, pur mettendo a rischio la “terzietà” del primo ministro sbrigativamente bollato quale “re travicello”, la decisione di Conte su Siri libera il governo e gli stessi partiti di maggioranza di un inquietante fardello spuntando, almeno su questo, le frecce avvelenate degli avversari. La strambata di Conte non manda ko Salvini, costretto comunque a mandare giù il rospo e a rinviare a dopo il 26 maggio la resa dei conti. Al di là dei sondaggi che ripetono da settimane il solito refrain con la Lega spinta dal vento in poppa fra il 30% e il 35% dei voti e con Il M5S in caduta attorno al 20%, niente è scontato. Anche perché, proprio a causa della litigiosità fra i due vice premier, in queste ore si registra un calo nel gradimento degli italiani sia per Salvini che per Di Maio, con l’insofferenza crescente fra gli elettori degli stessi partiti, in particolare di quelli del Carroccio che prevedono la caduta dell’esecutivo entro il 2019. Così le tensioni interne alla maggioranza si acuiscono, con una sfida alla baionetta fra Di Maio e Salvini. Come sul ring il pugile martella inesorabilmente contro l’avversario nel suo punto più debole dove c’è una ferita aperta, così Di Maio – tutt’altro che un dilettante senza arte né parte – insiste nel colpire Salvini con il suo “diretto” nel punto più debole per la Lega: quello dell’etica, della moralizzazione, della giustizia. Al di là dell’iter e delle conclusioni delle inchieste della Magistratura sulla Lega, l’immagine del Carroccio “duro e puro” viene scalfita, mettendone a rischio, sotto l’ ondata mediatica giudiziaria e giustizialista, il suo futuro. In questi casi le sentenze non sono quelle emesse dai tribunali dopo infiniti e controversi iter processuali bensì quelle stabilite in anticipo dai cittadini-elettori sotto l’orchestrato tam-tam mediatico. Non è stato così in passato per politici di ben altra caratura quali Craxi, Andreotti, Berlusconi e per partiti di ben altra storia e struttura quali il Psi, la Dc, Forza Italia? Di Maio è tornato a soffiare sull’anima giustizialista dei 5Stelle non tanto per preservare la primordiale giacobina identità grillina del “fare piazza pulita” quanto per colpire il suo principale alleato-avversario nel suo punto più vulnerabile: la “questione morale”. E’, per Di Maio e per Salvini, un continuo ondeggiare sul trapezio, ad alto rischio per entrambi. Pd e sinistra da una parte e Forza Italia dall’altra non vanno oltre il ruolo di spettatori. Quindi l’alternativa oggi non c’è e non ci sarà neppure dopo il 26 maggio. Gli italiani non vogliono tornare al passato ma sono stanchi di questo inconcludente tira-e-molla. Dopo il voto di fine maggio s’impone un rimpasto dell’esecutivo non solo per ridefinire i rapporti di forza fra 5Stelle e Lega ma per cambiare passo e direzione risanando le crepe del “contratto” e, se serve, riscrivendone un altro inedito anche alla luce dei limiti dimostrati in questi mesi. La pesante situazione economica e la mannaia della prossima manovra finanziaria non consentono più il protrarsi di questo “teatrino”.

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