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Palazzi & potere
Mario Vattani: "Racconto un Islam lontano dagl stereotipi"

Dopo il successo del suo romanzo di esordio, il noir ‘’Doromizu. Acqua torbida’’ (Mondadori, 2016), Mario Vattani, diplomatico, nel suo ultimo libro, ‘’Al Tayar. La corrente’’ (Mondadori, 2019), racconta una storia ambientata in Egitto, dove ha vissuto per molti anni, ma sempre con protagonista il giovane Alessandro Merisi. La ‘’Corrente’’ è un percorso iniziatico per raggiungere la bellezza, naturalmente non privo di ostacoli e perigliose prove da affrontare.

 

Uno dei più grandi scrittori di sempre, Philip Roth, ha detto: ''Sono uno che sta cercando di trasformarsi vividamente uscendo da se stesso per entrare nei suoi personaggi in vivida trasformazione. E soprattutto sono uno che passa tutto il giorno a scrivere''.

Che cosa significa per un uomo come te, che di professione non fa lo scrittore ma il diplomatico, scrivere?

 

È una bella immagine quella di trasformarsi attraverso i propri personaggi, la condivido. Vi aggiungerei anche il gusto di sottoporre i propri personaggi a delle prove, inserirli in situazioni pericolose o estreme, misurando e comparando le reazioni dei protagonisti con le nostre. E’ un esercizio che finisce per seguire anche lo stesso lettore. Ma riprendendo la citazione di Roth, anche in certi uffici della Farnesina si passa gran parte del giorno a scrivere. Diplomazia e scrittura non sono così incompatibili. Anzi, come il sacco per un pugile, il “reporting” diplomatico costringe chi scrive a riferire in modo completo e credibile, ma anche breve e neutro. Il risultato è che nel mio modo di raccontare - rigorosamente in prima persona e al presente - cerco una precisione fotografica, immediata. Anzi, cinematografica. E nonostante sia fiction, sento che nell’ambientazione non mi è permesso discostarmi dalla realtà, e che tutte le informazioni date devono essere verificabili.

 

 

Al Tayar- La Corrente (Mondadori), il tuo secondo romanzo, è ambientato in Egitto, a Il Cairo, mentre il tuo primo romanzo, Doromizu- Acqua Torbida (Mondadori), era ambientato in Giappone, quanto influisce il Paese in cui vivi sulla storia che stai scrivendo?

 

Il Giappone e l’Egitto sono entrambi paesi dall’identità molto profonda, in cui ho avuto la fortuna di abitare e lavorare. Sia a Tokyo sia al Cairo ho vissuto in maniera molto intensa. Quindi mi sono servito delle emozioni che mi hanno accompagnato durante gli anni in Egitto, ricordi, persone, colori, suoni, sapori, per dare al libro la sua patina particolare, per renderlo più vivido. Tra le cose che cambiano rispetto al contesto giapponese, stavolta c’è anche il ritmo, lo scorrere del tempo. È una forza parallela alla corrente del Nilo, dove la danza e la musica che fanno da sfondo alle azioni influenzano le scelte dei protagonisti, tracciano il loro destino.

 

Se dovessi descrivere il protagonista, Alessandro Merisi, 25 anni, personaggio centrale di entrambi i tuoi romanzi, da che cosa cominceresti per definirlo?

 

Quasi per gioco, il mio Alex è frutto di una citazione che riporta al protagonista di “Arancia Meccanica”, il celebre romanzo di Anthony Burgess. La somiglianza con lui è duplice: da una parte le vicende di Alex costringono il lettore ad assumere una posizione a-morale, a identificarsi con un protagonista nel cui carattere non mancano aspetti negativi. Dall’altra la corrente di Al Tayar insegna a muoversi in una lingua e una cultura diverse, che alla fine del romanzo ci si accorge improvvisamente di aver “imparato”.

Alex è un giovane che vorrebbe migliorarsi, imparare, riuscire ad avere al Cairo una vita normale. Eppure ogni sua scelta lo allontana da questo obiettivo, ogni sua decisione lo fa scendere sempre più in basso, trascinato da una corrente inesorabile a cui non sa – o forse non vuole – opporsi.

La bussola di Alex, in questo suo percorso, oscilla costantemente tra due ispirazioni opposte, da una parte il severo dovere di “dare sempre il meglio di sé”, dall’altra la scelta di “lasciarsi andare”. Seguire il destino che ci è tracciato davanti, secondo il mito romantico per cui la fine di ogni cosa è sempre con noi. Tutto, intorno ad Alex, va disgregandosi, il cerchio si stringe.

 

In Al Tayar, la ‘’corrente’’ porta il protagonista in un territorio, non solo geografico, ma soprattutto esistenziale dolente, pericoloso e in cui il bene e il male quasi si confondono, un luogo dove si smerciano organi umani. Come si riconosce il bene dal male e come ci si salva dalla ‘’corrente’’, sempre che ci si possa salvare?

 

L’architettura di Al Tayar, come nel precedente romanzo Doromizu, ha un lato iniziatico. La chiave di volta di questo sistema è la ricerca della bellezza, della purezza, della luce nel buio. È una ricerca che va ben oltre il bene e il male, e nascosta in una Cairo a tratti spaventosa, c’è una anche una storia d’amore. È l’amore per un Egitto di cui viviamo un’intensità femminile, come le donne di cui Alex si appassiona anche per un solo istante. Una possibile salvezza è in questo amore, che è percezione dell’essenza del divino, è presente nella danza, come anche nelle antiche statue, immobili e imperturbabili, onnipresenti testimoni del passato.

 

Dopo le dimissioni nel febbraio 2011 dell’ex presidente Mubarak e dopo quella che allora fu definita ‘’primavera araba’’ l’Egitto è inevitabilmente cambiato come tutto il Medio Oriente. Che cosa ne pensi?

 

L’Egitto attuale è certamente diverso da quello in cui ho abitato negli anni tra il 1998 e il 2001. In Al Tayar, che tuttavia non è situato in un momento specifico, sono presenti la freschezza e la magia del primo oriente a cui sono stato esposto, ma anche la sensazione che tutto questo stia inevitabilmente per finire. Di quel mondo in subbuglio era importante far conoscere attraverso i personaggi del romanzo alcuni aspetti più personali, alcuni tratti che ho dipinto nei miei protagonisti, in particolare quelli femminili. I sogni di una generazione, il loro contrasto con la realtà, il patriottismo di tanti giovani universitari, e poi un Islam che non è affatto monolitico, e di cui a mio avviso valeva la pena di far trasparire alcune caratteristiche che meno rispondono agli stereotipi a cui si ricorre spesso in Europa quando si tratta di quel mondo.

 

 

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