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Politica
Politica, il linguaggio: da Sgarbi a Grillo a Saviano, storie di volgarità

La politica è l’arte del possibile per giungere ad un accordo, ma spesso è anche confronto duro e violento, verbale e a volte fisico.

Nell’immaginario collettivo italiano, almeno di chi era adolescente negli anni ’60 dello scorso secolo, è rimasto impresso un modello di politica e di uomo politico ormai quasi completamente sparito dalla scena.

Infatti, nonostante i rilevanti eventi sociali, in media in quel periodo si è assistito ad un confronto civile, ritmato dagli incontri trasmessi dalla Rai di Ugo Zatterin che si chiamavano “Tribuna politica” e che, anzi, erano universalmente noti per essere altamente soporiferi, forse anche per l’ora a cui erano trasmessi e il micidiale bianco e nero ipnopompo.

Pure gli anni ’70 furono sostanzialmente caratterizzati da un confronto civile, anche se questo non deve ingannare circa il clima politico dell’epoca che era quello del terrorismo e dei cosiddetti anni di piombo.

Ma quando atterrò la volgarità nel linguaggio della politica?

L’inizio di tutto, negli anni ’80, è da considerarsi principalmente nella cosiddetta “Tv spazzatura”, inaugurata dall’ingombrante Giuliano Ferrara, che solleticò gli istinti più bassi dei telespettatori, copiando del resto il modello Usa che aveva funzionato oltreoceano.

Una volta che le zuffe e gli improperi furono di casa nel salotto televisivo italiano, i cittadini si sentirono naturalmente legittimati rispetto a questo tipo di comportamento e i politici capirono che se volevano essere votati nell’era digitale, dovevano dare spettacolo, insultandosi e malmenandosi verbalmente e qualche volta anche fisicamente, tutto in nome dell’audience.

Infatti il politico soporifero, ma educato, non faceva (e non fa) -tranne rarissimi casi come quello di Giulio Andreotti -audience e quindi non viene più invitato in studio e perciò si adatta a comportarsi male perché sa che è un meccanismo premiante.

Non è che nella Prima Repubblica tali liti televisive mancassero, come quelle storiche tra il dc Andreatta e il socialista Formica, ma si mantenevano nei canoni della civiltà, pur con una eccessiva colorazione emotiva.

L’ evento clou tra loro è del 1982 e verteva sulla separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia; passò alla storia con il suggestivo appellativo di “lite delle comari” e portò alla caduta del governo Spadolini e alla formazione del quinto governo Fanfani.

Di Formica si ricorda anche una definizione non proprio universitaria, ma suggestiva: “la politica è merda e sangue”. Il politico pugliese è del resto anche il padre di un’altra espressione entrata nell’immaginario collettivo, “nani e ballerine”, riferito al sottobosco cortigiano socialista che gravitava intorno a Bettino Craxi a Roma.

Si ricordano, tra i più famosi interpreti successivi, Vittorio Sgarbi con i suoi eccessi iracondi e schiumanti sputi e contumelie, e Beppe Grillo con i suoi “vaffa”.

Dunque, se volessimo tentare una analisi sociologica superficiale, ma probabilmente aderente alla realtà, potremmo dire che la volgarità in politica, intesa in senso semiotico, nasce in Tv nei talk show e si trasferisce nella società in un meccanismo di mutuo scambio.

L’emergere del populismo, che a sua volta è frutto, in questa fase storica, di Mani Pulite e del giustizialismo, che a sua volta è frutto dell’eccesso di ruberie dei politici della Prima Repubblica, portò necessariamente con sé i toni di un linguaggio forte e colorito, dirompente, sempre alla ricerca dell’effetto verbale volgare, della parolaccia fine a se stessa e non più solo dello slogan, magari a rima baciata degli anni precedenti.

Famosa in tal senso è la scritta trovata in un bigliettino per il voto del Presidente della Repubblica nel 1971; l’opera d’arte è di un franco tiratore democristiano ed è giustamente famoso per compattezza, rima e concisione: “nano maledetto non sarai mai eletto” ed è riferita al sempre DC Amintore Fanfani che infatti perse la corsa al Quirinale al 23esimo scrutinio a favore di Giovanni Leone.

Ma torniamo a tempi più recenti.

Iniziò il populismo linguistico Antonio Di Pietro, con un vernacolo paesano, suggestivo (“ma che c’azzecca”), ma sempre mondo da parolacce e poi giunse lo scaltro Grillo che dell’insegnamento del maestro molisano ne fece un’arte condendo l’eloquio genovese con i crismi di una volgarità violenta e volgare, che però piace tanto agli italiani, almeno a guardare i recenti risultati elettorali. La parolaccia fa senso, fa pienezza, fa identità, fa rotondità umana e antropologica e coesione sociale.

In tutto questo i “due Mattei”, pur con toni diversi, non sono mai scaduti nel turpiloquio come del resto mai Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni.

Qualche volta la pazienza è scappata a baffino Massimo D’Alema, che, come noto, vede rosso (non solo politicamente), quando incontra un giornalista.

Recentissima è invece la “perla” dello scrittore gomorresco, Roberto Saviano, che dice che “Salvini beve piscio”, riferendosi al brindisi con vino bianco fatto dal leader leghista per festeggiare la vittoria elettorale di qualche giorno fa.

Anche gli attori hanno dato il loro rilevante contributo, come Adriano Celentano, che guarda caso rientra anch’esso nel filone populista, seppur giacobino, con tinte surrealiste.

Il processo di sdoganamento, politico e non, del turpiloquio ha sicuramente molto da ringraziare il generale clima mondiale occidentale di perdita di valori sotto la potente spinta anarcoide, nascosta da un populismo di facciata, che ha origine, come spesso accade, negli Stati Uniti e ha raggiunto poi l’Europa e soprattutto l’Italia, dove ha trovato un terreno assai fertile e produttivo.

Famoso è il linguaggio politically scorrect del Presidente Usa Donald Trump che però, significativamente, gli ha fatto vincere le elezioni, complice un’alleanza con l’uccellino blu di Twitter.

Per concludere il “nuovo linguaggio della politica” è un adeguarsi ai mutati tempi di volgarità e pochezza culturale, gli induisti lo chiamerebbero Kali Yuga, Epoca Nera, che l’intera società sta sperimentando. E non potrebbe che essere così, visto che in democrazia la politica “non educa”, ma è piuttosto “educata” dalla società.

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