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Palazzi & potere
Pd, la politica e il consenso (che non tutti riescono a raccogliere)

Considero Marco Minniti uno dei migliori politici italiani dell'ultimo mezzo secolo. Lo tengo d'occhio da almeno vent'anni, da quando cioè lavorava quasi solo dietro le quinte, e l'ho visto sempre operare con straordinaria efficacia, tenendo in primo piano l'interesse del paese. Il suo capolavoro assoluto, scrive Pierluigi Magnaschi su Italia Oggi, è stata la politica sull'immigrazione che ha affrontato, direbbe la famosa esponente grillina, a 370 gradi. L'ha affrontata con determinazione, senza tener conto delle neghittose intenzioni al riguardo del suo partito (che lo frenava senza ritegno) ma mettendosi al servizio delle evidenti necessità del paese.

Necessità che, purtroppo, erano state clamorosamente e reiteratamente disattese dal duo Renzi-Alfano con i risultati che sono stati a lungo sotto gli occhi di tutti ma non del partito capalbiese, quello delle zone Ztl, con i disastrosi esiti elettorali che poi si sono visti e che continuano a essere sottovalutati dalla dirigenza attuale del Pd.

Agevolato dal fatto che Alfano, ritirandosi ma non dimettendosi dal governo, aveva lasciato, in sostanza, vacante la casella da ministro degli esteri, Minniti, che allora era ministro dell'interno, ha potuto affrontare il problema dell'immigrazione nella sua complessità e interezza. Com'è suo costume, del resto. Infatti, per ridurre considerevolmente l'alluvione immigratoria (che, come tutte le alluvioni, è pericolosa e, alle volte, anche tragica) Minniti non aveva solo tentato di fermare fisicamente i mezzi in mare ma aveva anche tessuto una ragnatela di rapporti internazionali con i paesi nordafricani, usando con essi, senza nessuna ribalderia o esibizione, il gioco del bastone e della carota che è più efficace quanto più è nascosto, sottotraccia.

Come mai, allora, un politico così avvertito e commendevole, com'è indubbiamente Minniti, ha dovuto adesso rinunciare alla sua candidatura alle primarie indette per poter conquistare la segreteria del Pd? La spiegazione è molto semplice, anche se non è quasi mai accennata da nessuno, impedendo così all'opinione pubblica di capire come stanno effettivamente le cose.

Ci sono infatti dei politici che sono in grado di raccogliere consenso, cioè voti. E ci sono invece dei politici che sono in grado di bene amministrare. Nel gioco democratico (e della gestione efficiente del Paese) entrambe queste caratteristiche sono utili. Ma non sempre (anzi quasi mai) esse sono rinvenibili nella stessa persona. Minniti, ad esempio, non è, notoriamente, una calamita di voti. Mentre lo sono, ad esempio, Renzi (per non dire Michele Emiliano, il governatore della Puglia). Non a caso, Minniti, che pure era aureolato dal suo straordinario successo al ministero dell'interno, riconosciutogli da tutti, avversari compresi, non è riuscito nemmeno a essere confermato nel collegio elettorale della sua provincia nel corso delle ultime elezioni politiche del marzo scorso.

È alla luce di queste considerazioni che si capisce perché adesso Minniti abbia voluto/dovuto ritirarsi dalle primarie del Pd. Sinora infatti Minniti era vissuto su un equivoco basato sulla sua convinzione che Matteo Renzi lo avrebbe sostenuto gratuitamente e in ogni caso nella sua corsa alla segreteria del Pd. Ma in politica (come anche nella vita) non c'è mai nulla di gratuito. C'è sempre, scoperto o nascosto, un do ut des.

Vediamo quindi, alla moviola, che cosa è successo. Renzi, che possiede ancora un gran bottino di voti all'interno del partito e dispone anche di una struttura organizzativa che è rimasta imponente e ben oliata, soprattutto se riferita a quelle degli altri concorrenti, aveva deciso da tempo di non volersi ricandidare come aspirante segretario del Pd.

Dopo la sventola del referendum costituzionale e la scoppola delle ultime elezioni politiche, Renzi, ridimensionando il suo io che, da sempre, è sempre più ottimista dei fatti, non voleva subire la terza sonora sconfitta consecutiva. Per questo ha scelto come suo candidato Minniti. Quest'ultimo però, anziché cogliere l'occasione offertagli dal fiorentino, l'ha a lungo lasciata cadere, per far capire che lui non era certo l'emissario, per non dire lo zerbino, di Renzi. Quando il termine per affrontare la corsa per le primarie stava scadendo, Minniti ha scelto di accettare la sfida ma dichiarando che lui correva da solo ed esibendo nel contempo un visibile un distacco verso gli amici di Renzi che l'ex segretario Pd gli aveva messo alle calcagna.

Di fronte a questa «irriconoscenza» (è questo il termine usato da renziani) anche l'impegno di questi ultimi, pur non essendo mai venuto a meno, è stato meno entusiasta. Tant'è che i sondaggi (che vanno sempre presi con le pinze ma che comunque dicono sempre qualcosa) hanno evidenziato che il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, aveva un vantaggio di almeno otto punti percentuali rispetto a Minniti. Un vantaggio importante, certo. Ma non incolmabile se il duo Minniti-Renzi avesse funzionato all'unisono. Questo però voleva dire rendere evidente che alla corsa, come succede nel ciclismo, partecipavano due corridori che si ripartivano gli sforzi, anche se, ovviamente, il traguardo sarebbe stato vinto da un solo di essi, se le cose fossero andate bene.

Accusare adesso Renzi, come ha fatto ieri Minniti, di non essere stato entusiasta nel tirargli la volata dopo che lui non aveva nemmeno considerato Renzi e i suoi uomini come degni di far parte della sua squadra, è un po' esagerato. Minniti infatti non si era reso conto che, da solo, non poteva andare molto lontano. Senonché dopo aver rivendicato l'autonomia, si è anche reso infine conto che da solo non ce l'avrebbe mai fatta. Gli è quindi crollata l'adrenalina, i muscoli gli si sono induriti ed è stato costretto a dare forfait. Minniti ha raccolto nulla perché ha presunto troppo da se stesso. Lui che ha sempre dimostrato di possedere la visione laterale, questa volta non l'ha usata.

Peccato, perché, come dicevo, Minniti sarebbe stato un vero toccasana per il Pd. Sarebbe infatti stato in grado, pur restando un uomo di sinistra, di estrarlo dalle secche vetero-marxiste, mai esibite ma sempre presenti; e dalla pulsioni terzomondistiche, datate oltre che patetiche, ma anche mai sconfitte. La sua ritirata è quindi una sconfitta per tutti. Per Minniti, certo, che, agendo in questo modo, ha intaccato il suo patrimonio di autorevolezza e di esperienza. Ma anche per Renzi, che ha perso tempo su un'ipotesi che non ha tenuto. E infine pure per Zingaretti che, vincendo così, è come vincere senza antagonisti. Nessuno sa infatti, a questo punto, se aveva la forza e la rappresentatività per vincere. Taglia il traguardo ma con le gomme sgonfie.

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