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Politica
Il primo partito in Italia è quello degli astensionisti e degli indecisi


Che i numeri possano fare paura è facile dimostrarlo. Un uomo di cinquant’anni – come tutti – sa che un giorno morrà, ma comunque questo triste fatto lo prende in considerazione come qualcosa di lontano e di cui ancora non val la pena di occuparsi. Spera comunque di arrivare ad ottant’anni, e di far parte dei fortunati.

Ora immaginiamo che invece di pensare che ha una vaga prospettiva di ulteriori trent’anni di vita, sapesse che morirà esattamente ad ottant’anni, il giorno del suo compleanno. Cioè fra 131.400 giorni. Oltre centotrentamila giorni sono una bella quantità, ma è anche vero che il giorno dopo saranno 131.399. E poi 398,397, 396… Chi dice che la vita sarebbe la stessa di prima? I numeri sono implacabili. Con la loro inflessibilità dànno il senso del finito e riducono la stessa abbondanza a stillicidio di esaurimento.
In questo campo il mondo della politica è meno angoscioso perché, giustamente, ci riguarda meno da vicino. Ma qualche dato rimane impressionante. Per esempio abbiamo appreso che attualmente le intenzioni di voto sono di circa il trenta per cento per tutti e tre i principali raggruppamenti politici. A questo punto uno pensa che l’elettorato si è diviso in tre tronconi, e invece i numeri dicono altro: infatti il primo partito non è nessuno dei tre, è il quarto, il partito degli astensionisti e degli indecisi, attualmente al trentaquattro per cento. Ciascuno, di quella tripletta al 30%, deve spartirsi non il 100%, ma il residuo 66%: dunque soltanto il 22% circa ciascuno.
Ma c’è di peggio. Infatti mettendo insieme il 34% dei disgustati col 22% del M5S abbiamo che più della metà degli italiani esprime un convinto rifiuto, un totale disprezzo, un insormontabile disinteresse per la politica. Non tanto perché non si rende conto del fatto che la situazione è pessima, quanto perché assolutamente non crede che la politica possa metterci rimedio. E men che meno che il suo voto possa migliorare le cose.
In questi casi è di rito un po’ indignarsi, e un po’ invitare la gente a ravvedersi. Reazioni inutili. Gli astensionisti e i “grillini” hanno probabilmente ragione. I politici non possono salvarci, come del resto non saprebbero farlo loro stessi se si riunissero in partito: perché la soluzione non esiste. La soluzione, come per gli incidenti stradali, è mettere l’orologio indietro di ventiquattr’ore e ricominciare quel giorno disgraziato.
La spiegazione più probabile del nostro malessere è che da un lato il nostro modello socio-economico abbia fatto il suo tempo, dall’altro che il mondo sia cambiato e il nostro Paese non è stato capace di adattarsi a questi cambiamenti.
La nostra società è figlia di un’ideologia di sinistra che ha come dogma fondante l’eterno sviluppo della produttività senza sforzo e la conseguente prosperità per tutti. E invece il meccanismo si è fermato. Pensavamo di essere ontologicamente superiori al resto dei cittadini del mondo e abbiamo scoperto che siamo meno colti di molti di loro, meno capaci di lavorare, meno capaci di produzione concorrenziale. Indimenticabile: quando una volta scrissi che, per resistere sui mercati mondiali, avremmo dovuto abbassare il costo del lavoro, un lettore mi scrisse indignato: “Vorrebbe che fossimo pagati come i cinesi?” Al che mi caddero le braccia. Potevo anche avere torto, ma mi colpì l’implicito razzismo: “Quale superiorità innata ed indiscutibile crede d’avere, costui, sui cinesi? Quale Padreterno gliel’ha data, in quale Giardino dell’Eden?” Ma sono sicuro che gli altri lettori hanno dato più ragione a lui che a me.
Altro dogma funesto è stato quello che fare debiti fosse cosa virtuosa e desiderabile. Tanto, una volta o l’altra, qualcuno o qualcosa se ne sarebbe occupato. Poi abbiamo improvvisamente scoperto che quel qualcuno siamo noi e non sappiamo come occuparcene. Infine abbiamo creduto saggio e coraggioso associarci a Paesi luteranamente attaccati al buon governo (quello – stupido - che bada alle entrate e alle uscite), per poi scoprire che vi siamo talmente inadatti, da averne ricavato soltanto i limiti e i difetti. Insomma da decenni viviamo in ritardo sui tempi, sordi ai messaggi dell’esperienza e attaccati ai nostri morenti privilegi come i nobili francesi prima del 1789.
Il partito dell’antipolitica, che già dispone di più di un “voto” virtuale su due, in Italia, ha ragione nella diagnosi. Purtroppo neanch’esso ha un’idea della terapia. L’unica soluzione che si prospetta è quella dell’azzeramento economico della nostra civiltà come l’abbiamo conosciuta, ripartendo da zero, come avviene dopo avere perso una guerra. Nel nostro caso, la più grande guerra dall’inizio della Rivoluzione Industriale.

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Tags:
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