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Palazzi & potere
Dalla parte della Costituzione: Marco Travaglio
Il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio

Affaritaliani pubblica un'ampio estratto della prefazione di Marco Travaglio al libro di Antonio Ingroia, Dalla parte della Costituzione.
 

 

Se questo libro avesse l’indice dei nomi, credo che il più citato vi risulterebbe Licio Gelli. Ma, per fortuna del libro, l’onnipresenza del defunto Venerabile non è al servizio di alcuna tesi complottista. Altrimenti non avrei accettato di scrivere questa prefazione, vi­sto che sempre più spesso il complottismo che vor­rebbe smascherare le imposture del potere finisce con il convalidarle e con il consacrarle. No, Ingroia non è un complottista: cita così spesso Gelli semplicemen­te perché il capo della loggia P2, con il suo Piano di rinascita democratica del 1976, fu indubitabilmente il precursore di tutti i tentativi di scardinare le garanzie della Costituzione Repubblicana con l’aria di “rifor­marle” o di “aggiornarle”: quello di Bettino Craxi e Amato nel 1979-80, quello di Francesco Cossiga nel 1990-92, quello della Bicamerale D’Alema-Berlusconi del 1997-98 (che avrebbe meritato forse uno spazio più ampio), quello di Giorgio Napolitano del 2013-16 (prima attraverso Enrico Letta, poi soprattutto trami­te Matteo Renzi). (...).

 

(...) Da sempre incistato nel vero Potere, italiano e in­ternazionale, palese e occulto, Gelli interpretava il so­gno di tutti i potenti, specie se loschi (ma anche non): fare i propri interessi senza rendere conto a nessuno. E metteva a disposizione la sua consulenza ai politi­ci della Prima Repubblica come a quelli della Secon­da, alla cui nascita contribuì con grande frenesia nel biennio 1992-93, come scoprì Ingroia con i suoi colle­ghi pm a Palermo con l’indagine “Sistemi Criminali” ampiamente raccontata in questo libro. E poi ancora nel 1994, quando prestò alla Repubblica uno dei suoi confratelli prediletti, Silvio Berlusconi. Lo stesso so­gno del potere senza controlli lo ritroviamo nel post-Berlusconi, quarant’anni dopo il Piano di rinascita, nel memorandum di JP Morgan, quintessenza delle tecnocrazie che comandano il mondo globalizzato a partire da quel gigantesco Bancomat che chiamiamo Europa. Non c’è bisogno di complottismi per capire come mai prima Craxi, poi Cossiga, poi Berlusconi, poi D’Alema, poi Napolitano e infine Renzi (tutti, curiosamente, affiancati dietro le quinte da Giuliano Amato) volevano e vogliono sbarazzarsi della Costi­tuzione: per sostituire la nostra pur scalcinata demo­crazia orizzontale, dove molti soggetti sono coinvolti nelle decisioni e in ultima analisi devono risponderne ai cittadini, con una falsa democrazia (o “democratu­ra”) verticale, dove comandano in pochi e gli elettori contano poco o nulla. Siccome poi le decisioni davve­ro cruciali non vengono più prese a Roma, ma in un paio di capitali europee, da istituzioni che nessuno ha eletto (tipo la Troika) e che rispondono a una ventina tra grandi fondi finanziari, centrali speculative e ban­che d’affari, è più che ovvio che costoro preferiscano rapportarsi, nei vari Stati, con premier che comanda­no su tutti anziché con governi che devono ciascuno fare i conti con un Parlamento, che a sua volta deve fare i conti con gli elettori, senza contare i controlli della Corte costituzionale, della magistratura, della stampa, delle televisioni, delle autorità indipenden­ti, dei sindacati e in ultima analisi della Costituzione. Dare ordini a un dittatore, meglio se travestito da pre­sidente del Consiglio democratico, è molto più como­do e anche più spiccio che darli a un governo che deve chiedere permessi qua e là e rischia continuamente di essere fermato da questo o da quello. (...)

 

(...) Prima di calare a Roma con la sua combriccola di provincialotti e parvenu, Renzi era immune da queste pulsioni: ma appena entrato al Quirinale con la lista dei ministri e nei palazzi del potere euro­peo, ha subito ricevuto precise consegne. E, per non perdere subito la poltrona, s’è volentieri acconciato a eseguirle. Anche a costo di mettersi contro l’elettora­to del suo partito, che dieci anni fa combatteva come un sol uomo la controriforma Berlusconi-Calderoli, molto simile ma un po’ meno pericolosa della sua, e ancora nel programma elettorale del 2013 (quello del­le elezioni che hanno prodotto questo Parlamento e questa maggioranza, sia pur estrogenata col premio illegittimo del Porcellum) definiva la nostra “la Costi­tuzione più bella del mondo”.

 

Per questo, ora che deve spiegare agli elettori le ra­gioni per cui dovrebbero votare Sì a questa solenne boiata – scritta oltretutto coi piedi da un’avvocatic­chia aretina, tal Maria Elena Boschi, e da un vecchio arnese berlusconiano, plurimputato e condannato in primo grado per corruzione, il noto Denis Verdini –, non sa che dire e preferisce seminare il terrore contro il No piuttosto che esporre i benefìci del Sì. Perché, di questa controriforma, non è né l’autore né l’estensore. È il semplice esecutore. Per dirla con Ingroia, “il fat­torino”. Diciamo pure il burattino. Anzi il Pinocchio, viste le balle che è costretto a raccontare. Un perso­naggino quasi ridicolo per un disegno molto più anti­co e più pericoloso di lui. (...)

 

(...) La “Grande Riforma”, nel­la Prima come nella Seconda Repubblica, ha sempre portato sventura a chi l’ha evocata o tentata: fallita la Bicamerale nel 1999, bocciata la Devolution al refe­rendum del 2006. Vedremo se anche nel 2016 il popolo italiano sarà ancora quello maturo e lungimirante di dieci anni fa, respingendo con lo stesso vigore e con lo stesso orrore il nuovo, vecchissimo, audace colpo dei soliti noti. Cioè di un Potere che, ancora terrorizzato venticinque anni dopo da Mani Pulite, le mani vuole tenerle sporche e per giunta libere di derubarci impu­nemente. Dei nostri diritti, della nostra democrazia e anche dei nostri soldi.

 

 

Marco Travaglio

Tags:
marco travaglioantonio ingroiadalla parte della costituzione.





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