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Politica
Scissione Pd: mi si nota di più se mi scindo o se resto?

L’ Assemblea nazionale del Pd di ieri ha consegnato una situazione di ambiguità perché la scissione Pd è stata agitata ma non agita e questo in effetti complica le cose per il segretario dimissionario del Pd perché lo stato di confusione, come diceva Mao, è propizio e lo è appunto per chi vuole fare qualcosa non per lo status quo.

La giornata di ieri, dopo il discorso di chiusura di Matteo Renzi alla minoranza, era sembrata recuperare un clima di concordia con l’intervento dal palco di Michele Emiliano che dicendo di parlare a nome di tutti e tre gli “scissionisti” e quindi anche di Speranza e Rossi, apriva inaspettatamente all’ex premier facendo presagire appunto una inaspettata ricomposizione.

Poi però la doccia fredda a fine Assemblea con un comunicato stampa a tre, questa volta congiunto, in cui si diceva che la “scissione Pd era stata voluta da Renzi” ma non la si annunciava formalmente.

Una mossa quella degli scissionisti che appunto serve solo a prendere tempo e a mettere sotto pressione Matteo Renzi condannato dalla formidabile burocrazia sovietica che ancora domina il Pd erede dei comunisti italiani ad una faticosa spola tra Assemblea e Direzione.

Il sospetto che viene è che questa tattica che non sembra far parte di una lungimirante strategia serva solo a lucrare qualche posizione di potere all’interno del Pd stesso; è una manovra del resto ben nota, prima dei congressi si forma una più o meno finta “minoranza” che pone condizioni e vincoli alla maggioranza per “avere qualcosa” che, in tempi imminentemente elettorali, significa posti in lista per il Parlamento, posti nelle istituzioni o -se proprio va male- posizioni rilevanti nel partito.

In questa ottica, ad esempio, è da leggersi l’azione dei Giovani Turchi del Pd che nati come “minoranza” hanno poi ottenuto sia ministeri, Martina all’Agricoltura e Orlando alla Giustizia che potere interno al partito con Orfini alla Presidenza e commissario del Pd romano.

Questo non vuol dire naturalmente che non ci sia un profondo problema politico nel Pd e cioè il suo snaturamento e spostamento “a destra” operato, altrettanto naturalmente, dagli eredi inossidabili della Democrazia Cristiana (a Roma il Pd ha vinto solo nel “quartiere dei ricchi” e cioè i Parioli) ma non pare che ci sia una minoranza “nobile” che si muova si questo terreno dei valori ideali per rivendicarli in un dibattito politico che sia scevro da interessi di poltrone.

Insomma siamo lontani dalle figure di grandi politici che guidarono grandi scissioni come quella di Saragat che iniziò un percorso veramente riformista nel socialismo italiano e che fu premiato, però dopo molti anni, con la Presidenza della Repubblica.

Ma in questi tempi ci si accontenta di poco e soprattutto lo si vuole subito e in questa prospettiva almeno per ora, è da leggersi il dilemma degli “scissionisti”: “mi si nota più se mi scindo o se resto?” come direbbe amaramente Nanni Moretti.

 

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scissione pd





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