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Palazzi & potere
Viola Di Grado: “Ogni Storia d’amore è una storia dell’orrore”

Visionario e poetico come il primo lungometraggio di David Lynch, Eraserhead, struggente quanto il finale di Addio alle Armi di Ernest Hemingway, connotato da un’intensità assoluta e una purezza assorta,   questo è ‘’Fuoco al cielo’’ (La Nave Di Teseo), l’ultimo sorprendente romanzo della scrittrice e orientalista Viola Di Grado. Nata a Catania nel 1987, l’autrice è tradotta in molti Paesi del mondo, ha ricevuto recensioni entusiastiche da testate internazionali e autorevoli quali il Guardian e il New York Times. Nel 2011 ha vinto il Premio Campiello Opera Prima per il romanzo Settanta Acrilico Trenta Lana e a soli ventitré anni  è stata la più giovane finalista del Premio Strega. Cura una rubrica letteraria su La Stampa – Tutto Libri e su Linus.

Viola Di Grado ama Joyce Carol Oates, non le piace Philip Roth, nella musica predilige P.J. Harvey e Bjork.

‘’Il romanzo deve essere autentico non autobiografico. Fuoco al Cielo l’ho scritto in pochi mesi, è stata come una possessione’’ ci confida.

Una delle interpreti più importanti della musica contemporanea, Diamanda Galas, dopo averla letta voleva collaborare con lei, ma poi non se n’è fatto più nulla, almeno per ora. La scrittrice inglese Jami Attenberg è una sua carissima amica ed estimatrice, Viola è anche la sua traduttrice italiana, perché ci spiega: ‘’L’amicizia è a prima vista come l’amore, ci si riconosce in quanto simili’’.

La storia di ‘’Fuoco al cielo’’ è ispirata a fatti realmente accaduti nel luogo più radioattivo del pianeta. La ‘’Grodek’’ (Georg Trakl, Grodek) di Viola Di Grado è Musliomovo un villaggio ai confini della Siberia dove tutto è contaminato: la natura, l’aria, l’acqua, l’anima, i sentimenti. Tamara ha perso i genitori, non è avvenente, non ha particolari pregi e non riesce a capire come mai un uomo bello e generoso come Vladimir, un infermiere di buona famiglia che viene da Mosca, possa amarla. Della sua protagonista femminile l’autrice dice: ‘’Tamara ha un’enorme capacità di amare. Ha tanto amore e non sa dove metterlo’’.

Nella ‘’Città Segreta’’, che pur essendo reale non esiste sulle mappe, nasce l’amore: "Credevano che i corpi fossero un dono di Dio, tane perfette per mettersi al riparo dagli agguati della mente. Era un modo sicuro di amare, stare sulla pelle per non stare nell'abisso, e lei aveva l'abisso nella testa, dappertutto, un fondale nero" ( Fuoco al Cielo, Viola Di Grado )’’  e il frutto di quell’amore tossico e tormentato: un non nato che la madre dapprima rifiuta e poi ama nella sua assenza  e nella sua indefinitezza, fino quasi a perdere la ragione o forse no. Un luogo dove persino Dio ha abbandonato gli uomini, in cui di conseguenza non si percepisce più la distinzione tra il Bene e il Male, dove non si riconosce l’amore quando c’è. Una terra di morti viventi in cui tanti esseri umani non vedono  la luce: ‘’ Nel vento autunnale lamenta dei non nati il pianto, e anche luci si vedono andare errando’’ (Georg Trakl, Giorno dei Morti. A Karl Hauer). Laddove la morte è più viva della vita stessa.

 

 ‘’Fuoco al cielo’’ è abitato da una luce dolente, ha un forte impatto sul lettore, è un romanzo che ferisce stilisticamente e contenutisticamente. La letteratura deve ferire?

Sì, lo diceva anche Kafka che i libri devono essere un’ascia all’interno del mare gelato che c’è dentro di noi. Tutti abbiamo un mare gelato, è importante preservarlo e non rimanere in superficie, anzi  esplorare quegli abissi di cui è pieno il mio libro.

 

Il luogo in cui è ambientato è reale, raccontaci di più.

Musljumovo esiste, è un villaggio dimenticato da tutti e soprattutto dal governo, un luogo che esisteva sulla soglia della ‘’città segreta’’ che non compariva sulle mappe perché la gente viveva nel lusso sfrenato in cambio di una vita a contatto con la morte respirando plutonio. Una città costruita su una centrale nucleare, responsabile di tre catastrofi nucleari. In questa atmosfera apocalittica può nascere persino un amore, velenoso come tutto il resto, pervaso da un sentimento estremo.

‘’La città segreta’’ ha anche un valore simbolico?

La città segreta mi ha colpito non solo per quello che era realmente, cioè un posto dove accadeva il male assoluto senza che nessuno lo sapesse, ma anche come metafora. Ogni storia d’amore ha dentro di sé una sorta di ‘’città segreta’’, un luogo pericolosissimo dove può accadere di tutto, dove   esiste il lusso più sfrenato del sentimento, della condivisione, e il pericolo continuo di disintegrarsi, perché è il luogo di ogni relazione, in cui si perdono i confini tra sé e l’altro e può accadere qualsiasi cosa, ci si può salvare con qualcosa di molto piccolo e ci si può al contrario disintegrare, perché ogni storia d’amore è una storia dell’orrore.

D. F. Wallace scriveva che ‘’Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi’’. Qui ce ne sono?

È un romanzo pieno di fantasmi: molti vivi, molti sopravvissuti e anche molti morti.

Vladimir prega Tamara di lasciare il villaggio, ma lei si infuria, vuole restare assieme ai morti, con i suoi genitori che sono sepolti nel cimitero del villaggio e con le altre persone che non hanno potuto scappare. Lei sente il dovere di non abbandonarli e di fare compagnia a tutti quei morti, a tutti quei fantasmi.

Della Tamara realmente esistita, alla quale hai dedicato il libro, che cosa hai saputo?

Non si conosce quasi nulla della vera Tamara, si sa che rubava i fiori dal cimitero e che per questo tutti la credevano pazza. Invece, questo gesto mi ha intenerito molto. Ho cercato di immaginare perché una donna ruberebbe i fiori dal cimitero e mi sono risposta che quei fiori ai morti non servivano più, ma a lei sì. Perché Tamara viveva un’esistenza assolutamente desertificata in cui anche soltanto la gioia portata da un fiore, che è creatura viva, nella sua casa poteva essere importante.  La storia che esiste su di lei e che si trova anche su internet mi ha colpito moltissimo, il fatto che nel bosco del suo villaggio trovò una creatura indefinibile, un bambino di 25 cm senza genitali, senza ombelico, che scientificamente potremmo immaginare essere un prodotto di quelle radiazioni di quell’ambiente contaminato e terribile. Però ci sono anche altre teorie, perché è stato fatto un test del Dna che è risultato non umano. Mi affascinava l’incatalogabilità di questo essere specialmente in questa nostra epoca in cui c’è sempre l’ansia di definire ogni cosa. Invece, la bellezza di questo essere è che c’è e basta, in mezzo alla natura contaminata e all’orrore  esiste.

Sembri uscita da un film del primo Tim Burton

Chi io o tu?

 

Che cos’è la scrittura per Viola Di Grado?

La scrittura per me è una dimensione esistenziale. C’è una totale coincidenza tra me e la scrittura ed è una cosa terrificante

Perché?

Perché è anche spaventoso. Io coincido completamente con le cose che scrivo, non nel senso che è autobiografico, ma nella misura in cui mi sembra di vivere al servizio di questa scrittura. Le scelte che faccio consciamente non sono scelte per la scrittura, ma è come se io fossi al servizio totale e quando non scrivo è come se non ci fossi, se non esistessi. Il periodo peggiore nella mia vita coincide sempre con il termine di un libro, come ora, perché c’è una pausa vitale necessaria dalla scrittura e mi sento persa, senza radici su cui poggiare e come si fa? Se la mia vita è scrittura, quando non c’è come faccio a vivere? Sì, vivo perché sono qui, respiro, ma è una cosa molto strana che è difficile da spiegare. Infatti, quando mi fanno domande tipo: ‘’quando hai deciso di fare la scrittrice? Rispondo che non c’è mai stata una decisione del genere, perché non ho mai deciso ad esempio di essere una donna o un essere umano, è una cosa che ero e non che facevo, così è la scrittura per me. La cosa più naturale anche da bambina.

Che bambina eri?

Avvertivo una distanza fortissima con gli altri bambini, mi sentivo molto diversa, il mio pensiero e le mie parole lo erano, ovviamente cercavo di avvicinarmi ma c’era sempre uno scarto, una distanza enorme, un baratro, ed era lì che nasceva la scrittura

Come rifugio anche?

No, come modalità di esistere. A un certo punto a 8 anni avevo deciso che non avrei parlato mai più, l’avevo messo anche per iscritto perché per me era una cosa serissima, un patto che stavo firmando con me stessa. Avevo deciso che fino ai 17 anni avrei soltanto scritto. La comunicazione con gli altri non mi piaceva, la trovavo insoddisfacente. Poi ero una bambina molto solitaria, riflessiva, non sorridevo quasi mai e allora le maestre mi scocciavano e mi spronavano: ‘’sorridi’’. Da adulta sorrido e ho voglia di sorridere, ma da bambina non mi piaceva, non lo sentivo mio questo modo di esternare. Ma d’altronde perché uno deve sorridere? Tu puoi esprimere dei sentimenti in tanti modi. Questa è una società ipocrita e superficiale, l’importante è sorridere poi cosa c’è dietro non importa.

Inoltre la trovo una  cosa estremamente sessista, perché di solito sono gli uomini a dire alle ragazze: ‘’ sorridi!’’ e mai il contrario. Una ragazza deve sorridere!

Dorothy Parker nel suo splendido racconto ‘’Big Blonde’’ racconta di una ragazza, bella e bionda, l’immagine della bellezza tipica che piace agli uomini specie in quegli anni, che sorride sempre, spronata dagli uomini che incontra, ma poi nasconde tutte le amarezze.

Pensa anche a Sylvia Plath. Quando era predominante in lei il falso ‘’Io’’ si tingeva di biondo e invece quando era più autentica, scriveva le poesie, capolavori come Ariel, era bruna, il suo colore naturale. Penso che si tingesse di biondo i capelli quando era completamente incentrata su questo falso Io, sulle relazioni sociali, sul fatto di piacere e di essere accettata dagli altri.

Che cosa ne pensi del marito, il poeta e scrittore inglese Ted Hughes?

Era una creatura malefica. Lei sicuramente, pur nel suo genio, era una persona difficile con delle sofferenze fortissime, però lui era un demonio, ha portato al suicidio due delle donne che lo hanno amato. Anche due figli, la figlia avuta con Assia, che quest’ultima portò con sé nella morte suicidandosi, e il figlio avuto con Sylvia, Nicholas, che si è impiccato.  Lui ha seminato suicidi e morte.

C’è qualcosa che temi, che ti spaventa? Quali sono i tuoi demoni?

Le cose che ho temuto non sono mai state relative alla realtà esterna, quotidiana. Sono sempre state relative a me. Io ho più paura di me che  della morte. Perché ho una vita interiore così preponderante e stratificata  che si collega anche al fatto di essere io stessa scrittura. Cioè questo narrare la vita che supera la vita stessa, è sempre ridondante e ho paura delle  idee, dei pensieri, cose costruite dalla mia mente, perché la realtà la trovo abbastanza innocua. È quello che io posso fare della realtà, è il modo in cui la manipolo che mi spaventa.

Hai paura di perdere il controllo, di arrivare troppo al fondo di te stessa?

Sì, so di poter arrivare molto in fondo. Ho paura di quanto posso scendere. So di avere degli abissi incredibili. Sono spaventata da queste discese a cui comunque tendo molto.  Quindi faccio un lavoro costante su me stessa per tenermi più in superficie per non scendere troppo giù. Sto imparando, sto acquisendo degli strumenti interiori. Sono molto lucida, gli abissi ci saranno sempre ma sto imparando ad affrontarli cercando di cadere senza farmi troppo male.

La scrittura ti aiuta?

No, è il modo in cui vivo, è difficile dire quale sia la sua funzione essendo condizione connaturata come respirare, è come chiedermi se respirare mi aiuta a vivere. Certo che mi aiuta, è naturale, mica posso vivere senza respirare, è una cosa intrinseca, fa parte di me. Non riesco a immaginarmi al di fuori della scrittura. La non scrittura per me è una non identità. Però non sono lo scrittore che scrive più di quanto vive, anzi sono il contrario nel senso che, da sempre, vivo molto. Credo nel fare esperienze, nel vedere luoghi, non sto mai ferma, mi piace incontrare persone nuove. Non credo nella scrittura che ti viene solo da dentro, a me non interessa. Mi nutro moltissimo del mondo esterno e penso che la scrittura sana sia questa, un dialogo tra il mondo interno e il mondo esterno non una scrittura claustrofobica tutta ripiegata su stessa che viene soltanto da dentro.

Un’altra paura è restare ferma, essere statica, non cambiare.

Non vorresti un nido, un luogo in cui tornare?

Tutti abbiamo bisogno di un nido, una casa, qualcosa di solido a cui tenersi aggrappati.

E allora come la metti con il fatto di non essere stanziale?

Ho una casa a Catania, ogni tanto ci torno, me l’ha lasciata mio nonno paterno e l’ho ristrutturata e arredata a gusto gotico, anche se poi c’è una zona più colorata, stile anni settanta, che stranamente vivo di più. Quando vengo a Roma c’è la casa di mia madre. Poi vivo nelle residenze per gli scrittori in giro per il mondo.

Io muto continuamente, ogni individuo è tante persone in seno a sé. Anche nell’amore emerge questa natura, per questo penso che molti tradiscano ma io non ho mai tradito, però può capitare di amare più di una persona contemporaneamente, perché l’altro mette in luce solo una piccola parte di noi non tutta la nostra complessità.

 

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