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Palazzi & potere
Governo, Conte esclude di poter vivacchiare. Ma che cosa ha fatto, in un anno?

In Italia è difficile, per un premier, fare la voce grossa, scrive Pierluigi Magnaschi su Italia Oggi. Essendo quasi sempre alla guida di coalizioni che poi, a loro volta, sono composte da tante correnti, egli deve fare l'equilibrista. I premier decisionisti, in quest'ultimo dopoguerra, che pure è durato la bellezza di 73 anni, si contano sulle punte delle dita di una mano. Senza pensarci tanto me ne vengono in mente solo due: Amintore Fanfani e Bettino Craxi. E si è visto che fine hanno fatto entrambi pur essendo stati, con tutto il tronco, al di sopra del livello dei loro concorrenti.

Ma il caso di Giuseppe Conte è incomparabile con le vicende di tutti coloro che lo hanno preceduto a Palazzo Chigi. Gli altri infatti dovevano, di tanto in tanto, camminare sulle uova. Conte invece deve camminarci sempre. Non è un equilibrista occasionale ma un camminatore naturale di questo tipo. Non fa quindi assolutamente fatica. Gli viene naturale. È la sua camminata, anche se non si sa dove l'abbia appresa. Del resto, se non fosse così, sarebbe già scoppiato. Invece, bene o male (più male che bene; ma a impossibilia nemo tenetur; di fronte all'impossibile non si può far nulla) ce l'ha fatta, sinora, a restare a galla.

Che la posizione di Conte sia difficile lo si è visto e lo si vede a occhio nudo e fin dall'inizio della sua premiership. Prima di tutto, infatti, Conte è un premier putativo. Non è un'accusa, questa, ma una semplice constatazione. I veri presidenti del consiglio (Luigi Di Maio e Matteo Salvini) sono infatti solo formalmente dei vicepresidenti del consiglio che però, in effetti, sovrastano il premier che è quindi al loro servizio. A palazzo Chigi, a guidare la baracca sono infatti in tre, anziché uno solo (il premier, appunto, così come, del resto, lo definisce esattamente la Costituzione).

Non solo, i vicepresidenti del consiglio sono, in contraddizione con la loro qualifica formale, non dei vice premier ma dei premier veri e propri, sia pure a mezzadria fra di loro. Vivacchiare da premier putativo fra queste contraddizioni permanenti e aggrovigliate, esige delle qualità singolari che, secondo me, posseggono solo i celebri contorsionisti del Cirque du soleil e che, per fortuna, non mancano a Giuseppe Conte. Quest'ultimo dopo essere riuscito a sopravvivere in questo primo anno di (formale) presidenza del consiglio, è stato rudemente sballottato dal risultato delle ultime elezioni europee dopo quelle non meno deflagranti regionali e locali.

Nelle elezioni europee, i pentastellati hanno perso, nel giro di un solo anno, 6 milioni di voti. La Lega invece, sempre in occasione di questo appuntamento elettorale, ne ha guadagnato quasi altrettanti. Sino alle europee, Salvini aveva supplito, in Parlamento, al suo deficit politico-elettorale rispetto all'M5s, ricorrendo alla sua abilità di manovra e, alle volte, anche alla sua naturale tracotanza. Ma adesso che le urne hanno attribuito alla Lega la leadership politica formale del governo, Salvini deve tener presente (altro che cubo di Rubik!) che, se nel paese, la Lega è diventata indubbiamente il primo partito italiano, in parlamento siedono ancora coloro che sono stati eletti nelle precedenti elezioni politiche, quelle cioè che avevano sancito la travolgente (anche se poi travolta) vittoria dei pentastellati.

In tutto questo baillamme, che sarebbe come giocare a tennis con sei avversari contemporaneamente, il premier Conte ha espresso, bisogna riconoscerglielo, delle straordinarie qualità camaleontiche difficilmente replicabili da altri. È stato infatti scelto e imposto come premier dai pentastellati e quindi è diventato il loro rappresentante a Palazzo Chigi. Con il passare del tempo, Conte ha tentato di connotarsi come premier super partes, cioè non più espressione dei soli pentastellati e nemmeno anche dei leghisti ma di se stesso. E già questa è una bella presunzione, visto che, caso mai, avrebbe dovuto rappresentare la coalizione giallo-verde i cui interessi sono stati sempre mediati direttamente da Di Maio e da Salvini che, ogni volta che avevano raggiunto un'intesa su qualche tema controverso, ne giravano dopo la mera esecuzione al premier loro sottoposto (e a questo punto alla Costituzione è venuto un attacco lombare a causa del fatto inconsueto di dover tener d'occhio tutte queste giravolte mai prima eseguite).

Conte ha anche cercato di liberarsi dalla tutela diretta di Di Maio, esibendo, nei suoi cauti comportamenti e discorsi, una almeno apparente equidistanza fra i suoi due danti causa e, in particolare, dal più ingombrante, Di Maio. Ma mentre stava tessendo questa delicata tela, fatta di pesi e di contrappesi, di fughe in avanti e di precipitose ritirate, è scoppiata la vicenda delle dimissioni del sottosegretario leghista Armando Siri, sulle quale Salvini, in un primo tempo, non essendo d'accordo, faceva resistenza. Su questa vicenda (che si era subito arroventata perché era caduta nel bel mezzo dei duri confronti pre-elettorali fra i due vicepresidenti) Conte, che fino a quel momento aveva sempre usato toni sfumati e biunivoci, è stato costretto a uscire alla scoperto e a usare dei toni che l'urlo di Tarzan fa ridere. Infatti, probabilmente stupendo lui stesso, Conte ha gridato ai media: «O Siri se ne va, oppure lo schiodo io dalla sua seggiola». Ma comportandosi così, Conte è uscito da limbo delle cose dette e non dette e si è connotato com'è (e come non poteva non essere) e cioè al comando di Di Maio.

Ha perciò stupito la conferenza stampa indetta da Conte subito dopo l'apertura delle urne europee, durante la quale, nonostante la precarietà che aveva investito il bipartito e, a maggior ragione, lui stesso, il premier ha mandato degli improbabili ultimatum, tutti destinati a finire fuori rete. Fatti per palleggiare, non certo per fare dei gol.

Conte, in quest'occasione, ha detto, ad esempio: «Se i comportamenti non saranno trasparenti rimetterò il mandato nelle mani del presidente della repubblica» (e di chi altri, sennò?). O anche: «Le due forze politiche debbono essere consapevoli del loro compito, se ciò non dovesse esserci, non mi presterò a vivacchiare per prolungare la mia presenza». Cosa che ha potuto fare sinora senza battere ciglio? Conte inoltre ha invitato Di Maio e Salvini (senza mai nominarli perché potrebbero arrabbiarsi, par di capire) «di dirci se hanno intenzione di proseguire nello spirito del contratto». Un'affermazione, questa, che significa assolutamente niente perché il «contratto», come si è ben visto in questo primo anno di governo, si presta a tutte le interpretazioni possibili. Se il contratto fosse stato fin dall'inizio chiaro, non avrebbe potuto essere firmato dai due partiti che pur essendo uniti in parlamento sono, nei fatti, divisi su tutto.

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