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Palazzi & potere
Forza Italia e Pd, l'opposizione si è liquefatta

Il momento politico è molto difficile. Non perché al governo si sia insediata una maggioranza legastellata ma perché l'opposizione si è letteralmente liquefatta. Il bello, scrive Pierluigi Magnaschi su Italia Oggi, è che i vertici di entrambi i partiti che avrebbe dovuto darsi carico di un'opposizione risoluta (Forza Italia e Pd) non si sono ancora resi conto della situazione in cui essi versano. Berlusconi cerca di rianimare la sua esausta creatura politica con degli impacchi lessicali e delle gesticolazioni organizzative. Il Cavaliere infatti minaccia di coniare nuove denominazioni. Dice di volere coinvolgere nuove forze mentre nomina al vertice del suo partito (che è, e resta, un partito personale) solo persone a lui vicine, spesso da decenni. Continua infatti a non delegare neanche un grammo di potere. E si comporta come se la sua esistenza fosse infinita e come se a lui potesse sempre succedere solo se stesso.

Ma questa situazione, per Forza Italia, non è nuova. Il declino del partito di Berlusconi è costante da molto tempo. Non so se, a questo punto, scegliendo (anche se è molto improbabile che questo avvenga) persone nuove, mobilitando ceti sinora trascurati, aprendo il partito alle correnti d'aria della competizione politica interna, Forza Italia possa riprendersi. Ne sono tutt'altro che certo. Ad ogni modo, se si continua a tenere a bagno maria Forza Italia, il suo declino sarà, non solo irreversibile, ma anche definitivo.

Ma l'altro pilastro dell'opposizione, il Pd, è ancora più barcollante. Anche perché è un partito che non si rassegna alla potenza di un grande passato che però da tempo non esiste più. Da questo punto di vista restano famose (e illuminanti) la parole di Piero Fassino quando era sindaco di Torino. A un esponente dei cinquestelle (che a quel tempo erano quattro gatti spelacchiati) che polemizzava in consiglio comunale contro le scelte della sua giunta di sinistra, Fassino rispose con una frase che era sempre valsa nell'intera storia del Pci (e sigle successive), dal primo dopoguerra ad oggi. Disse ai pentastellati, certo che il patrimonio di voti del Pds-Pd sarebbe rimasto, anche in futuro, solido come una roccia: «Se siete così sicuri delle vostre tesi, presentatevi alle elezioni e conquistatevi la maggioranza per poterle realizzarle».

A quel tempo, molti erano convinti che Fassino, facendo il sopracciò, avesse ragione. Invece i grillini, dopo essersi presentati alle elezioni, spazzarono via gli ex comunisti torinesi come se questi fossero della fascine nel corso di un'alluvione. E la sinistra torinese, di fronte alla sua Waterloo, ritenne invece, un'altra volta, che, tutto sommato, si trattasse di un fuoco di paglia, una alluvione destinata a ritirarsi nel suo alveo di sempre, lasciando intatto o, al massimo, debolmente intaccato il patrimonio di voti e di controllo sociale e culturale di questa forza che, come diceva, ai suoi tempi d'oro, Rinascita, il settimanale ideologico del Pci, «è un partito che viene da lontano ed è destinato ad andare lontano». E che invece adesso è fermato all'angolo della strada per mancanza di carburante, cioè di idee nuove.

Il guaio del Pd è che non ha saputo leggere i fatti per come essi si sono verificati. Ha derubricato una disfatta in una semplice sconfitta. Non si è reso conto che il paese era cambiato. Profondamente. Ma il partito egemone (il vero partito rimasto su piazza dopo l'eutanasia della Balena bianca, la Dc) non credeva, e non crede, ai suoi occhi. Rifiuta di vedere la realtà per quello che essa è. Pensa di poter riavvolgere il gomitolo della storia che se ne era andato per conto suo senza farsene autorizzare dal Pd come sempre era avvenuto nel passato. Il Pd anziché trovare nuove proposte per inventare un partito riformista moderno (e solo dio solo sa di quanto ce ne sia di bisogno) ha preferito nuotare nel suo vecchio brodo. Sprecando le sue forze nelle risse intestine anziché nella progettazione di un nuovo scenario politico

Un'occasione però l'ha avuta, il Pd. È stata l'emersione improvvisa, come se fosse una meteora, di un leader non ingombrato dall'eredità del passato: Matteo Renzi. Al quale avevano inspiegabilmente creduto (anche questo fu un segno dei tempi cambiati) gli iscritti al Pd che gli consegnarono, con le primarie, il controllo del partito. Nei momenti cruciali il popolo vede più chiaro della nomenclatura (basti pensare alla scelta anticomunista del 1948). A Renzi avevano poi creduto anche gli elettori quando lo plebiscitarono con il 40% alle elezioni europee.

Renzi aveva per programma quello di rottamare la vecchia dirigenza del Pd che, 29 anni prima, era già al potere quando crollò il muro di Berlino. Questa classe, quando venne invasa Praga, stava ancora studiando mistica marxista alle Frattocchie mentre Giorgio Napolitano, tanto per fare un esempio, che era più anziano e collaudato, non se l'era sentita di criticare apertamente l'invasione dei carri armati del Comecon. Il termine rottamazione usato da Renzi era forse era inelegante. Ma rendeva efficacemente l'idea di un proposito che non solo era inevitabile ma anche ineliminabile, se si voleva far uscire dal fango nel quale si era impantanato il carriaggio decrepito del Pd. Se Renzi avesse parlato di pensionamento sarebbe stato sicuramente più delicato ma non sarebbe certo cambiata, nella sostanza, la sua inevitabile missione.

Rottamazione o pensionamento erano le azioni che la vetero-struttura del Pd non voleva accettare. Di conseguenza, la battaglia del rinnovamento interno del Pd (con nuove idee e inevitabilmente con nuovi quadri) basata anche sua proiezione concorrenziale verso gli altri partiti si tramutò quasi solo in una battaglia interna. Anziché trovare nuovi spazi e mobilitare un nuovo ceto di militanti, gran parte delle forze disponibili nel Pd fu usata per lottare l'uno contro l'altro, all'arma bianca, svendendo ideali e avvelenando i pozzi. Forse non poteva che avvenire cosi. Una nomenclatura non se ne va per conto suo. Per liberarsene deve essere sloggiata. E quando la nomenclatura è una nomenclatura già comunista, composta da leader che nella vita hanno fatto solo politica e che non sanno vivere altro che di politica, il pensionamento (come ai tempi di Andropov, in Urss) non è previsto. I leader di questo tipo scompaiono solo spegnendosi. Per un verso o per l'altro.

Da questo punto vista sarebbe stato provvidenziale il miliardo di lire inseguito da Di Pietro ai tempi di Mani pulite e che entrò nella segreteria nazionale romana del Pci, in via delle Botteghe Oscure, e che si è poi letteralmente volatilizzato (è sicuramente entrato ma la magistratura non è stata in grado, disse, di capire in che mani il malloppo si fosse poi fermato). Il miliardo di finanziamenti illegali volatilizzato nella sede del Pci sarebbe stato provvidenziale per questo partito perché lo avrebbe spazzato via per via giudiziaria, come avvenne per tutti gli altri partiti della Prima repubblica, liberando così lo spazio politico italiano da un'altra cariatide politica di cui assistiamo da troppi anni alla imbarazzante agonia. La dissoluzione per via giudiziaria del Pci sarebbe stata una bella notizia per la sinistra riformista italiana. Che non avrebbe consentito alle forze populiste di andare al potere. E che, in ogni caso, sarebbe oggi in grado di contrastarle. Per aiutarlo, il Pci è stato massacrato. E il Paese pure.

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