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Palazzi & potere
Mughini: "Milano è la mia città è lì che il sindaco Sala mi ha sposato"

Giornalista e scrittore, iconico, popolarissimo, personalità carismatica, penna brillante, personaggio televisivo divisivo, o lo si ama o lo si odia, Giampiero Mughini, alla soglia degli ottanta anni, portati da dio, resta uno degli ultimi intellettuali italiani.  Raffinatissimo, colto, cui dobbiamo pagine di memoria storica, costume e molto altro. Conoscerlo è un privilegio, ascoltarlo è sempre un dono, leggere il suo ultimo libro, Nuovo Dizionario Sentimentale, Marsilio, è immergersi nella bellezza assoluta delle sue parole, dei suoi sentimenti (soprattutto quando racconta della madre e dei suoi ‘’figli’’, i setter Bibi e Clint), e della sua capacità di osservatore di fatti storici e fatti privati che regala ai lettori. Mai così a nudo, con grande intensità: ‘’Ci ho messo non poco tempo a intendere il mondo e ad avere un’adeguata esperienza del dolore, ossia del sentimento il più immanente al vivere’’.

Sembra calzargli perfettamente una celebre frase del filosofo Raymond Aron, tratta da Le Spectateur engagé, del quale Mughini racconta la morte nel libro, ‘’Decisi allora di essere un «osservatore impegnato». Volevo essere l'osservatore della storia mentre si realizzava, preoccupandomi di essere, rispetto a questa storia che si realizzava, quanto più possibile oggettivo e insieme non del tutto distaccato, ma impegnato. Volevo unire insieme l'atteggiamento dell'attore con quello dell'osservatore’’, che ne rivela la doppia anima di osservatore-scrittore e di attore- televisivo.

 

Nuovo Dizionario Sentimentale è il naturale prosieguo del Dizionario Sentimentale del 1992 o, addirittura, il tuo libro definitivo?

Facciamo le corna. Non c’è dubbio che tra i due dizionari c’è una forte parentela sentimentale.  Il primo, che uscì nel 1992, era un dizionario, con le voci addirittura in ordine alfabetico, che riassumeva gli spezzoni dell’identità di un uomo che era nel momento più vitale della sua esistenza. Allora avevo cinquant’anni, ma in quell’epoca avere cinquant’anni per la mia generazione equivaleva ad averne quaranta delle generazioni precedenti.  Quest’uomo che era al massimo della sua vitalità componeva questo ritratto fatto di frammenti, che è una tecnica che a me piace molto. Il Nuovo Dizionario Sentimentale è un ritratto fatto a spezzoni di un signore che è giunto certamente al tratto finale della sua esistenza, cioè è il momento di un bilancio, in cui uno fa i conti con tutto: libri, donne, la famiglia se ce l’ha, l’ultimo capitolo è dedicato al mio cane. Non sarà l’ultimo libro, perché sto lavorando già al successivo.

 

La costante del sentimento è molto evidente in questo tuo libro.

La cosa che più resiste e che meglio mi connota è il sentimento. Non mi sento connotato, non più, da identità che potremmo definire politiche o ideologiche, anche perché non sono più adepto di alcuna delle ideologie correnti.  Quindi, sì, sottolineo con forza il fatto che le cose importanti nella vita sono altre: l’amicizia, le donne, i libri, le abitudini, le lealtà.

 

Nel capitolo dedicato alla morte di tua madre c’è qualcosa di sincero al limite del pudore, parli del sentimento di vergogna che provi nei suoi confronti ancora oggi.

Penso che io dovessi a mia madre queste paginette, anzi glielo dovevo assolutamente. Mia madre aveva avuto una vita, la più sfortunata possibile, veniva da una famiglia di borghesia possidente che aveva perso tutto. Si era sposata molto giovane con un uomo parecchio più grande di lei e quel matrimonio era durato poco. Nell’Italia degli ultimi Quaranta, primi Cinquanta, in cui lei è una giovanissima separata non c’era la possibilità di un nuovo matrimonio, ammesso che questo fosse stato un suo desiderio. Mia madre era la mia famiglia. Quando io sono andato via dalla Sicilia nel 1970 non c’era di che comprare il vino più di una volta la settimana. Lei era sola, veniva a Roma due, tre, volte al mese, da me, restava a lungo, ma forse era poco. Forse lei avrebbe voluto molto di più, ma molto di più sarebbe stato molto difficile. Quindi con un sentimento di vergogna ho scritto queste pagine che erano un dovere sentimentale.

 

La sua depressione negli anni a venire l’hai capita profondamente, dichiari di averla avuta anche tu. Anche nella malattia di cui avete sofferto entrambi ti senti legato a lei?

Naturalmente ho bissato un momento della vita di mia madre, non c’è dubbio le cose si consegnano per geni.  Mia madre mi ha consegnato la miopia, un certo atteggiamento nei confronti delle cose belle, poi mi ha consegnato anche la depressione. Lei ebbe una prima depressione attorno ai settantacinque anni ed è esattamente l’età alla quale io l’ho avuta. La depressione è una malattia molto difficile da far capire a chi ti sta davanti. Io ero nelle condizioni di non avere la forza di farmi un caffè la mattina, come di solito faccio. Non avevo questa forza e chiedevo a Michela di farmelo e lei pensava che fosse una sorta di capriccio. Letteralmente non avevo la forza di aprire la macchinetta, accendere il gas, molto difficile. Tu perdi la possibilità di fare le cose che ami di più. Durante la mia depressione, per sei, sette, mesi, non ho letto un libro, non ero in grado.

 

Ne sei uscito totalmente?

Sì, certo, poi sai è una spada di Damocle che resta aperta, l’hai avuta una volta puoi averla una seconda.

 

Le cause sono i geni e l’età?

L’età che avanza, il bilancio della propria vita.  Io penso di essere uno dei protagonisti della mia generazione, forse anche di più, ma la mia vita è stata difficile a causa della mia indipendenza, della mia libertà intellettuale, del mio non accodarmi agli uni e agli altri, ho vissuti anni difficili. Io mi trovo dinanzi gente che reputo di terz’ordine che è a capo di questo e di quello. Non volevo essere a capo di questo e di quello, ma neppure avere un vice direttore, una nullità, che a Panorama mi rendesse obbligatorio di dimettermi. Quella è stata una pagina dolorosa. A quel punto, dopo la soverchieria infame di contestarmi quella nota spese, mi sono dimesso da un giornale di cui ero stato per anni la firma di punta.  Tutto questo è stato molto pesante. Un giornale in cui mi aveva assunto Claudio Rinaldi, il più grande direttore della mia generazione. Amaro che ci fosse un miserabile, era una donna ma non lo diciamo, tale che il direttore di Panorama, che un tempo era mio amico, non avesse mai fatto una telefonata, non pronuncio il nome perché sono una persona elegante. Un’altra delle cose che mi hanno nuociuto molto è che sono elegante in un mondo di iene, nel mondo dei giornali di cui ho scritto che al confronto i cannibali sono dei vegani.

 

Non ti ho mai sentito parlare male di nessuno

Queste miserie non mi appartengono.

 

Pensi che ci sia un debito da parte del giornalismo e dell’intellighenzia italiani nei tuoi confronti?

A questa domanda non posso rispondere io, prova a rispondere tu.

 

Quante e quali paure hai?

Non moltissime, a dire il vero. Naturalmente so che ogni giorno che passa è un giorno in meno, mi scoccerebbe molto trascorrere anni in cui respiro e sono vivo ma per il resto la mente si è addormentata.  Ho la fortuna alla mia veneranda età di essere assolutamente aguzzo e vitale come quando avevo quaranta anni, anzi di più perché ho più esperienza. Paure? Con la vecchiaia mi è venuta la paura di volare, io avevo sempre preso l’aereo come se fosse una bicicletta e invece da qualche tempo ho paura. Una paura più grande, più sottile, è quella di essere tradito da un amico, da un’amica. Mi difendo da questa paura centellinando le amicizie, anzi in fondo ho avuto un’amicizia femminile per tanti anni che era molto importante e adesso a questo punto non ne ho più.  Forse anche questa esperienza, quella del femminile, si è consumata e si riduce alla sola presenza di una donna nella mia vita, la mia compagna, ora poi mia moglie.

 

In memoria di B. è un capitolo splendido su una donna che ti ha affascinato.

Nello scritto non ho aggiunto neppure un quarto di parole che non fosse la realtà per come è andata. Poi è noto che i maggiori romanzi col femminile non li hai nella realtà ma li hai nella tua mente.

 

Quali erano gli elementi di fascino di B?

Era molto provocante, a me questo piace molto, sfuggente, anche questo mi seduce.  Tutto avveniva a Paese Sera, un giornale comunista, dove erano tutti comunisti, era una ‘’razza’’, scusa l’espressione, che conosco molto bene che non amo particolarmente, ma lei non lo era. Era di sinistra come lo poteva essere una donna negli anni Settanta, infatti era divenuta molto femminista.  Io sono entrato in questo giornale di cui lei era la star, io mai faccio la prima mossa con una donna e la fece lei.

 

Il 5 Gennaio del 1970 parti da Catania per Roma. In questo tuo desiderio di scrivere c’era una voglia di riscatto?

Di riscatto dalla provincia meridionale, questo sicuramente. Tra i quindici e i diciotto anni, la cosa più importante della mia vita dal punto di vista della formazione morale, è stato lo sport, la ginnastica artistica. Il novanta per cento della mia vita era occupato dalla ginnastica artistica e il dieci da non so cosa. I libri, invece, entrano nella mia vita prepotentemente attorno ai diciotto anni. Sono andato ai campionati italiani, perché avevo vinto i campionati regionali.  Ai campionati italiani sono stato annichilito dai ginnasti che avevano a loro disposizione le palestre del Nord d’Italia, che rispetto alle palestre in cui mi allenavo era come se tu paragonassi Milano a un quartiere povero di Catania. Questa umiliazione mi aveva annichilito e mi ritirai addirittura, ma ritiro a parte, ero tra gli ultimi. Da quel momento ho detto: io devo andare dove sono le palestre del Nord, devo disporre anch’io di quelle possibilità. Volevo andare dove si giocava la ‘’partita’’, dove c’erano i giornali, le case editrici. Tanto che, pur essendo nato in Sicilia, pur abitando a Roma, la mia patria è Milano.

 

Perché?

A Milano ci sono le case editrici con cui ho pubblicato tutti i miei libri, i giornali per cui ho lavorato, L’Europeo di Sechi, il Panorama di Rinaldi, Il Giornale di Montanelli. Oggi c’è Mediaset che mi dà di che mangiare.  Io ho per Milano un’adorazione. Giuseppe Sala è il mio sindaco, ma in senso proprio. È stato Sala a officiare il mio matrimonio con Michela, l’undici settembre scorso. Le figlie di Michela vivono a Milano e mia moglie ci teneva che ci sposassimo a Milano, io ero totalmente d’accordo, entusiasta. Il mio amico Giuseppe Sala ha officiato il rito nuziale. Roma è una gran bella città che mi ha accolto quando ero senz’arte né parte senza farmelo pesare troppo e questa è una cosa molto importante, che non dimentico.  Ma poi il mio reddito, l’ottanta per cento di cui vivo, l’ho fatturato su Milano.

 

Il tuo rapporto antico con Parigi e le librerie?

 Quando arrivai a Parigi le librerie erano già entrate nella mia vita. Non era entrato nella mia vita, e meno male, il collezionismo di libri, che entra poco dopo. Se fosse entrato allora, senza un soldo, mi sarei buttato nella Senna. Mio padre mi dava trentamila lire al mese e nei primissimi anni Sessanta non era una cifra da buttar via, ma io spendevo, avevo venti, ventuno anni, interamente nell’acquisto di libri. Ho cominciato nella mia stanzetta a casa di mia madre, ho messo in piedi una libreria piccola un’unica parete, la parete poi sono diventate quattro. Infine, ho invaso una seconda stanza, poi a Roma tre stanze e adesso sette stanze sono dedicate ai libri.

 

Racconti anche degli artisti del Cobra, di cui Jorn, artista danese, definisci uno degli eroi del tuo libro.

Personaggio in quel modo lì, pittore, ceramista, viveur, organizzatore di cultura ecc., certo che è uno degli eroi del mio libro!

 

E l’Internazionale Situazionista?

Roba di cui in Italia sanno in pochi. I Situazionisti sono i veri padri della mia generazione. Nella mia  generazione, specie in Italia, c’erano molti marxisti-leninisti, futuri assassini ecc, ma il meglio della mia generazione, senza che loro lo sapessero, veniva dai situazionisti, forse un po’ gli indiani metropolitani ma poco.

 

Il tuo amore per il cinema da dove nasce?

Era la boccata di ossigeno. Cosa vuoi che potessimo fare a Catania senza una lira? Abbiamo fatto il giro del mondo in ottanta film. Il Centro Universitario Cinematografico è stata la mia prima tana pubblica, ne sono divenuto ben presto il presidente, per tre anni. Dal centro è nata Giovane Critica che è stata la cosa più importante della mia vita, perché se io sono Mughini è perché ho fatto Giovane Critica.

 

Da qui l’incontro con Nanni Moretti?

A Roma. Nel gruppo di giovani intellettuali che conobbi c’era il fratello maggiore, Franco Moretti, in ragione della mia amicizia con lui, conobbi Nanni, che spiava gli amici del fratello maggiore e i suoi film nascono da questa spiata.

 

L’intervista a Leonardo Sciascia è un pezzo magistrale.

Vuoi sapere una cosa che non ho voluto scrivere sul libro?  Quell’intervista l’ho fatta nel dicembre del 1979 in un momento in cui ero disoccupato, scrivevo per Mondo Operaio che era una bellissima rivista nata dal partito socialista, è stata la più bella rivista politico culturale di quegli anni. In questa rivista c’era una rubrica che si intitolava ‘’Nel corso di una vita’’ ed erano interviste molto lunghe fatte a personaggi molto particolari. A suggerire l’intervista a Sciascia fu Claudio Martelli che partecipava alle riunioni della redazione ma non ne faceva parte.  Lui quelli della sua età se ne mangiava dieci a colazione.

 

La sicilitudine di cui ti parla Sciascia nell’intervista non ti riguarda?

No, per nulla. Era tale la mia voglia di essere e andare altrove che non ho assolutamente questo radicamento in Sicilia. Non sono stato mai neppure lontanamente macchiato dalla sicilitudine. Tieni presente che io non conosco una parola di dialetto siciliano. Volevo essere italiano non siciliano. Mio padre era toscano, questo aiuta a capire, ero metà e metà. La metà siciliana non ce l’ho, forse l’orgoglio.

 

Che cosa ti ha catturato di Sciascia?

Era ipnotizzante. Quando la sera uscivamo insieme in tutto diceva dieci parole, ciascuna delle quali te la ricordavi per sempre. Aveva un rapporto con i libri carnale.  Lui non è che leggeva i libri, lui li viveva. Da Caltanissetta lui ha fatto il giro del mondo in ottantamila libri. Lui era profondamente siciliano, il maestro per eccellenza della mia generazione. Collaboratore di Giovane Critica. Io organizzai a Catania la presentazione di quel libro meraviglioso che è Feste religiose in Sicilia nato dalle fotografie di un altro mio grande amico, Fernando Scianna, e dai testi di Leonardo. Aveva un rapporto totalmente viscerale con i libri, con la Sicilia, con la scrittura. Destino ha voluto che lui si fosse messo in testa di scrivere un libro su Telesio Interlandi, giornalista più fascista di tutti, allora per suo tramite avevo conosciuto il figlio di Telesio Interlandi che viveva a Roma, l’architetto Cesare Interlandi. Io aspettavo questo libro di Leonardo, solo che lui è morto ed è andato tutto perduto. Mi telefona l’architetto Cesare Interlandi e mi dice se lo scrivo io. C’ho pensato un minuto e ho detto di sì.  C’ho lavorato un anno e mezzo a quel libro, A via della Mercede c’era un razzista, Marsilio, per poi venire ricoperto di insulti sul mio giornale, Panorama. Credo che sia uno dei mie più bei libri; ti confesso che includo anche questo nei mie più belli.

 

Scrivi anche della Parigi del 1934, perché hai scelto quell’ episodio storico?

Rovescia i luoghi comuni degli analfabeti. Gli analfabeti pensano che la cultura venga dalla sinistra e non possa non venire dalla sinistra, non è mai stato così.  Nel 1934 la cultura della destra era soverchiante. Io racconto che i giornali della destra vendevano otto volte quelli della sinistra. Quell’episodio lì è il risultato di venti anni di frequentazione di quei temi. Un lettore medio non lo sa, la cultura non nasce per forza a sinistra come hanno creduto i beoti per tanto tempo, la cultura nasce dappertutto ovviamente. Nell’Europa del Novecento è nata a destra tante volte.

 

Parigi ritorna nella tua vita.

 Milano è la prima città della mia vita, la seconda è Parigi.

 

Quanto tempo manchi da Parigi?

Quella Parigi che ho vissuto non esiste più. Quel Quartiere Latino non esiste più quindi non è giusto dire quanto tempo manco, dalla Parigi di oggi qualche anno. Ma io resto marchiato dalla Parigi in cui le librerie erano sulla strada una porta sì e l’altra pure, oggi hanno chiuso tutte. Non ci voglio tornare a Parigi.

Il ruolo dello scrittore può essere ancora quello dell’intellettuale impegnato politicamente, alla Sartre che si invera?

No, non esiste più. Penso che un intellettuale umanista, che è il tipo di intellettuale cui ti riferisci, oggi può avere un’influenza su dieci, quindici, persone, non di più. Gli intellettuali che contano oggi sono quelli che costruiscono computer raffinati e aerei da combattimento.  L’intellettuale umanista è una sopravvivenza di un’epoca precedente. Dell’epoca in cui non c’era internet.

 

Fenomeni letterari come Sandro Veronesi?

Ma perché un libro come Il Colibrì, che io ho letto, è un libro che influenza che cosa? È un bel libro, un piacevole libro, non straordinario, ma non è mica Victor Hugo che cambiava lo spirito del tempo e il destino della Francia. Non c’è più l’intellettuale impegnato che influenza la società. Né d’altra parte, Veronesi, che è un uomo intelligente, si prefigge questo scopo. Intellettuale engagé era Sartre, appunto, non è pensabile oggi e non è una gran perdita, perché Sartre metà delle cose che ha professato erano puttanate, c’ha fatto credere che Cuba e la Cina maoista erano una gran cosa, porcaccia miseria! Una responsabilità non da poco. Oggi chi influenza la società è Chiara Ferragni.  La tristezza della mia vita è che chi come me non sta sui social network non esiste.

 

Il tuo social è la tv?

Quando vado in televisione quando mai parlo di cose che mi stanno a cuore? Di quegli argomenti che stanno nel libro non ce n’è uno che io abbia pronunziato in televisione, dove, se tu pronunci un titolo di un libro, si fa il gelo. L’Italia è più analfabeta di quanto non si dica. Non sanno nulla. La televisione mi dà di che vivere e mi ha insegnato che a comunicare devi essere rapido, incisivo, essenziale, e questa incisività ha fatto bene persino alle mie pagine scritte.

 

 

 

 

 

 

 

 

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