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Palazzi & potere

Far uscire la pasta dentifricia dal tubetto è la cosa più facile e quasi automatica che ci sia. Ma farcela rientrare è un'operazione molto più difficile. Anzi, essa è quasi impossibile. La mondializzazione selvaggia, scrive Pierluigi Magnaschi su Italia Oggi, è stata realizzata in questo modo, per incoscienza o, a essere ottimisti, per leggerezza. E adesso, dovendo intervenire su di essa in qualche modo, è molto difficile riportarla a dimensioni fisiologiche e sopportabili da tutti, senza provocare sconquassi perché un conto è negare qualcosa a qualcuno e ben altro è cercare di togliergli quello che gli era stato concesso.

I primi a sbracare su questo argomento sono stati i presidenti americani e, fra questi, soprattutto quelli democratici, mondialisti per partito preso. Da Bush jr a Clinton, a Obama, gli Usa hanno crescentemente spalancato il loro paese sul resto del mondo, sperando di importare prodotti a minor costo (questa operazione è perfettamente riuscita) senza però compromettere la capacità produttiva del paese e quindi senza eliminare un sacco di posti di lavoro industriali (e qui invece tutti i presidenti Usa citati sono miseramente falliti).

Per capire la demenza economica espressa dagli ultimi inquilini della Casa Bianca, lasciando per un attimo sullo sfondo la Cina (che pure conta: anzi conta molto di più ma è anche diversa), basti ricordare, ad esempio, che sulle auto europee che si vendono negli Usa grava un dazio che è tre volte più basso di quello che viene applicato in Europa sulle auto importate degli Stati Uniti. Sulla base di questo fatto è forse strano che negli Usa si acquistino molte più automobili europee e che sulle strade europee non si vedano delle auto prodotte negli Stati Uniti che, a dire il vero, non si vedono proprio in giro.

A questo proposito non è il caso di parlare di protezionismo da parte degli Usa ma solo di sbracamento, di perdita di controllo dei fenomeni economici, di fuga dalle proprie responsabilità nella gestione della politica del proprio paese. L'élite intellettuale, prima ancora che politica, statunitense (quella per intenderci che vive prevalentemente a New York City o nelle megalopoli californiane del digitale) a furia di seguire solo la finanza, il quaternario professionale, la gastronomia ultrastellata, gli immensi campus frequentati solo dagli straricchi o dalle nicchie sociali protette, ha perso di vista gli operai che venivano lasciati per strada senz'alcuna protesta sociale percepita, e che poi, com'era inevitabile, si sono vendicati con l'unica arma che possedevano e posseggono: il voto.

La stupidità dei vertici progressisti Usa (complicata, nei suoi effetti, dalla circostanza che alcuni effetti non erano prevedibili) si è manifestata nei rapporti con la Cina. Il principale fatto non previsto, perché non prevedibile, era relativo alla possibilità, da parte di un'economia comunista, di svilupparsi economicamente. Fino a Deng Xiaoping escluso, nessuna economia comunista, in nessuna parte del mondo, era mai riuscita a svilupparsi economicamente. Tutti i paesi comunisti, dall'impero sovietico ai paesi Est europei e balcanici, ai regimi asiatici, a quello cinese, a quelli sudamericani, avevano portato i loro paesi al fallimento economico. Basti pensare all'ultimo, il Venezuela che, pur galleggiando sul suo petrolio, non riesce più nemmeno a rifornire le sue pompe di benzina.

Si poteva quindi far aderire la Cina all'Organizzazione mondiale del commercio anche se essa non rispondeva ai requisiti richiesti, come la libertà politica, quella sindacale e la tutela dei lavoratori. Tanto, dissero a Washington, più di tanto la Cina comunista non sarà in grado di crescere, com'era già capitato in tutti i regimi comunisti, nessuno escluso, in ogni parte del mondo. Da qui anche la disinvolta e cinica decisione delle multinazionali Usa di far assemblare a bassissimo costo in Cina i loro prodotti elettronici più sofisticati senza tener conto che i cinesi, sfruttati da queste esose compagnie, avrebbero ben presto imparato a maneggiare le nuove tecnologie e poi le avrebbero utilizzate a loro profitto.

Gli Usa (e anche tutti noi, non possiamo farci sconti; anche se da almeno un ventennio abbiamo capito che le cose stanno diversamente) gli Stati Uniti, dicevo, non solo sono finiti ma ci sono anche rimasti in una nassa dalla quale adesso non riescono più a uscire (almeno facilmente). Non avevano infatti capito che in Cina stava avvenendo una mutazione ritenuta impossibile anche perché non si era mai verificata fino a quel momento. E cioè che in un paese con un partito unico di tipo comunista avrebbe potuto svilupparsi anche un'economia capitalistica, veloce nel crescere e rapida nell'innovare. In Cina, il dirigismo statale e l'unicità del comando si sono combinati con la scioltezza imprenditoriale, nel settore industriale e finanziario, capace di misurarsi con il resto del mondo e di utilizzare tutte le occasioni che gli capitano a tiro.

A questo punto, mentre i radical chic americani galleggiano, beati, nel lago dei loro diritti non ancora soddisfatti (anche i più stravaganti e sempre più complicati), Trump si è trovato di fronte ai surplus commerciali stratosferici che, accumulandosi ogni anno, diventano sempre meno sostenibili per chiunque e non solo per la sua amministrazione.

Come ben dimostra Roberto Motta in questo stesso numero di ItaliaOggi, il problema dei surplus degli altri nei confronti degli Usa è diventato ineludibile anche se è frontale solo nei confronti della Cina (e, in parte, anche dell'Europa: che però Washington riesce a mettere in riga molto più facilmente, avendo a che fare con un gigante dai piedi d'argilla). Con la Cina, lo scontro-confronto, dopo molta melina, è arrivato adesso a maturazione. Come si concluderà, è difficile prevederlo. Entrambi i competitori hanno dalla loro delle carte valide. Bisognerà attendere di capire come esse saranno giocate. In ogni caso la partita è difficile perché, come dicevamo, non è facile rimettere nel tubetto la pasta dentifricia che era stata fatta fuoriuscire avventatamente.

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